• Non ci sono risultati.

SECONDA PARTE Dalla parte della metrica

5. U NA NUOVA METRICA STA NASCENDO

5.1 L’ipotesi di Fortin

Nel saggio pubblicato su «Officina» – Verso libero e metrica nuova (1958) – Fortini ipotizza l’esistenza di un verso italiano scandito non più a partire dal numero di sillabe, ma da una serie di accenti principali, distribuiti tendenzialmente, ma non sempre, in maniera isocronica. Secondo l’autore, durante gli ultimi dieci-quindici anni del secondo dopoguerra italiano si sarebbe sviluppata tra i poeti contemporanei una tendenza compositiva distante sia dalla «ormai più che semisecolare ritmica “libera”» delle avanguardie sia dai «caratteri “reazionari” cioè meramente allusivi e restauratori che ebbe nel ventennio» la tradizione. La nuova metrica accentuale viene fatta coincidere con il superamento di due posizioni estreme: l’integrale “allusione” metrica, o «pseudotradizionalismo», da una parte; l’integrale rifiuto dei metri, o «pseudoritmicità “pura”», dall’altra.24

L’opposizione di Fortini alle pratiche compositive del suo tempo – corrispondenti a un

ethos di un singolo poeta o di un gruppo di poeti – risulta centrale per comprendere gli

sviluppi della sua poetica, nonché la sua posizione di critico e intellettuale. A ben guardare, infatti, è possibile leggere nelle sue formulazioni una presa di distanza nei confronti di precisi modi di intendere la realtà a partire dalla scrittura, al di là cioè dell’immediato dibattitto estetico sulla tecnica compositiva. Sono inoltre convinto che una buona comprensione degli interventi fortiniani sulla metrica abbia bisogno di un inquadramento globale dell’evoluzione della sua scrittura poetica nel tempo. Una conferma di questa ipotesi può essere riscontrata nel solco che separa la svolta compositiva posta all’altezza di

Paesaggio con serpente (1984), dove è possibile individuare, sul piano della teoresi letteraria,

uno spostamento di focus da una metrica intesa «per definizione» come tradizione a una “metrica” considerata anche come percezione. Sul piano strettamente gnoseologico, è possibile inoltre scorgere una sotterranea scissione formale tra due polarità in opposizione

– «storia e natura, mia e non mia che insiste»25 – qui evidenziate nella struttura binaria del

lavoro, le cui parti alludono a due fasi ben distinte del fare poetico fortiniano.

Se in un primo momento l’autore colloca infatti la necessità di riferirsi a una metrica intesa come collante sociale, in una fase più matura di teoria critica, tempi metrici e tempi sociali si divaricano in durata, fino ad accogliere l’esistenza di una più complessa «struttura

di opposizioni gestuali, di conflitti di voci, di tempi verbali, di conflitti emotivo-concettuali»26

non ascrivibile a uno schema impiegato per definire il movimento contraddittorio della scrittura nel discorso. Come vedremo nelle pagine che seguono, l’opposizione tra i due poli non è mai per Fortini netta, bensì dialettica: ogni momento conserva le tracce del cammino che ha percorso, in un movimento che oscilla tra testo e contesto, tra forma e contenuto, tra metrica e libertà.27

Sulla base della dichiarata compresenza tra ethos e poetica, sarebbe pertanto possibile cogliere, nel discorso degli anni Cinquanta, da una parte la tendenza a criticare l’esasperato vitalismo, che più avanti esploderà in quello che lui stesso definirà «surrealismo di massa»;28 dall’altra, una rinnovata critica nei confronti del «sonno» politico

vissuto dal giovane poeta nella Firenze fascista, «città nemica» e allo stesso tempo patria spirituale, sedimentata nella memoria dell’autore come archetipo di antagonismo etico ed estetico.29

Collegando le riflessioni sulla metrica alle tensioni e alle contraddizioni che si stabiliscono con il contesto con il quale il componimento dialoga e si costruisce, è possibile

25 Metrica e biografia, PE, p. 190; cfr. supra, 4.1. 26 MB, p. 62.

27 cfr. anche QF, p. 147.

28 cfr. F. Fortini, Introduzione a F. Fortini, L. Binni, Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1977, p. 25;

si veda inoltre Daniele Balicco, Fortini, il postmoderno e la mutazione, in Studi in onore di Romano Luperini, a cura di Pietro Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp. 467-487; ora in Id., Nietzsche a Wall Street, cit., pp. 27-54. Balicco evidenzia nel suo saggio le differenze tra le due introduzioni del 1959 e del 1977.

29 L’insistenza sullo stato letargico della situazione culturale italiana spinge Fortini a riprendere il topos del

sonno in numerosi componimenti del periodo. Oltre alla lirica liminare di Foglio di via (E questo è il sonno), che fa il pari col disegno di copertina del ragazzo addormentato sul fianco destro, si legga Arte poetica, testo fin dal titolo programmatico e allusivo ai modi classici di esporre il proprio fare compositivo: «Tu occhi di carta tu labbra di creta / tu dalla prima saliva malfatto /anima di strazio e ridicolo / di allori finti e gestri // tu di allarmi e rossori / tu di debole cervello / ladro di parole cieche / uomo da dimenticare // dichiara che il canto vero / è oltre il tuo sonno fondo / e i vertici bianchi del mondo / per altre pupille avvenire. // Scrivi che i veri uomini amici / parlano oltre i tuoi giorni che presto / saranno disfatti. E già li attendi. E questo / solo ancora è il tuo onore. // E voi parole mio odio e ribrezzo, / se non vi so liberare / tra le mie mani ancora / non vi spezzate» [1948-50], PE, p. 96; ma soprattutto, il ritorno della poesia liminare nella lirica conclusiva di Composita solvantur: «Tutto è ormai un urlo solo. / Anche questo silenzio e il sonno prossimo», CS, p. 562.

cogliere la presenza di quella «semantica del metro» che Stefano Colangelo ha riconosciuto come carattere distintivo della riflessione fortiniana sulla tecnica compositiva, ovvero «lo studio del rapporto tra la nuova percezione del metro, data dall’introduzione del verso accentuativo, e il significato».30 Secondo Colangelo, la metrica

per accenti non deve essere considerata né un’imitazione, né un «vezzo esotico»: «si tratta del modello che meglio di altri, a giudizio di Fortini, può orientare ad un medesimo fine il corpo sonoro e il senso della poesia, la capacità di formalizzazione e quella di denotazione».31

Accanto all’osservazione di Colangelo, è possibile proporre un’ulteriore sfumatura semantica dell’espressione «significato della metrica». Quest’ultima potrebbe infatti essere intesa sia come “significato che la metrica apporta al senso globale del testo”, la sua reale capacità di significazione, sia come “significato del concetto di metrica”, modellato storicamente all’interno di un pensiero occidentale in “opposizione” alla nozione di ritmo. Nel primo caso, il potere di significazione della metrica va compreso nell’ordine di una tradizione che orienta il lettore secondo la sua reale capacità di cogliere una forma che allude a un contenuto sedimentato nelle più remote cavità della memoria metrica collettiva. Nel secondo, si tratta di intendere la metrica come dispositivo discorsivo di un meccanismo più complesso, «indizio e strumento rivelatore dei rapporti reali, obiettivi, fra gli uomini, e fra questa realtà e il poeta».32 Quest’ultimo punto viene affrontato da

Fortini nel saggio di «Ragionamenti» che sarà oggetto del capitolo successivo, vero e proprio presupposto metodologico – e ideologico, secondo l’adagio di Cases33 – di questo

suo intervento di «Officina» dedicato al verso accentuativo.

In Verso libero e metrica nuova, Fortini rimanda in apertura alla terminologia dei concetti di metrica e di ritmo esaminati in Metrica e libertà, mettendo in guardia il lettore dal radicato pregiudizio di memoria romantica della completa irrilevanza di qualsiasi convenzione metrica in nome di un’immediatezza espressiva della parola. Tale pregiudizio

30 «Nei suoi saggi appare individuata la crisi inevitabile di quelle riflessioni metriche che si ostinano a

trascurare il rapporto con la sfera del significato: è questo, che lo spinge al tentativo accentuativo in italiano, cioè ad una strada nel complesso poco battuta, e legata ad una riflessione molto profonda sulla semantica del metro» in Stefano Colangelo, Metrica come composizione, Gedit, Bologna 2002, pp. 69-70.

31 Ivi, p. 65. 32 SI, p. 794.

33 «La questione dei presupposti ideologici viene sempre a coincidere con quella dei presupposti

doveva apparire agli occhi dell’autore sia come un limite idealistico, «perché credeva alla indistinguibilità della forma dal contenuto», sia naturalistico, «perché tendeva a far coincidere autenticità espressiva con intonazione e quindi il verso con la cadenza sintattica».34 Più nello specifico, l’identità forma-contenuto viene rifiutata da Fortini solo

se assunta come mistificazione ideologica del discorso poetico confinato in un’estetizzazione che lo priva della dialettica necessaria atta a riconoscere le contraddizioni dei due poli senza assorbirli in un atto di vitalismo avanguardista o in un’indistinguibilità fallace.

Il problema dell’antinomia forma-contenuto – che passa certo per una differente adozione terminologica dei due termini nelle diverse correnti del pensiero filosofico – ha per Fortini radici gnoseologiche e metodologiche, prima ancora che linguistiche o estetiche.35 Nella sua recensione a I segni e la critica di Segre, inserita nel volume di Saggi italiani del 1974 al limite della sezione che precede i tre interventi sulla metrica degli anni

Cinquanta pubblicati in rivista, Fortini constata la «morte vituperosa» dell’antinomia forma-contenuto, indicando nella semiologia il compito di averle promosso «un accurato funerale». Ogni superamento della «vecchia antitesi» è tuttavia possibile per lui:

solo se si tiene presente che da un’unità si promuove sempre una dualità e viceversa; che, per esempio, l’equazione per cui le «strutture individuali» […] stanno […] a quelle «storiche» come la “forma” – di venerata memoria – sta al “contenuto”, non è separabile dall’«ipotesi» di una tendenziale «omologia fra strutture individuali e strutture storiche.36

Malgrado le successive riformulazioni,37 Fortini insiste più volte sulla necessità di

riconoscere l’esistenza di un’astrazione formale per la costruzione discorsiva della poesia: «pena la propria morte in quanto verso e cioè l’inutilità di ogni distinzione tipografica dalla prosa».38 Secondo l’autore, il rischio di dispersione della scrittura in versi aveva

portato anche i più “liberi” tra i poeti a dotarsi, ciascuno per proprio conto, di «una convenzione privata fra sé e sé, una recinzione metrica».39 Ma poiché non è possibile

34 SI, p. 802. 35 SI, p. 773. 36 SI, p. 772. 37 Cfr. Poesia e antagonismo (1977), QF, p. 147. 38 SI, p. 772. 39 SI, p. 802.

parlare di metrica se non all’interno di una socialità e di un sistema di regole collettivamente condivise (almeno stando alle sue teorie di questo periodo), non si poteva ancora affermare l’esistenza, per i poeti che praticavano il verso libero, di metrica tout court, in assenza di «costanti intersoggettive» che emergessero o venissero riconosciute all’interno di una collettività letteraria. La presenza di moduli socialmente condivisi – caratteristica agli occhi di Fortini del panorama poetico italiano del secondo dopoguerra – stava portando gradualmente alla nascita di una «nuova metrica» fondata sul compromesso fra numero di sillabe, ricorrenza di accenti forti e durata temporale di questi in una serie.40

Le premesse di una nuova metrica italiana a base accentuale sarebbero le seguenti: a) indebolimento dello statuto sillabico della versificazione a favore di una prominenza di accenti detti “ritmici”; b) rifiuto dell’analogia tra metrica quantitativa classica e durata delle sillabe italiane; c) progressivo spostamento dall’isocronia di tipo sillabico – caratteristica dell’italiano (e dello spagnolo)41 – alla ricorrenza isocronica di “accenti forti”

nel verso, ammettendo però, almeno in fase iniziale, l’alternanza dei due criteri prosodici. L’ultimo punto presta il fianco a facili fraintendimenti, dal momento che – come vedremo più avanti – risulta talvolta difficile attribuire un “accento principale” oggettivamente valido a un verso composto in una lingua a struttura così fortemente sillabica.42

Consapevole del debole apparato teorico schierato per sostenere la fisionomia accentuale italiana, Fortini torna a insistere sulla nuova metrica in un saggio pubblicato alcuni mesi dopo su «Paragone» – Su alcuni paradossi della metrica moderna43– dove alla

ripresa sostanziale delle formulazioni dello scritto di «Officina» egli aggiunge un nuovo tassello terminologico. Al fine di irrobustire l’ipotesi accentuale e di ridurre l’arbitrio di quelli che pochi mesi prima aveva genericamente definito “accenti forti”, Fortini propone di utilizzare la nozione anglo-germanica di “centroide”, ovvero «accento corrispondente

40 SI, pp. 802-803.

41 Paolo Giovannetti, Gianfranca Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Carocci, Roma 2010, p. 271.

Lloyd James ha comparato le lingue a isocronismo sillabico, come l’italiano e lo spagnolo, al suono di una mitragliatrice e le lingue a isocronismo accentuale, come l’inglese e il tedesco, al suono di un messaggio in alfabeto morse. La dicotomia è stata ripresa da Pike e da Abercrombie, che ha esteso la distinzione tra i due modelli a tutte le lingue del mondo; cfr. Marina Nespor, Fonologia, il Mulino, Bologna 1993, p. 258.

42 Cfr. Michail Leonovič Gasparov, Storia del verso europeo, il Mulino, Bologna 1993. 43 Su alcuni paradossi della metrica moderna, SI, pp. 809-817.

ad una enfasi logica o retorica che rende, per così dire, enclitiche o proclitiche le sillabe che lo precedono e lo seguono, se logicamente o retoricamente meno importanti».44

«Centroide» è un termine mutuato dalla voce Prosody redatta da James Craig LaDrière per il Dictionary of world literature, da cui Fortini aveva già attinto – con molta probabilità grazie alla mediazione della Teoria della letteratura di Wellek e Warren, testo di riferimento utilizzato in questi anni come una sorta di Regia Parnassi45 – per precisare la

sua idea di ritmo come «recurring alternation, in a temporal series of perceptual data, of an element or elements relatively more conspicuous for perception with elements relatively less conspicuous».46 Come spesso accade per l’apparato terminologico riferito

alla composizione poetica – si pensi al projective verse formulato negli stessi anni da Charles Olson su modello della projective geometry47 –, centroid è un termine in origine

impiegato in campo fisico-matematico (più comunemente noto nella lingua italiana come “baricentro”),48 per indicare la “posizione media” dei punti di una figura bidimensionale

nella geometria euclidea, ovvero la media aritmetica delle posizioni di ciascuno di essi.49

Poiché ogni figura possiede un unico baricentro, è possibile estendere la metafora geometrica assumendo la sequenza versale come un insieme di unità fisiche di significato rette da un punto di forza – il “centroide” – composto dalla somma di tutti gli accenti secondari di ogni segmento; unità corrispondenti, nella definizione di LaDrière, alle sillabe «logicamente e retoricamente meno importanti» che perdono la propria carica accentuale in funzione di una sillaba che li assomma e regge l’intero segmento. Sarebbe possibile in questo modo immaginare la linea versale come una costruzione sorretta da un numero costante di “figure” o unità parziali che regolano l’andamento prosodico delle linee successive (isocronismo degli accenti). Nella visione di Fortini, la struttura orizzontale del verso si configura dunque come un blocco materico scolpito dalla prominenza

44 SI, pp. 816-817.

45 LS, p. 64; cfr. René Wellek, Austin Warren, Theoy of Literature, Harcourt, Brace, New York 1949, (tr.

it. Pier Luigi Contessi, Teoria della letteratura e metodologia dello studio letterario, il Mulino, Bologna 1956, pp. 335-336).

46 Definizione, come abbiamo visto nell’introduzione, connotata da una precisa storia discorsiva, la cui

portata teorica verrà ripresa e affrontata nella terza parte di questo lavoro.

47 Cfr. infra, 9.1.

48 Edigeo (a cura di), L’Inglese Tecnico e Scientifico. Grande dizionario tecnico scientifico Inglese-Italiano Italiano-Inglese, Zanichelli, Bologna, 2005, p. 176.

49 cfr. «Centroids (mathematics)», in McGraw-Hill Encyclopedia of Science, McGraw-Hill, New York;

dell’accento in un numero definito di punti che corrispondono all’incirca a microsistemi di forza retti da un centroide, attorno al quale gravitano le sillabe vicine. La scansione per accenti e l’importanza assunta dal centroide determina una lettura percussiva centrata sulla materialità del dettato, e non sulla cantabilità. Come vedremo nelle pagine successive, l’urgenza di distaccarsi da una poesia come «canto» costituisce un motivo portante delle riflessioni metriche di Fortini.

L’ipotesi accentuale non si esaurisce per lui nella sola dimensione orizzontale del verso; essa trova conferma nella costruzione globale del componimento. A tal proposito, l’autore ribadisce più volte la necessità di leggere un verso di poesia contemporanea all’interno del contesto tipografico della pagina in cui è inserito. Ad esempio, una frase come «La verità è che il mondo si fa piccolo», estrapolata da un articolo dell’«Avanti!», non può in alcun modo essere considerata come un endecasillabo50 finché non viene inserita all’interno di

un contesto dove l’abitudine metrica la riconosca come tale. L’indice di allusività metrica stabilito all’interno di una comunità di lettori consentirebbe infatti di abbassare la carica espressiva del “ritmo”, subordinando l’andamento sintattico dell’enunciazione alla griglia metrica e ai segni grafici dello spazio visivo, e dunque al puro segno. Vediamo di esaminare più da vicino la proposta di Fortini, analizzando gli esempi da lui forniti per verificare la possibilità o l’impossibilità di edificare, nella lingua italiana, una nuova metrica per accenti.