• Non ci sono risultati.

L’eterno ritorno delle Sirene: dal mito alla favola

Excursus III: Il femminile come risposta all’antimodernismo tedesco 1. Fondamentalismo estetico e irrazionalismo

6. Ludwig Klages e la Scuola di Francoforte a confronto sul mito 1. Odisseo e l’incontro con le Sirene

6.2. Le Sirene di Kafka e la ginecocrazia eterica di Bachofen: figure del femminile in due saggi di Walter Benjamin

6.2.1. L’eterno ritorno delle Sirene: dal mito alla favola

Nel suo saggio dedicato a Kafka del 1934, Benjamin definisce lo scrittore praghese il «novello Odisseo», poiché capace di far scivolare via «lungo i suoi sguardi fissi lontano» le Sirene.

Come l’eroe greco ha potuto sottrarsi al potere del canto delle Sirene «senza cedere alle sue

lusinghe», così Kafka riesce ad opporsi alla «seduzione» del mito (FK, p. 281). Odisseo, secondo la versione kafkiana, ha lasciato che le potenze mitiche scivolassero via lungo il suo sguardo già rapito da un altrove. Anche Kafka, sebbene non abbia saputo pensare la redenzione in rapporto al proprio contesto di riferimento,614ha intravisto a tratti un percorso praticabile: riconoscendo il riproporsi di elementi mitici in seno alla modernità, o meglio proprio accettando il fatto che il tempo presente sia dominato dal mito, ha saputo guardare oltre, facendo così emergere grazie alla sua opera una profonda «potenza antimitica».615

Nello specifico, secondo Benjamin, le opere di Kafka – come ad esempio Il castello e Il

processo – presentano determinate analogie con la preistoria eterica descritta da Bachofen nel suo Matriarcato: con i suoi personaggi promiscui e incompleti, con le sue figure femminili, lo scrittore

fa sì che essa si ripresenti sotto i nostri occhi in tutto il suo terrore.616

610Sul tema della maternità e del femminile in Benjamin, si veda: Buci-Glucksmann 1984; Weigel 1999; Kleiner 1999; Asai 1999.

611

Sull’influenza di Klages sul frammento Al planetario di Benjamin si veda Wohlfarth 2002.

612Si veda la lettera di Adorno a Benjamin del 2 agosto 1935: «[…] so führt die Entzauberung des dialektisches Bildes geradeswegs in ungebrochen mythisches Denken und wie dort Jung so meldet sich Klages als Gefahr sich an». E poco più avanti: «Mein Einwand gegen den bloß negativen Ansatz der Verdinglichung – die Kritik am ‚Klages’ des Entwurfes – stützt sich hauptsätzlich auf die Stelle über die Machine auf». Briefe, p. 675 e p. 678.

613Janz 1983, p. 364. Sull’ambivalenza/ambiguità di Benjamin nei confronti della nozione di „aura“ cfr. Bratu Hansen 2008, p. 345.

614FK, p. 280. Sull’assenza di speranza nell’opera di Kafka cfr. Mayer 1987, p. 262.

615

Hartung 1999, p. 71. 616Janz 1983, p. 363.

Il “ritorno” della preistoria mitica di Bachofen nell’opera di Kafka si palesa per Benjamin

innanzitutto nelle «figure femminili».

Esse sono creature palustri, come Leni, che stende «il medio e l’anulare della destra congiunti fra loro da una membrana

fin quasi all’ultima falange». «Bei tempi! – così l’ambigua Frida ricorda la sua vita precedente, - tu non mi hai mai

chiesto del mio passato». Esso ci riporta nel grembo oscuro dei tempi, dove si compie quell’accoppiamento «la cui lussuria sfrenata, - per dirla con Bachofen, - è invisa alle pure potenze della luce celeste, e giustifica l’espressione lutae voluptates, di cui si serve Arnobio» (FK, p. 295).

L’abbandono tra le braccia delle «timide ragazze» conduce l’eroe kafkiano, come ad esempio K., nell’«impressione costante di smarrirsi, o di essersi addentrato in un paese straniero» in cui anche l’aria risulta estranea e senza nessun elemento in comune con l’aria nativa, e l’unica via d’uscita è l’«inoltrarsi ancora, il continuare a smarrirsi» (FK, 279). La sensazione di smarrimento a cui conducono «gli insani allettamenti» dei personaggi femminili costituisce sì un’alternativa al mondo

terribile della burocrazia e del diritto, ai «padri» e ai «funzionari» - che rappresentano in Kafka la

dimensione della colpa nell’avvenire (FK, p. 293) -, mostrando perlomeno nell’assenza di speranza

una possibile via di salvezza (FK, p. 280), tuttavia essa non si rivela liberatoria, ma ancora una volta fuorviante.

Il progresso, per Kafka, non è già avvenuto e non è di per sé garanzia di affrancamento dalla preistoria. Il diritto, la burocrazia e la legge non sono indice della giustizia e anzi appaiono ancora più temibili della tentazione eterica. Secondo Benjamin, il merito principale dello scrittore praghese

è proprio l’aver riconosciuto che «le potenze terrene dei giorni nostri» non siano da distinguersi da

quelle preistoriche. Ma, ciò che agli occhi di Benjamin fa di Kafka il degno erede di Odisseo è il

fatto di non essersi trovato a proprio agio né nell’una né nell’altra dimensione.

L’epoca in cui egli [scil. Kafka] vive non significa per lui alcun progresso sugli inizi preistorici. I suoi romanzi si

svolgono in un mondo palustre. La creatura appare in lui allo stadio che Bachofen definisce eterico. Che questo stadio sia dimenticato non significa che esso non affiori nel presente. Anzi, esso è presente proprio in virtù di questa dimenticanza (FK, p. 295).

Kafka, riconosce la contaminazione delle figure femminili e per questo «non cade nella tentazione di diventare un profeta religioso» (FK, p. 291); per questo, continua Benjamin, «in Kafka tacciono le Sirene».

Forse anche perché in lui la musica e il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di salvezza. Un pegno di

speranza che viene da quel piccolo mondo intermedio, insieme incompiuto e banale, consolante e sciocco, in cui vivono gli aiutanti (FK, p. 282).

Facendo ammutolire le Sirene, Kafka avrebbe dunque neutralizzato l’illusione di una

salvezza che non sarebbe altro che una falsa riconciliazione, una falsa promessa di redenzione. Non si esce dal circolo del mito con un altro mito, sembra voler dire Benjamin, guardando ai personaggi kafkiani. In questo senso Odisseo è il solo capace di non lasciarsi andare alle potenze mitiche, di varcare la soglia che consente di abbandonare il mondo mitico a favore della redenzione messianica, che è la soglia che «divide il mito e la favola» (FK, p. 282).

La favola, nell’ottica benjaminana, è ciò che si oppone da sempre all’«angustia del mito»; essa «ci informa delle prime disposizioni prese dall’umanità per scuotere l’incubo che il mito le

faceva gravare sul petto»; essa minimizza il carattere pericoloso della realtà e lo mette in ridicolo, facendoci vedere, «nella figura dell’astuto, che le questioni che il mito ci pone sono semplici come quelle della Sfinge».

Il meglio – ha insegnato la favola anticamente all’umanità e insegna ancora oggi ai bambini -, è affrontare le potenze del mondo mitico con astuzia e impertinenza. […] L’incantesimo liberatore di cui dispone la favola non introduce la

natura in forma mitica, ma accenna alla sua complicità con l’uomo liberato. Questa complicità l’uomo adulto sente solo

a tratti, e cioè nella felicità; ma al bambino essa si offre direttamente nella favola e lo rende felice.617

Come Kafka ha riconosciuto nell’atteggiamento di Odisseo una messa in scena, e nel breve spazio di tale rappresentazione l’unica via di salvezza e dalla hybris umana e dalla superpotenza divina,

così Benjamin vede nella trasformazione del mito in favola da parte di Kafka la liberazione dalla dimensione mitica. Trasformando il mito in favola, Kafka si sarebbe infatti liberato dal mondo preistorico del matriarcato, proprio introducendo nel mito la ragione e la furbizia quali “finzioni”.618

Secondo Benjamin, dunque, i «mezzi puerili e insufficienti» a cui ricorre l’astuto greco, antenato kafkiano, non sono motivo di discredito, ma anzi precauzioni tratte dall’universo fiabesco che con

la furbizia e l’incanto dei bambini mette in scacco le potenze mitiche.

Nell’interpretazione del frammento di Kafka, Benjamin pare dunque presentare una

valutazione prevalentemente negativa della dimensione mitica e preistorica, a differenza del saggio su Bachofen – su cui verte il seguito di questo paragrafo –, in cui invece essa assume altresì una valenza positiva. A proposito Janz ha messo in luce come nel testo su Kafka, Benjamin avrebbe

617W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, op. cit., p. 267. Corsivi miei.

dispiegato «tutti gli elementi essenziali dell’accezione negativa del mito: strapotenza, impenetrabilità, spinta alla ripetizione, “il sempre identico del nuovo” e la duplicità».619 Pertanto, davanti al venir meno di qualsiasi determinazione positiva del mitico, Benjamin sarebbe giunto alla conclusione che la salvezza risieda unicamente nell’autoaffermazione razionale del soggetto contro

il mito. In altri termini, come nel lieto fine di una favola, l’astuzia salva l’eroe dal pericolo, dimostrando così di essere l’unica via d’uscita sia dal mito moderno della tecnica, della scienza e

della mentalità borghese, sia dal mito arcaico della preistoria eterica.

Nell’ottica di Benjamin, con esiti del tutto opposti a quelli della Dialettica dell’illuminismo

- come si vedrà nel prossimo paragrafo -, le Sirene sono giustamente superate dall’eroe maschile

sulla strada della propria determinazione. Nello scontro con l’eroe greco, dunque, non viene sconfitto soltanto il mito, ma pure le «figure femminili», secondo l’identificazione bachofeniana tra dimensione mitica e “ginecocrazia eterica”. A proposito, come messo in luce da Buci-Glucksmann, va ricordato come per Benjamin «la donna sia il luogo prescelto per quella “corrispondenza mitologica” tra il mondo moderno della tecnica e il mondo arcaico dei simboli».620 Sconfiggere le «figure femminili» in questo contesto significa superare e soprattutto riconoscere l’impossibilità di

sacralizzare l’immagine della donna nella modernità. Con la prostituzione di massa, come sottolinea

ancora Buci-Glucksmann, «la donna ha perduto la sua aura, il suo qui ed ora rituale e religioso, la sua unicità assoluta di possedere un corpo femminile, capace di emanare quella bellezza celestiale

caratteristica dell’amore».621 Amore ed erotismo un tempo uniti nella figura della madre-etera, elevata da Klages sulla scia di Bachofen ad immagine del femminile,622 perdono ogni connessione nel corpo della prostituta quale «allegoria della merce». Il rifiuto delle figure femminili in Kafka,

non è dunque il rifiuto della donna in quanto tale, ma della sacralizzazione di un’immagine del

femminile non più sostenibile nella modernità. Tale sacralizzazione della donna-madre non compare tanto in Bachofen quanto nella lettura klagesiana dello stesso, a cui Benjamin in realtà si oppone quando rifiuta il mondo palustre e ctonio. Ciò che Benjamin non può accettare della posizione di Klages è il mancato riconoscimento di quella corrispondenza tra passato e presente, natura e tecnologia623di cui il corpo femminile è traccia.

6.2.2. La componente “materna” della materia 619Janz 1983, p. 369. 620Buci-Glucksmann 1984, p. 18. 621Ivi, p. 21. 622 Cfr. supra, pp. 55-60. 623Bratu Hansen 2008, pp. 363-364.

Come si è visto nel paragrafo precedente, nel suo saggio su Kafka Benjamin decostruisce totalmente il «mondo palustre» [Sumpfwelt] bachofeniano a favore della ragione, invece, nel suo saggio su Bachofen, esso viene ancora preso in considerazione in tutta la sua autenticità. Nello

specifico, Benjamin dà per certo il primo stadio dell’evoluzione umana identificato da Bachofen nell’eterismo, restituendogli dignità storica.

La parola Stoff (cf. ètoffe) indica una materia spessa, densa e raccolta. Essa è mediatrice di questa promiscuità generale

di cui la più antica umanità porta l’impronta nella sua costituzione eterica. E da questa promiscuità la vita e la morte

non sono esenti, esse si confondono in costellazioni effimere, al fluttuare del ritmo che culla questa creazione intera.

Così in quest’ordine privo di memoria la morte non richiama in alcun modo una violenta distruzione. Il mondo antico

considera la morte sempre di un più o di un meno in confronto alla vita (JJB, pp. 42-43).

Rispetto a Bachofen, però, nel cui sistema storico vige la vittoria del principio apollineo e maschile sulla natura femminile, Benjamin mette in luce la propria visione della filosofia della storia in senso dialettico. Andando contro alle stesse intenzioni di Bachofen, Benjamin gli attribuisce una concezione mediatrice, che riconosce la conciliazione tra natura e cultura.

Si può dire che la morte è stata per lui [scil. Bachofen] la chiave di ogni conoscenza, conciliando i principi opposti del movimento dialettico. Così egli diventa il mediatore prudente fra natura e storia: con la morte ciò che è stato storico ricade nel dominio della natura: ciò che è stato naturale ricade nel dominio della storia (JJB, p. 43).

Benjamin inserisce così nel mondo bachofeniano la propria filosofia della storia,624 in cui si assiste innanzitutto alla rivalutazione del mondo tellurico, del Materno indifferenziato, che a dispetto di quanto affermato nel saggio su Kafka, in questo contesto acquisisce la stessa validità della storia e dello spirito.

In questo passo Schiavoni ha visto la presa di posizione critica di Benjamin tanto nei confronti «di coloro che, – come ad esempio Klages – pretendono che la storia si sottometta completamente alla natura incontaminata, quanto nei confronti di coloro che considerano ottimisticamente lo sviluppo storico come una crescita continua del dominio sulla natura – ad esempio tramite la tecnica».625 Al contrario di quanto affermato da Schiavoni a proposito di questo

624 B. Lindner, Natur-Geschichte – Geschichtsphilosophie und Welterfahrung in Benjamins Schriften, in: Text und Kritik: Walter Benjamin. 31/32. Okt. 1971, pp. 41-58, qui p. 43 e 45.

passo,626 si ravvisa nel richiamo alla «materia» [Stoff (cf. ètoffe)] da parte di Benjamin proprio il nucleo di quella affinità di fondo che Moretti ha riconosciuto tra Klages e Benjamin e quindi non o perlomeno non esclusivamente una presa di distanza critica rispetto ad una supposta posizione regressiva. O meglio, ciò che Benjamin fa proprio dell’interpretazione klagesiana di Bachofen è «il

carattere universale della nozione di materia come “materia auratica”»,627 che in questo contesto può anche essere resa come Mater. La materia, o Mater natura, non è qualcosa di meramente quantificabile o di assoggettabile ai fini dello spirito, ma è di per sé ricca di significati simbolici, innanzitutto riconducibili al principium oppositorum della madre come origine e fine di ogni cosa.

Se è pur vero che, diversamente da Klages, Benjamin non possa accettare né l’idea di una perdita irriducibile rispetto alla materia originaria, tale per cui si assisterebbe ad un progressivo ed

inesorabile «processo di privazione dell’aura» [Verlust],628 né tanto meno il dualismo metafisico tra materia/anima e spirito, è anche vero che egli riconosce, come Klages, la verità insita nella «simbolicità universale della materia», altrimenti detta realtà delle immagini. Vi sarebbe dunque

tanto in Benjamin quanto in Klages l’idea di un’origine, che con Moretti può essere chiamata «mito,

la cui realtà sfiora l’essenza della verità»,629 da cui l’essere umano si sarebbe progressivamente

distaccato, o, con Benjamin affrancato. In questo senso il passato e la preistoria diventano per

entrambi gli autori, secondo un’intuizione che Klages ricava da Bachofen, un terreno di conoscenza.

Quanto il metodo ermeneutico individuato da Klages in Bachofen sia fortemente presente in

Benjamin emerge chiaramente dalle sue pagine bachofeniane. Non solo in queste pagine l’utilizzo

di alcuni termini si avvicina alla dizione di Klages - come ad esempio «il fluttuare del ritmo», «il sentimento ctonio» e «chiaroscuro» - , ma Benjamin considera come il massimo risultato del

Matriarcato di Bachofen l’aver riconosciuto la necessità di indagare gli «aspetti sotterranei», o meglio di riconoscere «accanto alla rivelazione dell’immagine, come di un messaggero proveniente

dal regno dei morti, quella del diritto come una costruzione sulla terra, le cui fondamenta sotterranee e di profondità inesplorate sono formate dagli usi e costumi religiosi del mondo antico»

(JJB, p.48). Come messo in luce da Doerr, l’accento posto da Benjamin sul riferimento bachofeniano all’immagine come «messaggero del regno dei morti», proviene chiaramente da

Klages (EC, p. 107), come pare confermare lo stesso Benjamin citando poche pagine più avanti una

626

Sulla critica a Schiavoni cfr. Doerr 2007, p. 142. A proposito, «contro Schiavoni», Doerr mette in luce come Benjamin fosse in realtà ben consapevole che nella filosofia klagesiana non si tratta di una mera apoteosi della natura a scapito della storia, e che anzi già a partire dal 1905 Klages ritiene impossibile un ritorno ad una natura incontaminata, come appare nel frammento del suo lascito La fuga degli dei. Pertanto, a differenza di quanto affermato da un certa critica, che si può ritrovare ad esempio nella posizione di Schiavoni, nella sua interpretazione di Bachofen Benjamin non rifiuta la lettura klagesiana, ma anzi considera Klages «il continuatore di Bachofen» (JJB, p. 67).

627Moretti 2013, p. 152.

628Sulla complessità del tema dell’aura in Benjamin oltre ai già citati testi di Bratu Hansen 2008, si veda nella vasta

bibliografia: Stoessel 1983; Smith 1994; Fürnkas 2000; AA. VV. 2013. 629Moretti 2013, p. 152.

nota affermazione klagesiana secondo cui «le immagini originarie sono l’apparizione di anime del

passato [Vergangenheitsseelen]» (JJB, p. 52).

Le Urbilder, ovvero le immagini originarie che non hanno subito alcuna elaborazione

dall’esterno in quanto apparizioni autonome del passato, sono per Klages le anime dei morti e sono

strettamente associate al regno della madre. Nella religione matriarcale vi è infatti un nesso centrale tra vita e morte, o meglio vi è «la perenne partecipazione della vita alla morte»,630 tanto che il

sacrificio che ogni essere vivente compie morendo non costituisce la fine dell’esistenza, ma soltanto un mutamento di segno della stessa. Vale a dire che nell’antichità pagana le anime dei morti non venivano relegate nell’aldilà, ma restavano presenti nella coscienza dei viventi, o meglio nel loro “Telesma”, quali loro parti essenziali. Il fatto che per Klages e Schuler il “Telesma” sia strettamente

connesso alla nozione di aura viene giustamente sottolineato da Doerr a dimostrazione del fatto che

l’aura di ogni immagine è strettamente connessa al regno dei morti, anzi ne è l’espressione

[Ausdruck].631 Pertanto, secondo la terminologia klagesiana l’anima dell’individuo che nell’estasi

[Rausch] diviene tutt’uno con l’immagine originaria, viene innanzitutto in contatto con l’aura, che non è altro che il passato, il regno dei morti.

Quanto questa concezione sia estremamente in opposizione alla tradizione ebraico-cristiana, che attraverso il dio patriarcale scardina ogni connessione con la “materia” nella sua accezione più ampia, indicando invece al futuro, non necessita di ulteriori commenti. Ciononostante, e qui va

inserito almeno di passaggio il tema dell’antisemitismo di Klages,632 essa ha potuto affascinare

Benjamin, come è evidente nel suo uso del termine “aura”, che tanto ha impegnato la letteratura secondaria. Rispetto alla dimensione ctonia dell’esistenza, di cui se si vuole l’aura ne è la

manifestazione sempre presente, Benjamin prende le distanze tentando sì di «dialettizarla

storicamente», come sottolinea Moretti, ma senza mai negarne l’esistenza. Poiché, continua Moretti,

«se lo strato mitico-originario dell’esistenza umana non fosse reale, sembra voler implicitamente avvertire Benjamin, anche il percorso emancipativo compiuto dall’umanità rischierebbe di essere affetto della medesima irrealtà, o, il che per certi versi è lo stesso, costantemente soggetto a

pericolosissime “ricadute”».633

Pertanto, sebbene Benjamin giudichi il sistema dualistico klagesiano «senza sbocco» e opponga ad esso una concezione dialettica, egli distingue nettamente la lettura di Bachofen proposta

da Klages da quella dell’«esoterismo» da una parte e da quella dei «professori ufficiali del fascismo

tedesco» dall’altra.

630F. Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito, in: Id., Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1981, p. 142. 631Doerr 2007, pp. 276-277.

632

Cfr. supra, pp. 15-26 e pp. 37-41. 633Moretti 2013, pp. 152-153.

È vero che malgrado il suo lato provocatorio e sinistro, questa filosofia [scil. di Klages], è, per la finezza delle sue analisi, la profondità delle sue visuali e il livello delle sue discussioni, infinitamente superiore agli adattamenti di Bachofen tentati dai professori ufficiali del fascismo tedesco. Baeumler per esempio, dichiara che solo la metafisica di Bachofen vale la pena di essere considerata, mentre le sue ricerche preistoriche, avendo un peso ancora minore “di

quello di un’opera scientifica attendibile sulle origini dell’umanità, non avrebbero molte cose da dirci”(JJB, p. 53).

Tale distinzione fa sì che Benjamin, diversamente da altri pensatori della Scuola di Francoforte come Horkheimer e Adorno e soprattutto Ernst Bloch - che tenderanno a vedere nella filosofia klagesiana una mera apoteosi di un «ritorno neopagano alle origini»-,634 possa liberamente riferirsi a Klages, riconoscendogli addirittura il merito di aver riportato la dottrina di Bachofen «accanto alla filosofia», superando in tal modo le aspettative di Bachofen stesso (JJB, p. 52).

Nell’attribuzione di una verità determinata all’origine materica-materna della storia umana,

che Klages avrebbe riscoperto grazie a Bachofen, Benjamin coglie infatti la possibilità di un pensiero scevro dall’ipoteca di dominio, che è poi la questione fondamentale della modernità a partire da Nietzsche. Tale pensiero, è un pensiero per immagini, ovvero la realtà delle immagini, che è appunto da distinguersi dal mondo delle idee.

Rappresentando le sostanze mitiche della vita e strappandole all’oblio che le ha colpite, il filosofo si rende conto delle