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Il tipo di atteggiamento che un individuo può avere nei confronti del proprio Io, viene applicato per estensione, oltre che alle epoche storiche, alle razze. Nello specifico, se il carattere

viene considerato da Klages quale segno ed espressione dell’anima di un individuo, parimenti la

razza deve essere intesa come espressione dell’anima di un popolo.

Esistono caratteri prevalentemente rivolti all’oggetto e altri prevalentemente rivolti alla persona. […] Nessuna distinzione tra i generi di volontà potrebbe essere più grande e più tipica. La forma generalizzata del primo è l’assoluta volontà di potenza, del secondo l’assoluta volontà di maestria, ed entrambe marchiano in modo indelebile la fisionomia

sia del singolo, sia di epoche e di popoli interi (PG, p. 51).

La razza, nel senso di Klages, non è tanto la determinazione di un popolo in base alle sue caratteristiche biologiche, quanto in base alla tradizione a cui questo popolo fa riferimento.116 Se, come si è detto, il concetto di paganesimo giunge ad assumere per Klages il significato più ampio di un determinato atteggiamento nei confronti della vita, lo stesso vale anche per il monoteismo,

nelle sue due forme dell’ebraismo e del cristianesimo.117 Di conseguenza, la dicotomia tra politeismo e monoteismo, intesi come atteggiamenti vitali, va letta come contrapposizione tra un atteggiamento che guarda al mondo, e uno che guarda alla persona. Nel paganesimo, invero, è il mondo nella sua essenza demonica a scandire l’esistenza delle persone. Il polidemonismo è infatti la forma di coscienza della realtà delle immagini, secondo cui tutto ciò che si manifesta è divino: «ogni vero demone è demone di un luogo, di una contrada, di un elemento» (I, p. 25). Rispetto alla

divinità del mondo, l’individuo non è che uno «spettatore», manifestazione esso stesso di una

totalità in cui ogni singola parte coincide con la sacralità del tutto e ne è pervasa.

D’altra parte, secondo Klages, il monoteismo vede la propria origine proprio nella negazione

della sacralità del mondo a favore della sola sacralità della persona. Monoteismo significa per Klages «culto della persona», secondo l’equazione «spirito = Io (coscienza) = Dio», già precedentemente individuata da Nietzsche. Infatti, secondo una nota espressione nietzscheana Dio non è altro che la proiezione da parte dell’uomo di ciò che più stima di Sé al di fuori di Sé: la

volontà, lo spirito e l’Io.

L’uomo ha proiettato fuori di sé i suoi tre “fatti interiori”, ciò in cui egli più saldamente credeva, la volontà lo spirito, l’io – ha cavato per prima cosa dal concetto dell’io quello di essere, ha dato l’essere alle cose […] secondo il suo concetto dell’io come causa (CI, p. 87).

116

Sul tema della differenza tra il razzismo biologico e il razzismo mistico si rimanda al primo capitolo di questo lavoro e alla letteratura secondaria ivi indicata. Cfr. supra, pp.

15-26-117Vogliamo annotare a margine il mancato confronto di Klages con la religione islamica. A proposito è interessante il

riferimento al lavoro di Corbin, la cui vicinanza a Klages sulla strada dell’interpretazione ‘sperimentale’ della teoria dell’immagine è già stata rilevata da Moretti 2001, pp. 9-11.Cfr. H. Corbin, L’Imagination créatrice dans le soufisme

Tale proiezione comporta evidentemente una riduzione dell’intera vita al raggio di azione dell’Io. Inoltre, secondo Klages solo dall’adorazione dell’Io è potuta conseguire «l’adorazione di un unico Dio». Ed è così che, «di fronte al corrosivo strale della ragione della volontà che trionfa nel segno del Dio unico», viene meno il culto delle immagini. (I, p. 26). Di conseguenza, il sorgere del monoteismo, essendo strettamente legato al dominio della spiritualità individuale posto al di sopra

della realtà, viene a rappresentare per Klages l’apice dell’allontanamento dell’uomo dal sostrato vitale delle immagini, in quanto l’identità individuale viene completamente proiettata in un’entità

astratta al di fuori dello spazio-tempo. In questo senso il popolo ebraico, in quanto portatore del monoteismo, viene riconosciuto da Klages come manifestazione del carattere maggiormente

“distaccato” dal divenire della vita (PG, p. 52).

La razza, e la cultura, sono l’espressione estrinseca dell’anima generatrice di forme, anima

di un popolo, che a sua volta si dà soltanto nel momento del suo emergere in determinati caratteri o tratti. Tutte le razze e i popoli che fondano la loro cultura e le loro tradizioni sulle religioni

monoteiste segnano per Klages l’avvenuta presa di distanza dalla pienezza vitale. In altri termini, la

razza, così come il carattere nel singolo individuo, è ciò che determina la vicinanza o la lontananza

di un determinato popolo rispetto all’elemento vitale, determinando al contempo la forma dei miti

che ogni popolo si dà.

Tornando al discorso sul mito, a seguito di ciò che si è detto, si può dire che nell’ottica klagesiana, esso resti in quanto prodotto culturale, nonostante la sua funzione privilegiata di accesso al reale, inscindibilmente legato ad una determinata comunità. Così come per Nietzsche non è più possibile pensare ad una mitologia legittimata in senso trascendente,118 poiché viene meno l’idea romantica di un’origine divina del mito comune a tutta l’umanità, anche per Klages il mito è

segnato da un aspetto soggettivo, così come qualsiasi rappresentazione artistica è segnata dal carattere del suo autore. Diversamente da Nietzsche però,119 Klages tiene insieme tanto l’aspetto soggettivo della creazione dei miti da parte di un popolo quanto l’interpretazione sacrale del mito,

inteso come verità.

Il fatto che Klages riconduca il mito al processo culturale in continuo divenire, e quindi lo

veda fondato sul carattere eternamente cangiante dell’esperienza soggettiva, è infatti strettamente

legato alla sua fenomenologia. La fenomenologia klagesiana è ciò che permette di non ridurre il mito ad una dimensione esclusivamente estetico-psicologica, garantendo al contempo al mito un fondamento oggettivo. Il sostrato delle immagini originarie [Urbilder] che costituiscono il reale, è

118Frank 1994, p.123.

119A proposito, Frank mette in luce come per Nietzsche è il mito, inteso come arte dionisiaca, a mediare tra l’esperienza soggettiva e la tradizione culturale, mostrandosi come un evento tanto estetico quanto sacro. Tuttavia, rifiutandosi di dare al sacro uno statuto metafisico, Nietzsche fa riferimento alla sola esperienza umana del sacro, analizzando tale esperienza per verificare in che modo essa funzioni a livello della coscienza. (M. Frank 1994, p. 123).

per Klages il contenuto ultimo del mito. Tale contenuto non viene determinato in senso

“soggettivo” nella sua essenza ultima, che resta legata alla dimensione sacrale, in quanto struttura

precedente la cultura e quindi profondamente segnata dal sacro; tale contenuto può essere recepito soltanto nel momento della sua declinazione a livello dell’umano. Come il sostrato vitale delle immagini, può solo essere indicato nel momento in cui viene esperito da un soggetto ricettivo, così il contenuto ultimo del mito può essere rinvenuto solo a seguito di un’incontro con l’anima di un popolo.

I fenomeni originari non possono essere colti né compresi nella loro sacralità primordiale, ma soltanto indicati attraverso il mito, la poesia e i simboli elementari quando avviene il contatto

con un’anima capace di esperirli [erleben]. Per Klages il mito è ciò che emerge dal connubio dell’anima del popolo con l’anima dell’universo, ed è altresì ciò che dà vita all’uno e all’altra. La

sacralità incontaminata, sorgente di ogni mito, come di ogni arte, resta in sé stessa un puro nulla, caos di forme eternamente cangianti che necessitano di essere plasmate. Tuttavia, senza tale presupposto non vi sarebbe alcuna forma, alcuna immagine, poiché ad ogni manifestazione appartiene qualcosa che appare in essa e che resta sempre un’insondabile, infondata, abissale assenza notturna.120

3. Ludwig Klages e il paganesimo