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3. Ludwig Klages e il paganesimo 1. La morte e il culto degli antenati

3.2. Magna Mater e sacrificio

Emerge qui ciò che vi è di paradossale nella teoria klagesiana delle immagini. Come spiega Grätzel la difficoltà della teoria di Klages è che le immagini che costituiscono il reale non appartengono alla dimensione presente, bensì portano al riconoscimento di «una lontananza costitutiva rispetto ad un passato, altrimenti impensabile».123 Le immagini di Klages sono, in altri termini, immagini del passato [Vergagngenheitsbilder]. Esse infatti, così come gli dei, rappresentano il luogo di apparizione delle anime degli antenati.

Perché gli dei sono essi stesso soltanto anime di antenati, che da un’altra sfera sovrastano il presente come stelle tanto

più raggianti per l’umanità, grazie alla natura della contemplazione, quanto più la lontananza di passato dalla quale essi

splendono sembra crescere. (EC, p. 127)124

siano esse informative, riepilogative o innovatrici». (Cfr. EC, p. 18.) Per quanto riguarda la critica si veda Barbera 1997, p. 28.

123

Grätzel 2002. 124Corsivi miei.

Il passato assume dunque un ruolo privilegiato all’interno del pensiero di Klages, determinando non solo la sua concezione del mito e della visione del mondo pagana, ma la sua intera concezione della vita.

La sensibilità alla base del culto dei morti chiede che cosa è stato di coloro che furono, e come si può abbellire il loro

destino, mentre quella della fede nell’immortalità chiede: che sarà di me, quando non sarò più, e come posso

comperarmi una lieta continuazione? (EC, p. 140)

Sul tema vi è un importante saggio di Müller, che mette in luce il forte legame sussistente tra la filosofia della vita di Klages e la sua filosofia del tempo.125 Tanto che, anche la comprensione klagesiana del paganesimo viene ritenuta essenzialmente plasmata da una specifica concezione del tempo.126 In generale, continua Müller, la filosofia della vita pensa il tempo come fenomeno originario trans-soggettivo e cosmico dell’accadere, in riferimento ad un’ontologia del divenire e

della processualità che si contrappone diametralmente all’ontologia della sostanza e dell’essere, o

meglio della staticità, secondo la dicotomia Parmenide – Eraclito caratteristica dell’intera metafisica occidentale. Analogamente, per Klages l’elemento originario coincide con la vita nel suo accadere continuo rispetto a cui il tempo ne scandisce il ritmo, in quanto auto-manifestazione primaria del reale.127 In relazione al tempo la coscienza individuale rappresenta un elemento di disturbo, incapace di coglierne il ritmo intrinseco. Per Klages, dunque, il tempo puro non viene mai esperito

nella coscienza, ma al contrario quando la coscienza viene spenta in uno stato d’estasi, o ancora, quando l’anima contemplativa si libera dallo spirito.

Nella prospettiva klagesiana, “il tempo” è dunque strettamente legato al concetto di esistenza. Quando il centro della realtà viene identificato nell’io, come accade a partire dal

monoteismo, allora l’intero corso del tempo viene ridotto al tempo relativo alla singola esistenza, la quale vedendosi sfuggire ogni attimo nell’attimo successivo, guarderà al futuro come unica

temporalità reale. Al contrario il tempo cosmico della realtà delle immagini «ha la forma del circolo che sfocia incessantemente nel proprio principio!» (I, p. 123) In questo senso il passato, in quanto

origine, rappresenta nell’ottica di Klages la sola temporalità autentica. Secondo Klages, in altri

termini, la dimensione del passato è sempre presente, poiché esso ritorna sempre di nuovo in forma rinnovata. Tale «ritorno» del passato non deve essere inteso nel senso dell’«eterno ritorno» di nietzscheana memoria (I, p. 123 e segg.; N, pp. 243-4) .128 Secondo Klages, infatti, l’eterno ritorno

125

Müller, B, pp. 12 e segg. 126Ivi, p. 16.

127Ivi, p. 22.

128 Secondo gran parte della letteratura secondaria l’interpretazione klagesiana del noto concetto nietzscheano non

coglie l’essenza di tale pensiero, appiattendolo sul concetto pitagorico del tempo circolare. Sull’argomento cfr. Löwith

dell’uguale deve essere superato dall’eterno ritorno del simile secondo il ritmo del rinnovamento e

non della ripetizione.

Il tempo è infatti per Klages un tempo circolare, in accordo con la figura della dea madre che, secondo le scoperte di Bachofen, caratterizza la religione matriarcale degli antichi. Per gli antichi, la sacralità della donna, in quanto mater, terra e madre, rappresenta in se stessa la primissima coincidentia oppositorum, da cui dipartono «le radici di tutti i simboli elementari» (I, p. 100). Tutti i simboli annunciano contemporaneamente l’esuberanza della vita e l’ineluttabilità della morte. La terra, simbolo per eccellenza della madre, è sì origine prima di ogni essere vivente, ma anche la tomba di tutto ciò che da essa proviene, in questo senso è indice della natura circolare della vita tellurica.

La vergine diventa madre, ma la madre è nuovamente vergine: quel che è posto tra vergine e madre è il percorso del circolo che torna in se stesso (I, p. 107).

In un pensiero, come quello dei primitivi, che riconosce la madre come l’ “essere” non esiste né inizio né fine, ma solo «compimento», il continuo trapassare da un attimo all’altro. È per questo

motivo che secondo Klages, spiega Grätzel, la paura della morte non appartiene al pensiero

primitivo, e può sussistere solo nell’ambito del pensiero logico, o meglio a partire dall’instaurarsi

del patriarcato.129 Nell’antichità non c’è paura, ma cura della morte, anzi dei morti che hanno

lasciato la loro vita in eredità ai vivi. Si è dunque in debito nei confronti degli antenati, nel senso che bisogna essergli riconoscenti.

A proposito è ancora Grätzel a mettere in luce come le affermazioni di Klages relative

all’atteggiamento dei primitivi nei confronti della morte, permettano infine di chiarire il concetto di «sacrificio» proprio dell’antichità.130 Poiché per Klages, a partire degli studi di Bachofen, alla base del «culto degli antenati» vi è il diritto della madre, ovvero il matriarcato, esso implica proprio in virtù del suo legame simbolico con la terra un principio di riconoscenza e di gratitudine, basato sulla deisidaimonia [timore degli dei].131

L’eternità della vita pretende che essa passi da una mano all’altra; chi l’ha ricevuta l’ha raccolta solo per ritrasmetterla, come prima accadde per lui. […] L’attimo che entra nella vita si accende ad un attimo che muore: così anch’esso deve

perire affinché il successivo viva. Le Parche intrecciano e recidono il filo della vita: solo grazie al pulsare di nascita e tramonto è assicurata la restituzione del mondo nel mezzo del tempo (Ibidem).

129Grätzel 2002, p. 26. 130

Ivi, p. 23.

Nel ritmo del ricevere e del dare, che scandisce lo svolgersi del tempo così come della vita, emerge il rapporto di diritto del singolo nei confronti della vita. Il singolo individuo sta nei confronti di questa ricezione primordiale, spiega Grätzel, come un debitore, che potrà riscattare il proprio debito solo alla morte, restituendo nuovamente la vita un tempo ricevuta. In questo senso morire

rappresenta l’unico e più grande gesto sacrificale nei confronti della vita. Nella morte si tratta

dunque di restituire ciò che si è ricevuto soltanto in prestito, rendendo possibile attraverso il proprio sacrificio il palesarsi del nuovo. Poiché quando si è vivi, qualsiasi cosa si faccia comporta

l’intervento incessante «nella vita del mondo esterno»; anche il semplice respiro, secondo questa prospettiva, appare come «una continua sottrazione all’immenso aere vitale». Ne consegue, secondo

Klages, che «ogni attimo di vita» del singolo non faccia altro che aumentare la grandezza di una «colpa», che può essere cancellata solo con il sacrificio della vita.

Con ciò ci accostiamo già al senso e al fondamento più intimo dello ius talionis: occhio per occhio, dente per dente,

sangue per sangue; ovvero, in un’accezione meno percepibile con i sensi: patisci quel che hai fatto! (I, p. 134)

Nella prospettiva klagesiana il sacrificio si rivela strettamente legato allo ius talionis, inteso come

legge fondamentale del mito, che emerge dallo sguardo verso il passato. Secondo Grätzel l’aspetto più rilevante della teoria del mito klagesiana è proprio l’aver identificato il «complesso della colpa»

alla base del mito stesso.132 Si tratta della domanda imprescindibile sul diritto di esistere, diritto strettamente legato al senso di colpa e di riconoscenza nei confronti di coloro che, morendo,

rendono sempre di nuovo possibile il protrarsi della vita. Nell’ottica di Klages, invero, i morti sono «creditori». Tuttavia, il sacrificio che essi pretendono non nasce dall’avidità di un Io singolare e non

mira ad ottenere sentimenti di piacere personale, «ma è il rinnovamento dell’originaria immagine della vita attraverso la pretesa restituzione di ciò che ad essa era stato preso».

Ne deriva necessariamente che l’originario istinto alla ritorsione non vada cercato nel personalissimo e sconvolto sentimento di chi compie la vendetta, quanto piuttosto nell’interruzione vitale stessa che è stata operata con l’ingerenza

nella manifestazione della vita (I, p. 136).

In questo senso lo ius talionis non rappresenta una nuova ferita nel ritmo della vita, ma anzi una «guarigione, compiuta alla piaga dell’immagine attraverso il riprendere quel che all’immagine era stato sottratto» (I, p. 137). Secondo Klages, infatti, la vita contiene già di per sé, a prescindere da qualsiasi intervento da parte di un agente soggettivo, quella materia che la rende in grado di agire e di equilibrare gli effetti, secondo il ritmo cosmico che le è intrinseco (I, p. 140).

Solo così si spiega, e senz’ombra di dubbio, perché non giochi alcun ruolo l’intenzione del colpevole, perché il castigo

non riguardi necessariamente la sua persona, e perché a seconda delle circostanze esso possa avvenire anche in maniera simbolica (Ibidem).133

Il senso di colpa come restituzione, che vien posto da Klages all’origine del mito, va dunque

nettamente distinto dal senso di colpa, inteso come peccato originale, proprio della tradizione ebraico-cristiana. Mentre nel monoteismo il senso di colpa genera il mito della redenzione in un aldilà posto in una dimensione futura ultrasensibile, nel paganesimo il senso di colpa si risolve nel sacrificio.

Il dovere sacrificale concerne come tale ognuno, poiché ciascuno, come abbiamo visto, riceve la parte per lui incomprensibile della vita e di tutti i beni della vita – l’originaria suum cuique – soltanto dando e restituendo

continuamente. Non si parla però ora di uno scambio nel senso del consueto scambio di beni […], ma dello scambio di

fluidi o di essenze attraverso il sacrificio della propria anima alla vita del cosmo che nutre sostiene (I, pp. 189-190).

Nel pensiero primitivo, continua Klages, la colpa è riferita alla vita, tanto alla vita vissuta degli antenati quanto a quella dei viventi. D’altra parte, per il pensiero logico, frutto del monoteismo, che conosce la colpa solo nella forma della causa-effetto, essa non è più da intendersi nei confronti della vita, ma diventa una conseguenza della paura della morte. La vita in quest’ottica non è più un dono

ricevuto per poterlo a propria volta donare, ma qualcosa di “dovuto” da possedere e consumare fin

quando possibile.