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L ETTERA A M ICHELANGELO DI Ğ ABRĀ I BRĀHĪM Ğ ABRĀ

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 181-191)

Francesca Maria Corrao

Ğabrā Ibrāhīm Ğabrā nasce a Betlemme nel 1919, studia letteratura araba e inglese in Palestina e poi si specializza a Cambridge. Torna ad insegnare letteratura inglese a Gerusalemme fino al 1948, quando in seguito alla dichiarazione dello Stato di Israele, si trova all’improvviso senza alloggio né denaro. Ricorda il precipitare degli eventi con efficacia:

Gli invasori, ci hanno costretti ad abbandonare la nostra casa di Gerusalemme, dopo aver polverizzato l’Hotel Semiramis, situato poco distante, all’alba di una fredda notte di tempesta causando un numero considerevole di vittime, tra cui alcuni conoscenti e uno dei miei più cari amici. Avevamo l’ingenuità di credere che ci saremmo assentati per una quindicina di giorni, tre settimane al massimo. È straordinario quanto dieci o quindici chilometri possano falsare la percezione delle distanze, quando la vostra casa è occupata e vi impediscono di tornare.

È così costretto, come migliaia di altri giovani diplomati, a lasciare il paese in cerca di lavoro. In quella fase non si sente un esule, il solo pensiero è inconcepibile e inaccettabile. Crede di partire alla ricerca di un mezzo di sussistenza per sopravvivere. Si reca pertanto in Transgiordania, dove già si sono rifugiati a migliaia in cerca di fortuna. Da Amman allora parte per il Libano dove però non trova un posto all’Università Americana di Beirut, già prima di lui sono arrivati altri. Ğabrā cerca allora di ottenere un visto per la Siria certo di trovare da insegnare a Damasco. La città che ha visitato da turista meno di un anno prima, adesso è cambiata; quindici lugubri giorni gli fanno capire che anche questo luogo non offre alcuna possibilità al giovane intellettuale. Con molto rammarico accetta un visto per Bagdad dove ottiene un posto da insegnante.

Trascorre il primo periodo della sua vita in Iraq a scrivere a parenti e amici, e a leggere Il ramo d’oro di Frazer e i libri di Schopenhauer. Sarà questa fase molto importante per la successiva evoluzione del pensiero del critico che avrebbe dato vita poco tempo dopo alla più interessante stagione letteraria del mondo arabo nel XX secolo. Poco tempo dopo, grazie agli auspici dei funzionari dell’ambasciata inglese, gli offrono l’opportunità di presentare un programma sulla Palestina nella radio locale. In questo periodo scrive il poema “Il blues del rifugiato Palestinese” che voleva essere il seguito del “Jewish refugee blues” di W. H. Auden.1

Il poeta si rende conto che il mondo esce da una disastrosa guerra mondiale e che ha ancora milioni di rifugiati in attesa di essere rimpatriati, e che pertanto, anche per l’ONU, il problema dei palestinesi si sarebbe iscritto nel più generale

quadro, come un fatto assolutamente marginale. Da lì ad un anno si rendeva conto che la situazione richiedeva un cambiamento radicale:

Noi eravamo stati ingannati e traditi da mille anni di declino, vittime della nostra bella ed assurda retorica. Avevamo perduto la Palestina per aver cercato di combattere una forza spietata con la sola arma di una tradizione di altri tempi. Bisognava cambiare tutto. A partire da un cambiamento di prospettiva. Adottare uno sguardo nuovo sulla realtà. Un nuovo modo di esprimersi. Un approccio e una rappresentazione dell’uomo e del mondo nuovi.2

La sua attività si concentra allora a creare le condizioni per cui questo cambiamento nel pensiero e nell’atteggiamento sia possibile. Apre un atelier di pittura, da lezioni, tiene conferenze, viaggia ed incontra un gran numero di gente con cui intrattiene proficui scambi culturali. Nel 1952 ottiene una borsa di studio che gli permette di recarsi ad Harvard negli Stati Uniti per specializzarsi in Letteratura inglese. Non si ferma più di due anni e torna in Medio Oriente. Per un certo periodo vive a Beirut dove partecipa attivamente alla vita culturale della capitale libanese. In quegli anni Suhayl Idrīs fonda la rivista letteraria al-Ādāb (1953) che da voce alle nuove generazioni di poeti sostenendo in particolare la diffusione della nuova tendenza, l’adab al-multazim (letteratura impegnata). La rivista pubblica anche traduzioni delle opere di Majakowsky, Lorca e Neruda, e in particolare pubblicizza il celebre Che cos’è la letteratura di Jean Paul Sartre. Sulla rivista pubblicano anche i maggiori poeti della resistenza palestinese, come Fadwā Tūqān (1917-2003) e Mahmūd Darwīš (1942).

Ğabrā sceglie invece di collaborare con il gruppo di poeti che si raccoglie attorno alla rivista Šicr, fondata nel 1957 dal poeta libanese Yūsuf al-Khāl con il

contributo del siriano Adonis (1930).3 Per il gruppo degli intellettuali di Šicr il poeta

si deve impegnare nella vita culturale più che nell'ambito politico. Ğabrā si riconosce nell’idea che l'intellettuale deve fornire il supporto ideologico e promuovere il cambiamento culturale e sociale.

Molti con al-Khāl e Adonis sono influenzati dallo studio di Suzanne Bernard

Poème en prose de Baudelaire à nos jours e dalla lettura di T. S. Eliot; il mito della

fertilità e l’amore che porta alla rinascita che si trova ne La terra desolata attrae i giovani poeti arabi che vogliono sperare in un rinnovamento. Ğabrā traduce molti saggi critici, Shakespeare, Faulkner e Il ramo d’oro di Frazer, che ha un’influenza determinante sul nuovo corso che inaugura insieme a questi poeti. In quegli anni elabora la teoria di una nuova tendenza culturale che si manifesta in modo particolare in poesia, che vuole portare avanti la ricerca e la sperimentazione di forme e linguaggi adeguati alla più generale esigenza di cambiamento. Il gruppo che si raccoglie attorno a Ğabrā sceglie per rappresentarsi il simbolo del dio della vegetazione babilonese, Tammūz, che ogni anno rinasce nel mese di luglio. Ğabrā,

2 Ğabrā, 1997, a, pp. 3-4.

è uno degli interpreti più alti di questo movimento.

Il movimento di Tammūz, si propone il recupero degli elementi più originali della tradizione araba, sia classica che preislamica e di altre civiltà per rinnovare la poesia. Il linguaggio simbolico permette loro di attingere liberamente alle fonti mistiche e mitologiche dell’oriente classico e di dare nuovo significato alle antiche figure retoriche. Gli archetipi dell’Islam tradizionale si integrano nella ricchezza culturale del Medio Oriente, fucina di straordinarie civiltà.

Le metafore classiche sono rielaborate e interpretate in chiave attuale; le difficoltà incontrate dai poeti del deserto preislamico diventano gli ostacoli dell’uomo moderno. Il deserto diventa sinonimo di solitudine e disperazione. Ğabrā pur vivendo una fase estremamente creativa soffre della condizione di esule; non sceglie il discorso diretto della poesia impegnata per esprimere il suo disagio ma attraverso la metominia del deserto dice il dolore di chi vive lontano dalla sua terra che ricorda come l’amata:

Nel deserto primavere s’inseguono che ne è del nostro amore?

Quando i nostri occhi di polvere e di gelo sono al colmo?4

Non parla direttamente della Palestina parla dei mesi estivi e delle messi che nei suoi versi diventano metafora della terra lontana; non denuncia l’orrore degli attacchi, ma traspone gli eventi sul piano della calamità naturale, e il drammatico ricordo della distruzione che lo ha costretto all’esilio è descritto come uno scenario devastato da una tempesta come si legge in questi versi:

[…] distrussero i fiori sui colli del nostro vicinato abbatterono le case su di noi

sparsero i nostri resti

dispiegarono il deserto innanzi a noi di valli convulse per la fame

e ombre azzurre sparse sulle spine rosse chine su corpi – preda per falchi e sparvieri.5

Il nemico non ha volto, non ha nome. Tutto ciò che rimane del ricordo della Palestina, di questa nuova “Terra desolata” è la croce, il doloroso e umiliante fardello da portare, ma questa metonimia della croce allude ad un’altra quella della resurrezione del Cristo e quindi alla speranza della rinascita. In questi versi esplicita questa identificazione con la passione del Cristo:

Ho vissuto con il Messia con lui sono morto e resuscitato

4Corrao, 2004, p. 465.

la mia voce vibrava a distesa una voce che non sembrava la mia accendeva un fuoco a me ignoto Perché il fuoco? Per chi? Dammi ombra e acqua fresca per appendere i miei ricordi

alle pareti di una stanza abbandonata.6

Ai miti classici della tradizione islamica il poeta affianca quelli delle altre civiltà mediterranee, volendo così aprire la cultura araba alle altre esperienze per recepirne i valori condivisi, come quello del mito della rinascita dopo la morte, nell’auspicio di elaborare un ideale universale capace di rispondere alla crisi del presente.

Ğabrā nelle sue poesie elabora anche personaggi della letteratura classica occidentale, i miti più moderni, come ad esempio gli eroi shakespeariani. Durante la fase dell’esilio vissuta tra Beirut e Bagdad il poeta sente che gli esuli palestinesi pur facendo parte della più vasta comunità intellettuale araba si mantengono sempre nella loro identità specifica e diversa. Si rendono conto di non essere perfettamente integrati, il poeta è consapevole che gli intellettuali palestinesi in esilio vivono in una condizione particolare e per spiegarla evoca la sindrome di Faust, che a suo avviso li colpisce. Egli stesso da la chiave di lettura per il poema intitolato “Soliloquio di un moderno Faust”,7 che così commenta:

L’intellettuale palestinese, il collezionista di libri e di idee, l’ordinatore di esperienze e osservazioni patteggia con Mefisto in cambio di un eterno ardore. Percorrerà le città del mondo “come la notte, come la tempesta”, possiederà Elena e corteggerà Margherita, spinto sempre per monti e per valli da “un desiderio divino, da un appetito da gigante”, per esigere infine l’apocalisse, l’impegno in un atto catastrofico. Era certo che il mondo nascesse da un “vagito” ma che l’esilio non potesse che terminare nel “fracasso di un’esplosione”.

I toni del dramma pervadono buona parte dell’opera del poeta che non smette di sperare di tornare alla sua terra; il suo linguaggio però è sempre metaforico, nei cicli della natura e negli antichi miti traspone l’esperienza perché in questa prospettiva intravede la rinascita dopo la morte. La Palestina nella sua poesia è la terra del sogno e del riscatto e la terra martoriata del Signore. Le drammatiche vicissitudini della sua gente sono condivise dal poeta che in esilio sperimenta una drammatica sensazione di sradicamento fisico e spirituale che lo spingono verso una forte astrazione simbolica.

La lingua poetica di Ğabrā è classica, moderna e scevra dei formalismi stilistici della convenzione. Nei contenuti si riconosce l’eredità dell’innovazione di Ğūbrān

6 Corrao, 2007, p. 93

Khalīl Ğubrān, mentre per la forma adotta soprattutto il verso libero, dove si riconosce l’influenza della scuola della poesia irachena. Egli è infatti stato uno dei protagonisti del dibattito sulla nascente poesia libera, contrastando le posizioni meno aperte all’innovazione della poetessa irachena Nāzik al-Malā’ika (1923).

Ha scritto anche poesie in prosa nelle raccolte “Tammūz in città” (1959), “Circuito chiuso” (1960) e “Sole in agonia” (1981). Negli anni accanto all’attività critica ha sviluppato una grande abilità di prosatore. Tra le numerose opere che lo hanno reso celebre in tutto il mondo ricordiamo i romanzi tradotti in italiano La

nave (1994) e I pozzi di Betlemme (1997). In entrambe le opere tema centrale è il

dolore di chi, bandito dalla propria terra, è costretto a vivere in un eterno errare. Ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in Iraq, pur non condividendo le ultime scelte del governo, muore nel 1994.

Il poema che qui presento per la prima volta in traduzione, mi è stato consegnato dal poeta in occasione di un incontro a Bagdad nel 1988. L’artista era un grande ammiratore di Michelangelo e al tempo in cui ha dedicato questa lettera all’artista italiano sperava di poter tornare a visitare l’amata Italia. Ğabrā ha dedicato al nostro paese alcuni saggi di critica delle arti visive ed alcuni passaggi essenziali, e una protagonista, del romanzo La nave. Il testo che qui presento in traduzione si colloca in pieno nel quadro della sua opera poetica sin qui delineata. Il testo allude ai giovani protagonisti della prima intifada senza mai menzionare esplicitamente la rivolta che ha contribuito ad arrivare ai primi colloqui tra le parti belligeranti ed infine agli accordi di Oslo. Il poeta, come si è detto ha molto patito per la condizione di sottomissione della sua terra e a fronte delle infinite delusioni subite in campo politico vede nella rivolta dei giovani palestinesi una speranza per il futuro. Credeva, lui teorico del movimento della rinascita, che finalmente i tempi sono maturi e la nuova generazione dei Palestinesi è pronta a prendere in mano le sorti del proprio destino, e a rivendicare il diritto ad esistere e vivere dignitosamente nella propria terra. In questo senso i giovani sono destinati a far parte del mito della rinascita, del mito del giovane e fragile Davide contro il terribile Golia immortalato da Michelangelo. Il testo dunque va letto in chiave laica, non si parla di martirio in senso religioso, ma di un gesto eroico che si iscrive nel nazionalismo romantico byroniano. È una lode alla lotta contro la tirannide, per la difesa dei diritti dell’essere umano. Il confronto con l’opera del grande artista che rende immortale un gesto coraggioso è nel presente un invito a guardare alla bellezza dei giovani che si ribellano contro l’oppressione. Il poeta coglie l’ammirazione dell’artista per lo slancio eroico e sente che ancora oggi tornerebbe a produrre altre opere. La metafora della pietra della Palestina utile a rendere giustizia e a creare opere artistiche, non è un’apologia di un atto violento e gratuito, ma vuole indicare a guardare alla realtà con occhi diversi, da un altro punto di vista. Il poeta rivendica la possibilità di sognare un miracolo, di potere realizzare il diritto di vivere per creare opere degne dell’essere umano.

LETTERA A MICHELANGELO di Ğabrā Ibrāhīm Ğabrā

Grande scrittore, pittore, poeta cinquecento anni or sono sei rimasto affascinato dalla storia di un adolescente che si chiamava Davide. In un villaggio della Palestina c’era allora Golia, un gigante prepotente, armato sino ai denti. Il ragazzo non aveva null’altro che una fionda e due o tre sassi; con quelli colpì alla testa l’orribile gigante sconfiggendolo. Nel marmo hai scolpito il tuo straordinario “Davide”. Sulla spalla sinistra è poggiata la fionda e sulla mano destra ha due o tre pietre. Da artista hai modellato una statua che immortala il coraggio nei secoli come le leggende.

Non un David, ma ben mille David scolpiresti oggi se vedessi i nostri giovani. Ognuno di loro affronta mille Golia brutali armati sino ai denti, anzi di più sino agli occhi e alle orecchie.

Li affrontano con un sasso preso a terra, talvolta lo lanciano con la fionda e talaltra con la sola forza del braccio, per rompere la testa a chi vuole cacciarli dalla loro terra e impedire di respirarne l’aria.

Avresti scolpito straordinarie sculture guardando i bei movimenti del corpo di questi giovani quando si piegano a raccogliere i sassi e poi nel levarsi si volgono un poco e librano alte le braccia, eleganti come aquile per lanciare i piccoli proiettili verso i volti mostruosi, iniqui, rapaci.

Vivono sulle coste del mediterraneo che tu tanto amavi e ne difendono i colli e il piano.

Sono nati dalla roccia, lì sono cresciuti; hanno preso la solidità di quella roccia da cui hai creato i tuoi capolavori. Quando cadono sono come quel bel giovane, il Cristo che tante volte hai raffigurato. Il sangue gli scorre sui fianchi, giace ucciso sul petto della madre piangente, ma agli altri promette la vita e la dona dal suo profondo amore.

Tu, sommo pittore, che celebri la vita, del vivere non vedi che l’eterno dramma. Con lo sguardo trabordante della bellezza dei colli e delle case della Palestina, quali meraviglie avresti scolpito oggi, per celebrare il coraggio di questi giovani, il loro amore e attaccamento alla terra dai cui sassi san trarre miracoli. Nelle loro mani, nelle braccia, nel busto e nei piedi si rinnovano le immagini che amavi scolpire, che plasmavi dalla roccia con lo sguardo acuto e la passione creativa delle mani.

Michelangelo, angelo che hai soggiogato l’umanità maledicendo chi odia Dio e l’uomo. Avresti dovuto vedere oggi questi angeli come te colpire i simboli del male e dell’odio per Dio e l’essere umano, con una pietra sacra come quella con cui hai celebrato il coraggio la gioventù il sacrificio e l’eroismo. Sono i tuoi modelli viventi se li vedessi, statue da scolpire cui dare vita.

Oh sommo artista, questi sono i nostri villaggi pieni di gioventù, e pietre da cui potresti creare ancora nuove meraviglie e affollare il mondo rappresentando il dramma e il martirio in difesa dell’umanità che hai sempre amato.

Se io oggi tornassi ad ammirare i tuoi marmi a Roma e a Firenze di certo riconoscerei il tuo spirito creativo e in esso coglierei la vicinanza a quei giovani puri ma determinati dei nostri villaggi che, della morte impavidi, riproducono l’immagine del tuo miracolo.

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