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I L GIOCO DELLE LUCI

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 99-119)

RIFLESSIONI SULLA FESTA DI DIVĀLĪ

Aldo Colucciello

Cinque sono i giorni dei festeggiamenti della ricorrenza di Divālī, ed ognuno di essi custodisce particolari elementi, preziosi all’approccio ed alla comprensione di quanto accade e delle meccaniche che muovono e condizionano l’originalissimo pensiero simbolico del sub-continente indiano.

I cinque momenti della festa sono uniti dalla centralità dei temi dicotomici dell’opposizione tra luce ed ombra, tra bene e male e vero e falso.

Lak¡mī è la dea e l’attrice principale di questi giorni in cui viene particolarmente venerata come dispensatrice di ricchezza dalla classe mercantile che in quest’occasione le dedica, unitamente ai propri libri contabili1 una particolare pūjā.2

Il primo di questi giorni di festa è Dhanteras3 o Dhantryaodaśī, il tredicesimo della seconda metà di Kārtik,4 settimo mese del calendario lunare.5 Le celebrazioni sono dedicate oltre che alla dea dell’abbondanza e della ricchezza, Lak¡mī, anche al mitico medico, coppiere degli dei, Dhanvantari, autore dell’Ayurveda,6 nato simbolicamente (come la stessa Lak¡mī) dallo k¡īrasāgara,7 il “frullamento dell’oceano di latte”, tra “le quattordici cose da desiderare”, con in mano il bianco,

1 In questa occasione le caste dei mercanti usano far benedire durante una particolare cerimonia i libri

mastri delle loro attività in segno di buon auspicio. Questo è il momento dell’anno che da inizio al nuovo anno finanziario che a differenza del nostro non corrisponde all’andamento dell’anno solare.

2 Pūjā: termine sanscrito indicante la venerazione e per estensione il rito attraverso cui essa si esprime.

3 Dhanteras: il tredicesimo giorno della ricchezza. Letteralmente dhan: «ricchezza», teras: «tredici».

4 Il mese lunare di Kārtik corrisponde al periodo a cavallo tra ottobre-novembre.

5 Calendario lunare. Il movimento della luna intorno a se stessa (rotazione) avviene in un periodo di

tempo uguale a quello della sua rivoluzione (movimento intorno alla terra), e precisamente in 27 giorni, 7 ore e 43 minuti primi. Tale periodo di tempo è detto rivoluzione siderea o mese sidereo, in quanto coincide con l’intervallo che passa tra due congiunzioni successive della luna con una stella. Tuttavia, siccome anche la terra si sposta lungo la sua orbita intorno al sole, mentre la luna compie il suo moto intorno al nostro pianeta, ne consegue che la luna non ritorna in congiunzione con il sole dopo un mese sidereo, ma circa due giorni più tardi. Il valore medio dell’intervallo di tempo che passa tra due congiunzioni successive della luna con il sole è di 29 giorni, 12 ore, 44 minuti primi e 3 secondi, e prende il nome di rivoluzione sinodica o mese lunare o lunazione. Moltiplicando per dodici la lunazione abbiamo un intervallo di tempo di 354 giorni, 8 ore, 48 minuti primi e 36 secondi che si chiama anno lunare, che è più corto dì 11 giorni circa rispetto all’anno solare, ed è l’unità di misura su cui si basano i calendari lunari.

6 Ayurveda: antico trattato di medicina indiano. Le cure delle malattie sono finalizzate al riequilibrio dei

tre guṇa, i tre elementi che compongono la prakriti, la materia primordiale. Quando tamas (pesante, inerte, oscuro), rajas (attivo passionale), e satva (luminoso, leggero) non sono in equilibrio tra loro, il corpo si ammala. È uno dei quattro Veda, che sono alla base del pensiero filosofico-religioso dell’India.

7 Il mito racconta che tutte le divinità del pantheon induista usando un serpente ed un palo, a simbolo

dell’axis mundi, zangolarono il latte creando le cose dell’universo. Questo mito è descritto nel Bhagavata Puraṇā a cui si rimanda per maggiori dettami.

argenteo vaso contenente amrita, nettare splendente, l’ambrosia che assicura la vita eterna ed allontana la morte. Lo k¡īrasāgara viene menzionato, per la prima volta, nel Mahābhārata.8 I vecchi utensili da cucina vengono sostituiti, ed i nuovi, appena acquistati, posti sull’altare per la pūjā.

Per prepararsi alle celebrazioni di questo e dei giorni seguenti, si acquistano petardi, candele, lampade di terracotta ed hāthā, piccole teche di fango poste sulle mura delle case, nelle quali sono collocate le statuette di Lak¡mī e Gaṇe¡a9 sempre in terracotta, indispensabili per la pūjā di Divālī. Per questa occasione oltre che degli hāthā, non si può fare a meno delle ka¥orī, recipienti di metallo usati per l’offerta floreale ed i piccoli recipienti di terracotta. Cibi speciali come le papṟī10

vengono generalmente preparati in casa.

I fedeli fanno un bagno di mattino presto, spalmano sul corpo oli ed unguenti profumati ed osservano il digiuno fino al tramonto, quando quest’ultimo è interrotto con dolci, purī11 ed altre delizie. L’immagine della dea viene immersa nel latte e fatta oggetto di culto per tre giorni consecutivi.

In questo giorno le donne puliscono meticolosamente la propria casa ed aprono le finestre invitando ad entrare la dea Lak¡mī, accendendo una lampada di terracotta fuori dalla porta, poi, vengono tracciati degli yantra (particolari

manḍala12) sugli usci delle case, recano offerte ed accendono candele, sempre in onore di Lak¡mī. La Dea, si pensa, visiterà tutte le case, perciò dev’essere anche

corteggiata. Naturalmente, se la credenza popolare ed il folclore sono supportate da

storie di questo tipo il motivo va ricercato nelle storie frutto di interpretazioni puraniche; è vero anche che con la fine del monsone si abbia la necessità di ripulire la casa. Così questa pratica millenaria, ricca di simboli e contenuti sociali, potrebbe essere un fattore endogeno ad uno stato di necessità igienica.

Il simbolo per eccellenza di Divālī è la diyā,13 la lampada fatta come un “grappolo” di luci dalle quali deriva il nome stesso della festa. Secondo una delle numerosissime teorie, l’origine dell’usanza di illuminare case e villaggi per la ricorrenza sembra essere stata la credenza che, durante questa notte, gli spiriti dei morti rivisitano le proprie case, che vengono illuminate per mostrare loro la strada.

8 Cfr. Mahābhārata 1, 1103-1188.

9 Gaṇe¡a: figlio di Śiva e Parvatī. È il dio della sapienza, dalla testa d’elefante, con il terzo occhio ben

stampigliato sulla fronte ed una sola zanna. È una divinità molto popolare. Egli elargisce sapienza e rimuove gli ostacoli, per questo è il primo ad essere invocato all’inizio di un’impresa e soprattutto quando si compiono cerimonie. Gaṇe¡a dev’essere venerato in tutte le pūjā prima d’ogni altra divinità, infatti, nelle sedute di canti devozionali, i bhajan, iniziano sempre con un inno dedicato a questa figura.

10 Papṟī: speciali focacce croccanti preparate con farina di lenticchie.

11 Purī: spesse frittelle di farina impastate con lo yogurt che una volta gettate nell’olio bollente si

gonfiano come dei palloncini.

12 Manÿala: diagrammi simbolici rappresentanti le forze dell’universo. Dipinti, scolpiti o semplicemente

disegnati sul terreno, sono utilizzati come ausilio alla meditazione, in quanto aiutano colui che medita a superare gli aspetti visibili del mondo e a cogliere l’intima struttura del cosmo. Solitamente hanno forma di cerchio o di più cerchi iscritti in un quadrato, a rappresentare la struttura gerarchica del mondo fenomenico. Secondo Tucci sono degli psicocosmogrammi, delle mappe psichiche, come delle mappe dell’universo. Cfr. Tucci, 1969, pp. 1-167.

A sua volta, trae origine probabilmente, come avviene per quasi tutte le tradizioni indiane, da un antico racconto, dal quale deriva un altro dei nomi con cui si allude a questa ricorrenza: Yamadīpdān.14 Tale credenza rende facile l’associazione della festa indiana alle celebrazioni della nostra notte di “Tutti i Santi”. Il mito racconta che proprio nel giorno, che ora viene chiamato di Cho¥ī Divālī15 iniziarono i preparativi per l’accoglienza di Rāma di ritorno ad Ayodhya, dopo esserne stato allontanato per quattordici anni. Hanuman, il figlio del dio del vento, il grande

bhakta (devoto) del signore Rāma, giunse volando ad Ayodhya per informare la

famiglia ed il regno intero, del ritorno dell’eroe accompagnato dal fratello Lak¡maṇa e da Sītā. In grande fretta tutto il regno doveva prepararsi a ricevere l’eroe con tutti gli onori dovutogli.

Naturalmente i preparativi, nella dinamicità propria delle tradizioni popolari, non sono esattamente come venivano organizzati in passato, a causa della complessità dei passaggi rituali, pensare ad una preparazione di una perfetta Divālī. Così l’avvenimento ha perso col tempo parte dell’alone mitologico che contribuiva a rendere magico il periodo che precede la festa.

La tradizione è mantenuta viva dalla gente comune che acquistando una quantità cospicua di piccole diyā ed una lucerna di grandi dimensioni fatta con una malta speciale tengono in vita il gioco delle luci. Le lampade sono riempite d’olio di senape e gli stoppini fatti di cotone, non prima di essere immerse nell’acqua per un paio d’ore ed asciugate prima dell’uso perché consumino meno in fretta l’olio. Di solito per le celebrazioni viene scelto un posto ampio ed aperto della solita stanza della pūjā, una veranda o lo spazio antistante alle abitazioni è l’ideale. Questo apposito spazio è accuratamente spazzato e pulito con un panno umido, sul pavimento viene posta una lastra d’argilla fresca di piccole dimensioni, sulla quale sono disegnate, con un impasto più chiaro detto khaṟyā ma¥¥i, con l’ausilio di un pezzo di cotone, caratteristiche decorazioni delebili a forma di fiori e foglie ma non è raro trovare anche motivi geometrici. All’interno del hāthā è posta una paţţa.16 Su di essa vanno poste sarebbero le effigi della Dea, di Gaṇe¡a, oltre a quelle di Rāma, Sītā, Lak¡maṇa, e Hanuman. In altri spazi del luogo consacrato, non è difficile osservare immagini raffiguranti vari episodi dell’epopea di Rāma, Sītā, Lak¡maṇa, e Hanuman, oltre che episodi dell’avventura terrena dell’avatāra Kṛ¡ṇa e delle sue

gopī17 durante i rasalīlā.18 Nel quattordicesimo giorno della seconda metà del mese di Kārtik, si commemora l’uccisione da parte di Vi¡ṇu del Gigante fatto di sterco di

14 Yamadīpdān: il dono della luce di Yama. Letteralmente: Yama=dio della morte, dīp=luce, dān=dono.

15 Piccola Divāli.

16 La paţţa è una tavola oblunga molto sottile, che può essere decorata ad ogni pūjā con la khaṟyā ma¥¥i.

Quando quest’ultima è ben asciutta viene cosparsa con una mistura giallastra fatta di amido di riso e di haldī (curcuma, una spezia in polvere di colore giallo usata per fini alimentari).

17 Gopī: le pastorelle di Kṛ¡ṇa, il dio pastore. Nella tradizione indiana si gioca molto sul rapporto tra

questa divinità e le sue paredre, tra cui veniva preferita Radha. L’amore tra Kṛ¡ṇa e le gopī è comunque la metafora dell’amore di dio verso le anime dei suoi devoti e Radha è la personificazione della fedeltà e dell’abbandono a dio.

18 Rasalīlā: i giochi d’amore tra Kṛ¡ṇa e le sue gopī (Radha in particolare). È la danza della creazione, con

vacca Narakisura, grazie all’aiuto della sposa di quest’ultimo, incarnazione di

Bhūdevī, la Madre Terra. Per questo il secondo giorno delle celebrazioni per Divālī è detto, oltre che Cho¥ī Divālī, anche Nāraka Caturdaśī Snanaṃ.19 Il mito puranico dal quale deriva quest’ultimo epiteto ed il rito della celebrazione risultano essere alquanto interessanti.

In questo giorno tutti gli indù fanno più di un bagno rituale proprio come viene fatto per la morte di un parente prossimo. Dopo un primo bagno rituale, una lampada e del riso vengono fatti oscillare davanti ad ogni uomo della casa, per mano di una ragazza in età da marito o di una donna sposata, mentre un frutto di una pianta cucurbitacea gli viene posta innanzi. Quindi l’ortaggio, chiaro simbolo legato alla fertilità maschile, viene schiacciato sotto il piede sinistro e l’uomo spegne la lampada con il dito dello stesso piede, dopo di che si procede al secondo bagno e, avendo indossato nuovi abiti, si prende parte, insieme ad amici e parenti, al banchetto dalle numerose vivande preparate per l’occasione. Questa è detta essere la celebrazione della vittoria di Vi¡ṇu sul gigante, ma la distruzione della cucurbitacea da parte di ogni uomo della casa (Vi¡ṇu) rappresenta il ricollocare il demone all’inferno, indotto dal fatto di far oscillare la lampada nelle mani di una donna della casa (Bhūdevī stessa) rimanda ad un’ovvia messa in scena della morte della stagione produttrice di un raccolto di riso; e l’estinzione della lampada non suggerisce un’allegoria del prossimo allontanamento dell’orbita della terra dalla luce dal sole, volendo considerare Vi¡ṇu-sole e Bhūdevī-terra? Questo messaggio rappresenta una caratteristica peculiare della vita indiana: il bene della società prevale sugli obbiettivi e sugli affetti personali, vaiśeṣa-dharma prevale sullo

sva-dharma,20 come Kṛ¡ṇa aveva già ampiamente dimostrato nella Bhagavadgītā.21

Sono diversi in questo rituale gli spunti sui quali riflettere per avere un quadro del pensiero che caratterizza le dinamiche legate a questa festa. L’azione di Satyabhava suggerisce che i parenti non devono esitare a punire i propri cari che

19 Nāraka Caturdaśī Snanaṃ: “Bagno di Nārak nel quattordicesimo giorno”. C’era una volta, in Bengala,

un re asura, (un re demone) chiamato Nārak, figlio di Bhūdevī (Madre Terra), profondamente devoto a Vi¡ṇu. Grazie a miracolosi poteri ottenuti attraverso le pratiche ascetiche divenne imbattibile e cominciò a terrorizzare l’intero regno. La condotta prepotente di Nāraka indisponeva perfino gli dei che decisero, infine, di rivolgersi al dio Vi¡ṇu perché ponesse fine a quello stato di cose. Intervenne quindi il dio a cui era devoto nelle vesti del suo avatāra Kṛ¡ṇa. Nāraka però non poteva essere facilmente sconfitto poiché un sortilegio lo rendeva vulnerabile solo all’offesa della propria madre. Kṛ¡ṇa quindi chiese alla stessa moglie dell’asura, Satyabhava, la reincarnazione di Bhūdevī, di fargli da auriga nella battaglia contro il tiranno. Quando Kṛ¡ṇa colpito da una freccia di Nāraka, perse i sensi, la donna non prese più tempo e impugnato l’arco e scoccata una sola freccia uccise istantaneamente quel marito-figlio prepotente. Il popolo fu cosi liberato dalla tirannia. Anche le 16000 donne rapite dall’asura furono messe in libertà e per rimuovere ogni stigma che la cattività aveva loro procurato, ridonando loro la dignità sociale, Kṛ¡ṇa diede ad ognuna lo status di propria moglie. Alla fine il Kṛ¡ṇa fece un bagno cospargendo il proprio corpo di unguenti profumati il mattino del giorno Caturdaśī. Cfr. Gupte, 1994, pp. 17-25; Bahadur, 2000, p. 41.

20 Sono concetti che avrebbero bisogno di un trattato a parte per essere compresi. Qui ci limitiamo a dire

che il primo rappresenta il dovere-morale verso la comunità, verso gli altri, più edificante del secondo che rappresenta il dovere-morale verso se stesso.

21 Nella Bhagavadgītā, questo principio è espresso nel secondo capitolo dove si enunciano i principi del

Karma Yogā, o “yogā dell’azione”; qui si tratta di un’azione particolare che deve essere compiuta senza aspettarsi nessuna ricompensa. Cfr. Esnoul, 1991, Bhagavadgītā, canto II.

hanno intrapreso una strada sbagliata ed anche l’importanza dello stato di purezza femminile è chiaramente enunciato in questo episodio. La purezza della donna è un elemento importantissimo nella ricorrenza di Divālī. Lak¡mī e Sītā, moglie dell’avatāra di Vi¡ṇu, Rāma, sono figure femminili di spicco in queste celebrazioni, sono gli esempi guida di femminilità poiché possiedono come caratteristica principale la dote della purezza e della completa devozione al proprio uomo, devozione, in alcun casi, spinta al livello d’abnegazione. Ancora da non sottovalutare il fatto che il Gigante fatto di sterco di vacca può essere ucciso solo dalla propria madre, la terra.22

Una seconda leggenda legata a questo giorno di Divālī, molto simile alla precedente, è quella nella quale viene commemorato un altro degli episodi che rappresentano la vittoria del bene sul male, il trionfo della luce sulle tenebre, il tema portante delle celebrazioni: l’espropriazione dell’immeritato regno terreno al re Bāli sempre da parte di Vi¡ṇu, sotto le spoglie del nano Vāmana. Presente in quasi tutti i racconti legati a Divālī; Vi¡ṇu è il protagonista principale delle celebrazioni della festa e rappresenta il “portatore di luce” contrapposto alle tenebre, indissolubilmente connesse al tema della morte (la figura di Yama è l’altra onnipresente). In Mahāra¡tra, al momento non ne ho altre testimonianze, esiste questa forma commemorativa, le donne preparano le effigi del re Bāli con farina di riso o con sterco di vacca e le venerano ripetendo le frasi d’auspicio sul tipo: “possa tutto il male scomparire ed essere restaurato l’impero del re Bāli”. Questa variante della festa è la palese rielaborazione del mito puranico che racconta di come un

nano, con tre passi prese possesso dei tre mondi.23

Il terzo giorno è consacrato alla pūjā a Lak¡mī che se paga e ben disposta concederà ricchezza a chiunque la veneri. Nel giorno che chiude il mese di Kārtik, le donne praticano il rito dell’amāvas kā kājal, “fare il profilo agli occhi della luna nuova”, che viene usato come incantesimo contro il “malocchio” per tutto l’anno a venire e come atto simbolico per esorcizzare la povertà.

Il giorno della Govardhan pūjā, detto del dio visibile,24 è dedicato alla venerazione per la collina che simbolicamente accoglie tutte le mandrie, le messi e la ricchezza dei devoti. È ancora Kṛ¡ṇa, il protagonista del mito che accompagna questa festa. In quest’occasione si commemorava l’incoronazione del re Candragupta II

22 Ancora oggi lo sterco di vacca è il combustibile più usato nelle aree rurali indiane.

23 Bāli, grande devoto di Vi¡ṇu, promette al brahmano, Vāmana tre passi del suo regno, non sapendo che

dietro la figura del nano si celasse lo stesso Vi¡ṇu; così, palesandosi la divinità con un passo copre la terra, con il secondo l’intero universo e non avendo dopo poggiare il terzo passo resta perplesso sino a quando il re-devoto non dona la sua testa come appoggio per il piede della divinità. Cfr. Tagare, 1976-1979, Bhagavata Puraṇā.

24 Govardhan è oggi un masso circondato da un recinto che non permette ai devoti di avvicinarsi a quel

che resta della collina, dove i devoti erano soliti prenderne un frammento come ricordo. Questo masso era la collina che Kṛ¡ṇa sollevò sulla punta di un dito, a mo’ d’ombrello per proteggere il suo villaggio natale da un attacco di un demone. È questo un posto singolare perché è l’unico luogo, geografico, in India, che viene associato con un luogo della mitologia con una certa esattezza.

(Vikrāmaditya)25 che molto probabilmente scelse questa data, per la sua ascesa al trono, per far si che il proprio nome venisse associato a quello di Rāma che si pensa fosse ritornato proprio in questo giorno ad Ayodhya, il suo regno, dopo quattordici anni di esilio nella foresta.26

Quest’episodio della vicenda di Rāma, raccontata per l’appunto nel Rāmāyana, rappresenta il fulcro dei festeggiamenti di Divālī, insieme alla pūjā per Lak¡mī, almeno nel nord del paese, dove il culto di Rāma è particolarmente sentito.

La preparazione all’evento, come abbiamo visto comincia addirittura due giorni prima, durante Cho¥ī Divālī, affinché tutto sia pronto per celebrare la grandezza delle gesta dell’eroe. La scena che si può osservare per le strade, in questi giorni, può essere assimilata a quella che viene performata durante il Rāmalīlā di Rāmanagar,27 che rappresenta proprio il ritorno dell’eroe ad Ayodhya dopo la battaglia di Lāṇka.

Nel secondo giorno della prima quindicina lunare dopo Divālī, denominato

Bayā dūj si celebra il rapporto tra nuora e suocera; in quest’occasione la donna più

giovane offrendo dei doni a quella più anziana sancisce la scala dei valori gerarchici nell’ambito familiare.

Analizzando le fasi celebrative, secondo le varie esperienze regionali, il primo stadio del lavoro potrebbe consistere nell’isolare una serie di gesti e simboli, estrapolarli dal mutante corpo della tradizione e ricondurli, laddove sia possibile, alle primitive intenzioni, verso quelle realtà socio-culturali che li hanno generati e puntare l’attenzione a quelle interazioni che li hanno ri-prodotti, così da ricavarne una forma quanto più possibile prossima a quella della tradizione originaria.

Se prendiamo in esame la teoria del Gupte,28 procedendo a ritroso nel tempo e

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