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F IORI , PIANTE E ANIMALI PER D AISUKE

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 71-91)

Guidotto Colleoni

Premessa

Creature della natura vegetale e animale rappresentate nei capitoli I, III, IV, V, VI, VIII e inizio del X del romanzo Sore kara (“E poi”, 1909) di Natsume Sōseki (1867-1916)1 –i loro significati simbolici, ma anche il loro effettivo agire nell’animo del protagonista–: questo l’oggetto del presente nostro lavoro di ricerca e di definizione: un lavoro che vorremmo potesse anche riuscire di qualche utilità (se troppo non ci lusinghiamo) a chi voglia addentrarsi nell’ardua, vasta complessità di Sore kara: questo capolavoro che, ci piace aggiungere, indubbiamente occupa, per i suoi propri meriti, un posto di tutto riguardo nella storia della letteratura, non solo giapponese, del XX secolo.

***** Dal capitolo I:

Così comincia il romanzo:

Si udì un calpestio frettoloso: qualcuno passava correndo davanti al cancello. In quel momento nella testa di Daisuke pendeva un paio di grandi zoccoli, sospesi nel vuoto. Ma con l’allontanarsi del rumore dei passi, anche l’immagine degli zoccoli sembrò scivolar via e poi svanì del tutto. E Daisuke si svegliò.

Guardò accanto al letto e vide sul pavimento un grosso fiore doppio di camelia. Ricordava con certezza di avere udito il fiore cadere durante la notte. Gli era sembrato come se una palla di gomma fosse stata lanciata giù dal solaio. Impressioni che si possono avere a notte inoltrata, quando tutt’intorno è silenzio, aveva pensato Daisuke; tuttavia, per tranquillizzarsi, si era posto la mano destra sul cuore, e poi, sentendo alle estremità delle costole le normali pulsazioni del sangue, aveva preso sonno.

Per qualche tempo continuò a guardare distrattamente il colore del grosso fiore, grande all’incirca come la testa di un neonato. Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato, sempre rimanendo coricato, si pose una mano sul petto e provò ancora a verificare il battito del cuore. Da qualche tempo porsi una mano sul petto per sentire, rimanendo coricato, le pulsazioni del cuore era per lui diventata un’abitudine, come un’idea fissa. Il battito era, come sempre, calmo e regolare. Continuava a tenere la mano posata sul petto, e cercava di immaginare il lento scorrere del sangue caldo e vermiglio sotto la spinta delle pulsazioni. È questa la vita, pensava: il fluire della vita che egli, in

1 Lo spazio limitato di cui abbiamo potuto disporre ci ha imposto di non andare oltre l’inizio del

questo momento, era in grado di stringere con la palma della mano; ma la risonanza che sentiva tra le sue dita, che agiva come le lancette di un orologio, gli sembrava anche un campanello d’allarme che lo invitasse alla morte. Se soltanto avesse potuto vivere senza udirlo, questo campanello d’allarme, se questa sacca, che provvedeva a fare scorrere il sangue, non avesse avuto anche la funzione di fare scorrere il tempo, come si sarebbe sentito contento! Come si sarebbe potuto veramente godere la vita! Tuttavia… e improvvisamente rabbrividì. Daisuke desiderava vivere: desiderava vivere al punto di non poter sopportare l’immagine del suo cuore che, nutrito dal fluire del sangue, batteva tranquillo, imperturbabile. Talvolta, rimanendo coricato, si poneva la mano sotto la mammella sinistra e s’immaginava che qualcuno lo colpisse proprio lì, con un martello. Pur godendo ottima salute, Daisuke arrivava a considerare l’oggettiva, indiscutibile realtà del suo esser vivo come un caso fortunato, quasi un miracolo.

Allontanò la mano dal cuore, prese il giornale che era stato posato vicino al letto, e, tirate fuori le braccia dalle coperte, lo aprì spiegandolo per tutta la sua ampiezza. A sinistra si vedeva l’immagine di un uomo che pugnalava una donna. Guardò subito un’altra pagina: stampate a grandi caratteri vi si riportavano notizie sulle agitazioni degli studenti. Per un po’ continuò a leggere, ma ben presto gli si stancarono le mani e lasciò cadere il foglio sulle coperte. Poi si sporse un poco dal letto, e seguitando a fumare una sigaretta, riuscì a prendere la camelia che era caduta sul pavimento. La rivoltò e se la portò al naso. Bocca, baffi e quasi tutto il naso erano nascosti dal fiore. Le spire di fumo erano così dense che sembravano impigliarsi nei petali e negli stami. Posò la camelia sul lenzuolo bianco, si alzò e andò in bagno.2

All’immagine dei grandi zoccoli sospesi nel vuoto elaborata nell’interiorità della fantasia onirica del protagonista del romanzo, Daisuke, ancora addormentato, ma sul punto di destarsi, corrisponde nella realtà esterna un segno di vita attiva,3 un segno che sembra una chiamata, una sollecitazione a vivere, alla quale il dormiente non può sottrarsi, a vivere in un mondo in perenne movimento: “ah, si muove, il mondo si muove”, dirà Daisuke nel tragico finale del romanzo.4

Ora egli è desto, in grado di percepire, con chiara coscienza, la realtà del suo esistere, la realtà di questo mondo, di cui fa parte il suo stesso esistere, questo mondo che si muove perennemente, implacabile, fuori di lui, dentro di lui (le pulsazioni del cuore), questo mondo da cui gli arrivano segni di vita che sono qui, in questo incipit del romanzo, prevalentemente anche messaggi di morte, più o meno consapevolmente percepiti come tali: ecco la risonanza del battito cardiaco, “che agiva come le lancette di un orologio”, e “gli sembrava anche un campanello

2 SZ c, pp. 5-6. Una volta per tutte si avverte che l’abbreviazione SZ – a cui si fanno seguire le lettere a, b,

c per distinguere i diversi volumi – si riferisce all’edizione completa delle opere di Natsume Sōseki, Sōseki zenshū, Tōkyō, Iwanami shoten, 1956-1957, 34 voll., edizione di cui qui ci serviamo per le citazioni da Sore kara (SZ c) (1909), da Kusamakura (SZ a) (1906), da Sanshirō (SZ b) (1908).

3 “Nel mondo di Sōseki il sogno è costantemente connesso con la realtà” (Oketani, 1976, p. 116).

d’allarme che lo invitasse alla morte”; ecco “l’immagine dell’uomo che pugnalava una donna”, immagine d’orrore, evidentemente intollerabile per Daisuke, che “guardò subito un’altra pagina”. Ma soprattutto, in modo particolarissimo, sembra volersi ripetutamente imporre alla nostra attenzione il fiore di camelia, il primo oggetto del mondo reale che si offre, anzi s’impone alla vista di Daisuke appena risvegliato, e già, durante la notte, cadendo, gli aveva colpito l’udito e, non riconosciuto, lo aveva turbato, come una presenza, si direbbe minacciosa, ostile, comunque oscura ed estranea, tanto da fargli sentire subito il bisogno di verificare le proprie naturali “pulsazioni del sangue” – il “fluire” rassicurante “della vita” –, bisogno di verifica su sé stesso che ora si rinnova in lui, che, nella chiara luce del giorno, in quel fiore caduto può riconoscere la causa del suo turbamento notturno. E ancora, alla fine del passo citato, Daisuke, prendendo quel fiore, portandoselo alla bocca, stabilendo con esso uno stretto contatto fisico, sembra farlo tutto suo, quasi parte di sé stesso: dall’estraneità oscura all’intimo contatto fisico.

“E poi si apre con un segno di malaugurio: una rossa camelia doppia,5 che cade sul pavimento. Il fiore di camelia che cade tutt’intero, e non petalo per petalo, ripugnava ai samurai, perché ricordava loro le teste mozzate”.6

In un assai significativo passo del romanzo Kusamakura (cap. X),7 scritto e pubblicato da Sōseki nel 1906, l’io narrante protagonista contempla alcune piante fiorite di camelia sulla riva di uno stagno: il verde delle foglie è “troppo cupo: anche di giorno, alla luce del sole, non dà alcun senso di piacevole leggerezza”; intenso, vivacissimo, affascinante il colore rosso fuoco dei fiori, ma il cuore di chi li guarda non si rallegra, anzi nella sua fantasia essi si associano all’immagine di una maga seducente e funesta: malvagia, ingannevole avvelenatrice. E ancora: “Quel colore non è un semplice rosso. È uno strano rosso, è come il sangue di un prigioniero barbaramente trucidato: è naturale che attragga i nostri sguardi, ma è anche naturale che ci ripugni”.8 E intanto cadono quelle rosse “cose”, continuano a cadere dai rami, ad una ad una, tutte intere, senza sfogliarsi, “sembrano non avere rimpianti”; ma provocano un senso di malaugurio in chi le guarda, cadute nell’acqua e che conservano tuttavia la loro forma.9

5 Veramente qui Sōseki non ci dice esplicitamente che il fiore è rosso, ma tale si è indotti a vederlo,

immaginando la scena. Poco più giù, in questo stesso passo, nella frase “Per qualche tempo continuò a guardare distrattamente il colore del grosso fiore, grande all’incirca come la testa di un neonato” non sembra possa essere altro che rosso (o rosa) quel “colore del grosso fiore”; e rosso viene detto, esplicitamente, nelle interpretazioni di questo passo che ci propongono diversi critici.

6 Così Moore Field, 1978, p. 270. E noi pensiamo subito a quel fiore caduto di camelia paragonato alla

“testa di un neonato”.

7 SZ a, pp. 91-92.

8 Cfr. l’orripilante immagine delle lingue degli impiccati (“bagnate di schiuma sanguigna, come fiori

orrendi sbocciati sulle labbra”) nel brano di Andreev, riportato da Sōseki all’inizio del capitolo IV (SZ c, pp. 40-41), di cui ancora diremo più giù.

9 Sembra lecito scorgere, o forse soltanto intravedere, qui, la Natura che si presenta con uno dei suoi due

volti, quello terribile di “dea della vendetta”, “furia selvaggia, assetata di sangue”, quale ci mostra Sōseki in un suo frammento in inglese (1904-1905), che Oketani (1976, pp. 116-117) cita al fine di meglio illustrare il proprio concetto di natura in Sore kara: “dea dai due volti” (quello della “vendetta amara” e quello della “beatitudine”).

Ma poco più giù, nello stesso passo, emerge, nella fantasia del protagonista, un’incantevole immagine da dipingere: ”una bella donna galleggiante” in quell’acqua, sotto i fiori di camelia che continuano a cadere; e gli torna alla mente quel che gli aveva detto la bella e misteriosa Onami (cap. IX):10 “Mi dipinga in un bel quadro, quando mi sarò gettata nell’acqua, e il mio corpo galleggerà: galleggerò senza soffrire, galleggerò così, morta, in pace”. Alle immagini di atroce, sanguinosa crudeltà, di tenebroso orrore, di ingannevole, funesta malia, si sono ora sostituite – sempre però presenti i fiori di camelia – immagini di una quiete, in cui sembra rinnovarsi perpetuamente una promessa di eterna serenità, come risposta a uno struggente desiderio di obliarsi nel mondo dei sogni, via dai travagli della vita quotidiana (ma tale quiete non è pur sempre quella della morte?).

Sempre in Kusamakura (cap. VI)11 il protagonista si era già compiaciuto di immaginare: “Il padrone, la figlia, la cameriera, l’inserviente […], dopo aver compiuto il loro dovere di tafani, che rendono ancora più lunghi i lunghi giorni, potrebbero anche, incapaci di suggere la dolce rugiada addensata sui pistilli, giacere nascosti sotto i fiori caduti delle camelie e trascorrere così nel sonno, tra le fragranze, la loro esistenza”. Anche in questo fantasticare, dominato dalla presenza dei fiori di camelia, c’è seducente malia, e struggente desiderio di obliarsi nel sonno, nel mondo dei sogni, lontano dai travagli della vita quotidiana, ma non tenebroso orrore, non sanguinosa crudeltà.

Torniamo ora alle pagine iniziali di Sore kara, e dobbiamo constatare che a quel fiore di camelia, che si è indotti a vedere rosso,12 non si associano le immagini e i significati che invece abbiamo trovato nei passi citati di Kusamakura. Il fiore di camelia di Sore kara non viene in alcun modo connotato e caricato con espliciti e dichiarati – o quanto meno facilmente intuibili – valori simbolici. Tuttavia appare evidente che non senza una segreta intenzione il rumore causato dalla sua caduta è stato dall’autore in qualche modo connesso con le preoccupazioni nevrotiche di Daisuke; che, poi, vediamo particolarmente attratto da quella grossa corolla, in cui nasconde parte del suo viso,13 quella grossa corolla che infine lascia sul lenzuolo “bianco”: un contrasto voluto, ci sembra, con il colore della camelia. E rossa (“vermiglia”) è l’onda sanguigna che batte contro le pareti delle arterie, che è fomite di vita; ma quel battito segna il tempo – e sia pur lento – dell’inesorabile appressarsi della morte.14 In conclusione sembra lecito proporre qui un’interpretazione che postuli un simbolismo del tutto implicito, un simbolismo per così dire muto, fondato

10 SZ a, p. 88.

11 SZ a, p. 55.

12 “Questo colore rosso appare in tutta l’opera [Sore kara – n.d.t.] come simbolo delle paure e delle

inquietudini di Daisuke, […] presagio del tragico finale”. Così, e siamo d’accordo, Shigematsu in Yoshida Seiichi, 1967, p. 119. Ma c’è anche, lo vedremo, il rosso fiore di “amaranto” del capitolo IV, vivente e generatore di vita, su cui, come pronubo, agisce Daisuke.

13 Come se si volesse compenetrare con la realtà che ora più lo attrae.

14 Un “rosso destino” ci appare (ma c’è anche il colore nero) in un passo del cap. IX del precedente

romanzo di Sōseki, intitolato Sanshirō (1908), in cui il protagonista Sanshirō assiste a un incendio rovinoso (SZ b, p. 188). Conviene però subito avvertire che con ben altra, maturata coscienza, con ben più acuta e raffinata sensibilità riceverà Daisuke i rossi (e neri) messaggi del mondo reale.

su rapporti realmente posti dall’autore tra persone, cose ed eventi, ma non facilmente definibili in termini logici.15 È ad ogni modo certo che questo fiore, rosso, già visto, nei passi citati di Kusamakura, come provvido custode del dolce dono del sonno e dell’oblio, associato anche alla godibile immagine di una bella morte, ma pure a quella di una misteriosa, terribile creatura, che sotto splendida veste tiene in serbo un “nero veleno”, e, come tale, associato anche a immagini di ingannevole, “velenosa” malia (repellente e pure seducente), di sanguinoso massacro, è, in

Sorekara, subito accostato a un personaggio a cui accadrà di non sopportare gli

stimoli violenti che gli arrivano dai più luminosi rossi, soprattutto quelli della vita vegetale, di sentirsi profondamente disgustato dall’apparire del colore del sangue, terrorizzato, ma pure, si direbbe, morbosamente attratto dall’immagine delle lingue degli impiccati “bagnate di schiuma sanguigna, come fiori orrendi sbocciati sulle labbra”, che si trova nel brano di Andreev, riportato dallo stesso Sōseki all’inizio del capitolo IV,16 un personaggio ossessionato dalla tormentosa precarietà dell’esistenza, incline a fuggir via dalla realtà, quella realtà dell’operosa società civile, a lui odiosa, da lui giudicata con estrema severità, a cui egli non vuole in alcun modo servire, desideroso di pace e di oblio; ma che pure alla fine – occorre aggiungere – i moti vorticosi della vita reale – quella di tutti gli altri – si troverà a dovere affrontare, e in essi gettarsi a capofitto, perdutamente, trascinatovi da una amore dolcissimo, rigenerante e tuttavia avvelenato da presagi di morte,17 senza altra da lui desiderata prospettiva se non quella di ardere e tutto consumarsi insieme con la donna amata, a lei unito in un supremo abbraccio, circondato dalle fiamme ruggenti sprigionate da una società divenuta tutta nemica:18 e fiamme appaiono, come reali, nella delirante, rossa, visione finale: “Alla fine il mondo intero divenne rosso, completamente rosso. E con la testa di Daisuke al centro girava vorticosamente soffiando lingue di fuoco. E Daisuke stabilì che avrebbe continuato a farsi trasportare dal tram fino a che la sua testa fosse completamente arsa” (cap. XII).19

Quello stesso Daisuke – ci viene anche detto nel passo iniziale del romanzo sopra riportato, non lo dimentichiamo – che pure “desiderava vivere”, che vuole “godere la vita”, goderla “veramente”. E in verità lo si vede, in alcune occasioni, nel corso del romanzo, riuscire, certo nei limiti delle sue capacità di raffinatissimo esteta, a farsi, della sua vita, pienamente (anche se provvisoriamente) padrone, assaporandone alcuni aspetti con intenso piacere dei sensi e dell’animo.

15 Secondo Ino Kenji, citato e seguito da Shigematsu in Yoshida Seiichi, 1967, p. 119, “fin dall’inizio del

romanzo, nel colore del rosso fiore doppio di camelia, sono simboleggiate ‘l’inquietudine come carattere essenziale di un vivere che ha per centro la passione d’amore’ e ‘l’inquietudine sociale rappresentata dalle ‘agitazioni studentesche’. Viene così subito indicato il tema principale che attraversa tutta l’opera”. Interessante, ma certamente discutibile.

16 Cfr., sopra, n. 8.

17 “Sōseki, partendo dall’impressione che dà la caduta – la caduta improvvisa – e il colore del fiore della

camelia, e l’umida pesantezza dei petali, approfondendone il senso, ne ha fatto il simbolo di un amore funesto”. Così in Miyoshi, 1992, p. 231.

18 Cfr. SZ c, p. 251.

***** Ancora dal cap. I:

Daisuke uscì dal tinello, attraversò il salotto e tornò nello studio. Si guardò attorno e notò che vi era stato fatto ordine con molto scrupolo. Anche la camelia caduta era stata spazzata via. Daisuke si fermò davanti alla libreria, che si trovava a destra di un vaso da fiori, prese un pesante album di fotografie dal ripiano più alto e, rimanendo in piedi, aprì il fermaglio dorato e cominciò a voltare le pagine. Arrivato alla metà, lì si fermò a un tratto la sua mano. Vi appariva l’immagine a mezzo busto di una donna di circa vent’anni. E Daisuke abbassò gli occhi, e guardava fisso il volto di lei.20

Sparito il fiore di camelia, vistoso simbolo muto (ricordiamo la denominazione sopra proposta), riaffiora da un passato ancora a noi ignoto il volto di una giovane donna. Quel volto sembra tuttora assai vivo nella memoria di Daisuke. Tenerezza? Amore? Oppure risentimento? Cruccio? Oppure sterile rimpianto? O soltanto un tenue e vago ricordare? O, forse, una speranza? Una promessa?

*****

Nel capitolo III troviamo Daisuke nella casa paterna, dove, insieme con il padre Toku, vive il fratello maggiore Seigo con sua moglie Umeko e i suoi due figli, il quindicenne Seitarō e la dodicenne Nuiko.

Anche oggi Daisuke si è dovuto sorbire una predica moralistica, tutta fondata sui nobili, ma secondo lui – e anche secondo Sōseki – anacronistici, e comunque innaturali principi dell’etica confuciana, adottata e adattata nel Giappone feudale dei Tokugawa: 21 chi gliel’ha inflitta è suo padre Toku, integerrimo (e insopportabile) moralista, a parole, e, nei fatti, abile e fortunato uomo d’affari, che, a quanto pare, si è costruito la sua fortuna senza farsi troppi scrupoli. Ora l’insopportabile predicatore di virtù è uscito e Daisuke, rimasto solo, nel “salotto in stile occidentale”, il cui “arredamento era stato ordinato, in gran parte, a specialisti, che l’avevano realizzato seguendo le sue indicazioni”, si dedica per qualche tempo a un severo riesame critico di “una pittura decorativa intorno a una lunetta”, “risultato di molte e varie consultazioni con un pittore di sua conoscenza, a cui aveva voluto affidarsi”.

Segue una conversazione tra Daisuke e sua cognata Umeko, con un brioso scambio di battute, nelle quali prevalgono i toni arguti e faceti, ma si dicono, da due punti di vista diversi, anche incontrovertibili, molto serie verità: soprattutto difficile obiettare a quelle dette dalla saggia (ma non perciò meno amabile) Umeko. Fra l’altro: “Furbo eh: te ne stai a dormire e così credi di poter far soldi”. “E se anche non pensi a far soldi, però li spendi: non è la stessa cosa?”.22 Ma ecco un’improvvisa, momentanea apertura paesaggistica, una breve occasione di fuga

20 SZ c, p. 13.

21 Cfr. SZ c, p. 24 e pp. 26-33.

nel mondo della contemplazione della natura incontaminata: evasione breve verso un’immagine di pura, quieta bellezza, che si offre, per un istante, alla sensibilità dell’esteta costretto a misurarsi col peso della “polvere del mondo” degli uomini:23

Daisuke interruppe per un momento la conversazione. Guardava il bel cielo dietro le spalle di Umeko, oltre le tende della finestra. Si vedeva, lontano, un grande albero. Dappertutto aveva messo gemme di colore avana, e le cime tenere dei suoi rami sfumavano sullo sfondo del cielo, come se le velasse una pioggia sottile.24

Arriva a dire Yoshida Hiroo, assai sensibile, come sembra, al mono no aware:25

“Non c’è da stupirsi se al di là [di quel che, nel cap. III, vede Daisuke dietro le spalle di Umeko – n.d.t.] si nasconde il fantasma di Michiyo”.26 Michiyo, la moglie infelice di Hiraoka, l’amico di Daisuke: la vediamo apparire in casa di Daisuke, nell’ultima parte del capitolo IV. È lei, ne possiamo esser certi, la donna, di cui Daisuke, nel cap. I, “guardava fisso il volto” ritratto in fotografia, la donna da sempre in fondo da lui amata – e che da sempre lo ha amato –, fin dai tempi in cui

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 71-91)