Capitolo 2. L’homo consumens
2.2 La felicità
La società consumistica è l’unica «che promette la felicità nella vita terrena, la felicità qui e ora e in ogni successivo “ora”: felicità istantanea e perpetua»142.
Non si giustifica o legittima l’infelicità, ritenuta intollerabile tanto da punire coloro che ne sono colpevoli. La vita felice è il valore supremo in rapporto al quale tutti gli altri valori misurano la propria importanza.
Più di ogni altra società, la società dei consumatori vive o muore in base alla felicità dei suoi membri e ciascuno considera la ricerca della felicità come una sfida, un compito, una strategia di vita.
Nella società liquido-moderna esiste la convinzione secondo cui ci sia un legame tra la felicità e la quantità e qualità del consumo, motivo per cui equiparare la felicità all’acquisto di un prodotto da cui ci si attende felicità, rende sempre più remota la possibilità che la ricerca della felicità termini. Secondo Bauman la fine di quella ricerca equivarrebbe alla fine della felicità stessa:
«Non essendo raggiungibile uno stato di felicità sicura, solo l’inseguimento di quell’obiettivo ostinatamente sfuggente è in grado di mantenere i corridori (moderatamente) felici. Nella pista che porta alla felicità il traguardo non c’è»143.
I mercati fanno in modo che questa ricerca continui all’infinito e coloro che inseguono la felicità sono consapevoli che gli obiettivi fissati devono esaurirsi velocemente e perdere attrattiva e valore così da venire sostituiti in fretta da nuovi obiettivi migliorati che però andranno incontro alla stessa sorte.
Frederic Beigbeder afferma: «Sono un pubblicitario. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità perché la gente felice non consuma»144.
In questo modo «[…] la visione della felicità si sposta dalla gioia prevista, successiva all’acquisto, all’atto, precedente, di fare acquisti, che trabocca di
142 Z. Bauman, Consumo, dunque sono, cit. p 56. 143 Z. Bauman, L’arte della vita, cit. p. 13.
gioiose aspettative perché colmo di una speranza ancora intatta, immacolata e non ancora delusa»145.
Il consumo però non è sinonimo di felicità né tantomeno ne provoca con certezza l’avvento; il sentimento di felicità non cresce in modo costante e proporzionale al crescere del reddito, ma si ferma una volta raggiunta la soglia del soddisfacimento dei bisogni essenziali o naturali.
Contrariamente alle promesse e alle credenze diffuse nella società dei consumi, ulteriori incrementi di reddito non fanno salire il livello di felicità.
Non ci sono prove che la crescita dell’ammontare complessivo dei consumi porti ad un aumento di coloro che si sentono felici anzi, nei paesi industrializzati in cui vige la società dei consumi, si nota una crescita delle condizioni di disagio e di infelicità, di stress, depressione, criminalità, peggioramento dei rapporti umani, dubbi sulla propria condizione di vita e lavorativa, mancanza di fiducia in se stessi, insicurezza, malcontento e paura.
La ricerca della felicità è tornata ad essere un tema molto dibattuto anche dagli economisti: da sempre si è ritenuto che, anche se i soldi non fanno la felicità, siano comunque necessari; restava valida l’ipotesi secondo cui l’aumento della ricchezza o del benessere economico, anche se non sempre portava ad un “proporzionale” aumento di felicità, non portasse comunque ad una diminuzione. Il fatto nuovo e per certi versi paradossale che sta invece emergendo negli ultimi anni è proprio questo rapporto perverso tra aumento di ricchezza (reddito) e felicità: in certi casi avere più ricchezza ci rende più infelici.
Chi è più ricco non è dunque anche più felice, o almeno non lo è in modo duraturo.
La promessa di soddisfazione seduce solo fino a quando i desideri rimangono insoddisfatti o finché il cliente non è completamente appagato; ciò che dà impulso alla società basata sui consumi è la mancata soddisfazione dei desideri e la costante convinzione che il tentativo di soddisfarli pienamente sia fallito o almeno potrebbe dare risultati migliori; la società prospera finché riesce a rendere perpetua la non-soddisfazione dei suoi membri e dunque la loro infelicità,
denigrando e svalutando i prodotti di consumo poco dopo averli resi desiderabili oppure soddisfacendo ogni bisogno così da produrne di nuovi.
«La non soddisfazione dei desideri e un convincimento saldo e costante che ogni atto di soddisfazione dei desideri lascia molto a desiderare ed è migliorabile sono gli autentici volani dell'economia orientata ai consumi»146.
Ogni promessa però deve essere ingannevole oltreché seducente ed allettante, così da venire puntualmente disattesa e contribuire quindi al reiterarsi del comportamento consumistico del singolo individuo che si trova così a ricercare la soluzione ai dolori e alle sofferenze nei negozi e nei centri commerciali.
La frustrazione derivante dai difetti e dalle imperfezioni degli oggetti, che li rende quindi non pienamente soddisfacenti, viene subito cancellata però da altre illusorie promesse che spingono l’uomo a cercare subito altrove l’oggetto del proprio desiderio.
Per questo il consumismo è soprattutto un’economia dell’illusione che usa l’irrazionalità dei consumatori per far nascere in loro emozioni e desideri consumistici.
L’aspettativa di vita delle speranze è e deve essere breve per garantire lunga vita alla società dei consumi, nuovi desideri devono prendere il posto di quelli rottamati, «il tragitto dal negozio alla pattumiera dev’essere il più breve possibile e il passaggio dall’uno all’altra il più rapido possibile»147.
La rottamazione delle offerte di consumo lascia indietro molte aspettative deluse ed è così che deve essere affinché tale tipo di società resti in vita e funzioni correttamente.
Illusione, eccesso e spreco sono sintomi della buona salute della società consumistica che è stata capace di trasformare il dissenso in una risorsa fondamentale necessaria per riprodursi, rafforzarsi ed espandersi.
La disaffezione è il motore che tiene in vita la società.
146 Z. Bauman, L'etica in un mondo di consumatori, cit. p. 137. 147 Z. Bauman, Consumo, dunque sono, cit. p. 61.
Ciò che rende il dissenso e le tensioni create dal non verificarsi delle aspettative elementi non dannosi per la società liquida moderna è il contesto in cui tale società si sviluppa, e cioè una società sempre più individualizzata, in cui ciascuno vede le continue offerte proposte dal mercato come un mezzo per rinascere ogni volta che una promessa viene disattesa; l’eccesso di informazioni ed offerte garantisce al singolo una nuova vita e una nuova opportunità di crearsi una nuova identità.
Il singolo non si accontenta dell’io che ha, perché è fermo il convincimento che nuove potenzialità e nuovi inizi siano a portata di mano:
«In una società di gente dedita allo shopping, […] siamo felici finché non perdiamo la speranza di essere felici in futuro: […] la chiave della felicità e l’antidoto alla miseria stanno nel tenere viva la speranza di felicità»148.
Tale speranza resterà in vita grazie alla prospettiva di una catena di infinite nuove partenze.
Il consumo non conduce alla sicurezza e alla sazietà poiché è impossibile averne abbastanza, conduce invece ad un’ansia e ad una incertezza crescente.
La speranza di sfuggire a questa incertezza è il motore delle attività umane. L’individuo in questa società liquido-moderna caratterizzata dal consumismo sfrenato, usa il consumo come mezzo di distinzione sociale: la felicità dipende da quanto il proprio reddito (o consumo) si differenzia da quello di coloro con i quali ci si confronta e cioè il gruppo di appartenenza, lo status, la posizione relativa nella gerarchia sociale.
È il reddito o il consumo “relativo”, cioè la differenza tra il nostro livello e quello degli altri (a noi prossimi), non il livello assoluto, che aumenta o diminuisce la nostra felicità.
Il consumismo alimenta una forma di soddisfazione nelle persone: ma è una soddisfazione temporanea, che cessa quando anche gli altri sono arrivati allo stesso livello di consumi o sono andati oltre. O comunque quando la soddisfazione per quei consumi si scioglie nell'abitudine.
Secondo gli economisti ecco realizzarsi il paradosso di Easterlin, o paradosso della felicità: se il mio reddito aumenta ma quello del gruppo di riferimento aumenta di più, la mia felicità potrebbe diminuire a fronte di un aumento di reddito149.
L’individuo cerca di raggiungere un livello tale che gli garantisca un reddito elevato per poter acquistare quei beni, accessibili solo attraverso il denaro e ricercati per lo status che assicurano, che possano offrirgli una posizione elevata nella scala sociale.
La società promuove l’individualismo, la non dipendenza, spinge l’uomo ad una vita autoreferenziale, egoistica, incentrata sulla conquista del proprio spazio vitale lontano da coloro che hanno bisogno di essere accuditi e lontano dalla politica e da tutto ciò che prevede comunanza e socializzazione.
Si soffre una società che ha creato meccanismi di esclusione - come quelli del «Grande fratello» in cui ogni settimana dev'essere eliminato un concorrente, che ha paura ad integrare il diverso e protegge sempre meno coloro che si trovano nel bisogno. Il disagio profondo descritto ha per Bauman una causa chiara: la mancanza di punti di riferimento solidi e affidabili e di guide degne di fiducia.
L’individualismo sfrenato tipico della società dei consumi si vince aprendosi agli altri e attuando una vita di comunanza e di cura per l’altro.
Gli stessi economisti sono arrivati alla conclusione che gran parte della felicità delle persone dipenda da fattori non economici, in particolare dalla vita relazionale e affettiva, che non transita per il mercato.
L’uomo sta sacrificando parti significative della propria vita: aspetti della vita familiare, delle amicizie, della comunità, di se stesso. Queste perdite sono connesse ai benefici che ne ricava.
Siamo più poveri di tempo, spazio, relazioni, qualità di vita.
Il paradosso decisivo è dunque questo: il tipo di sviluppo economico che oggi ci permette di accedere ai “beni posizionali” è tale da distruggere i “beni liberi”,
149 Cfr. R. Easterlin, Does Economic Growth Improve the Human Lot? Some Empirical
Evidence” In: David, R. and Reder, R., Eds., Nations and Households in Economic
ovvero quelli relazionali e ambientali che gli economisti hanno scoperto essere fondamentali per la felicità dell’uomo.
Più reddito, più benessere materiale, non equivalgono a più felicità. Ci sono nuove povertà, oltre quella economica e di conseguenza il benessere potrebbe essere condizione necessaria ma non di per sé sufficiente alla felicità.
L’economista Robert Lane ad esempio, parte dalle analisi empiriche sulla felicità, e dà la sua risposta al perché un aumento di reddito possa essere accompagnato da una diminuzione di felicità. Egli, più di tutti gli autori contemporanei che trattano di felicità, lega la mancanza di felicità alla diminuzione del “consumo” di beni relazionali: «Molti, forse la maggioranza, dei piaceri della vita non hanno prezzo, non sono in vendita, e quindi non passano attraverso il mercato»150 .
Bauman, al pari di molti economisti, sostiene che la ricchezza di un Paese non misuri la felicità di quest’ultimo; citando Robert Kennedy, «il Pil misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta»151.
E continua:
«[…] la via che porta alla felicità passa per i negozi, e quanto più sono esclusivi, tanto maggiore è la felicità cui si arriva. Arrivare alla felicità significa ottenere cose che altri non hanno la possibilità di ottenere, nemmeno in prospettiva. La felicità richiede di essere sempre un gradino sopra gli altri… »152.
Ma il consumo dei beni offerti dal mercato produce una felicità effimera, temporanea, non duratura. Non è con il consumismo che si arriva dunque alla felicità tanto agognata, perché le gioie del consumo svaniscono presto lasciando dietro un’ansia durevole.
150 R. E. Lane, The loss of happiness in market democracies, Yale University Press, 2000,
p. 59.
151 R. Kennedy, discorso tenuto presso l’Università del Kansas in data 18 marzo 1968:
http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/bobby-kennedy-il-pil-misura-tutto-eccetto- quello-che-rende-la-vita-degna-di-essere-vissuta/245404/245488?ref=search
Il mercato in teoria dovrebbe aspirare a gratificare tutti i bisogni dei consumatori, ma in realtà questo porterebbe alla fine del mercato stesso; il sistema incoraggia l’idea che ci sia qualcosa che possa risolvere tutti i problemi.
Ma secondo Bauman:
«Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal destino, ci si sente persi se aumentano le comodità»153.
Bauman consiglia di riscoprire il piacere di comunicare, di accogliere un nuovo codice etico, quello fondato sulla stima e la fiducia, sull'amicizia e su relazioni corrette, su una vita sobria e solidale: «[…] i legami amicali sono [...] la nostra unica “scorta” (sociale) “nelle acque turbolente” del mondo liquido-moderno»154. E continua «Vorremmo la mano disponibile di una persona amica, affidabile, fedele […] che sia come l'isola per il naufrago o l'oasi per chi si è perso nel deserto: sono queste le mani che ci occorrono, che vorremmo attorno a noi, tanto più numerose tanto meglio…»155.
153 Si veda il Documentario La teoria svedese dell’amore di Erik Gandini, 2015. 154 Z. Bauman, L’arte della vita, cit. p. 166.