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La follia dell’agire

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 97-100)

4. Severino e l’eterno esser sé dell’essente

4.7 La follia dell’agire

Il destino è la necessità che ogni cosa sia ciò che è. È la necessità dello stesso accadere di ciò che accade. Non c’è spazio per la libertà in nessuna delle sue forme all’interno del destino, nemmeno quella libertà che conduce alla prassi.

Abbiamo visto in Studi di filosofia della prassi in quali modi la libertà non possa mai manifestarsi come evidenza sul piano fenomenologico, ma soltanto come possibilità. Ora, con Destino della necessità si dichiara esplicitamente che alla libertà non rimane nemmeno il regno del possibile, dal momento che il destino dice la necessità del Tutto e delle sue manifestazioni. Rimane da chiedersi in quest’ambito che cosa significhi l’agire dell’uomo in un contesto dove non esiste il libero arbitrio e che statuto ontologico possegga ogni

decisione, ovvero ogni scelta, una volta appurato che quella appartiene all’ordine sperimentabile98.

In quella sede si mostrava come non si possa ritenere evidente il libero arbitrio sulla base dell’evidenza del libero agire. La prassi infatti non mostra di sé alcun successo ma soltanto la volontà di decidere qualche cosa, anziché il suo contraddittorio, e di sceglierlo sulla base della persuasione di poter realizzare l’oggetto di scelta. Ma la capacità di scegliere qualche cosa che non si è scelto e, tantomeno, la capacità di realizzarlo (di raggiungere lo scopo) non sono dominio dell’apparire, per cui la libertà non è sperimentabile de facto. Con Destino della

necessità la libertà non è sperimentabile nemmeno de iure: nel destino la libertà

è un concetto contraddittorio. Lo è la libertà così come deve esserlo – di necessità – la prassi.

Nella prospettiva del nichilismo la decisione della volontà appare come forza originaria che è capace di guidare l’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente, e che include un principio irriducibile alla coscienza (nel senso che esso, come tale non è coscienza, ma potenza). Nello sguardo della verità, la decisione (e la decisione appartiene necessariamente al mortale – anche se il mortale può decidere di attribuire il decidere a un dio) appare invece nella sua identità alla convinzione. La decisione è, senza residui, convinzione.99

La volontà sa ciò che vuole, ne è persuasa. E tale persuasione viene dalla persuasione che ciò che si vuole ottenere sia ottenibile.

Il voluto della volontà è appunto il deciso. Decidere significa separare, ovvero è quell’atto isolante che divide il voluto dal Tutto. L’atto del decidere è pertanto la persuasione che ciò che si è scelto sia prima di tutto isolabile dal Tutto in cui è inserito e, così isolato, dominabile. Il mortale è l’artefice perché fonda il suo decidere sull’apertura dell’epamphoterizein, pertanto egli possiede la convinzione della manipolabilità degli enti (data appunto dalla loro natura contingente). Il mortale premetafisico è soltanto il “tentativo” di essere artefice perché ancora non si è aperta tale consapevolezza ed ogni sua decisione è costantemente accompagnata dalla possibilità che le cose non si lascino decidere

98

Che la scelta appartenga all’ordine dell’apparire è stato appurato precedentemente in questo scritto in §4.6.2 L’umana contraddizione.

99 Severino E., Destino della necessità, cit., p.387-388.

e separare. Tuttavia la stessa persuasione nichilistica conduce inevitabilmente all’abbattimento di ogni incontrovertibile, tale per cui si giunge ad un agire in cui nessuna azione è più accompagnata dalla certezza del suo compimento, ma soltanto da ipotesi controvertibili.100

Ciò che è chiaro nello sguardo della verità è che ogni agire si fonda sulla fede nelle condizioni che permettono la sua realizzazione. Ma poiché tali condizioni sono l’impossibile, quella fede è fede nell’impossibile così com’è impossibile ogni agire nichilisticamente inteso. Si può dire che «se ogni decisione è fede, viceversa ogni fede e decisione”101 nel senso che ogni fede si fonda sull’isolamento della terra – ovvero sulla persuasione che la parte sia qualche cosa anche isolata dal Tutto –, questa essendo la decisione originaria del mortale: la fede inconscia nella nientità dell’ente.

L’agire è dunque quella contraddizione determinata dalla volontà che, mossa dalla fede di aver potenza sulle cose, progetta il loro dominio. La fede dell’aver potenza sulle cose è la stessa che crede ogni ente manipolabile, isolabile dalla totalità, contingente. Questa è la fede che muove ogni tecnica.

L’uomo, inteso in quanto mortale – avvolto cioè dall’interpretazione nichilistica del mondo – agisce mosso da questa fede. Ogni suo agire è dunque follia, nel senso che riproduce la contraddizione summenzionata, per cui ciò che accade è la persuasione di poter agire in un certo modo e l’impossibilità, nello sguardo del destino, della realizzazione del suo contenuto.

L’anima del mortale (la volontà di potenza) è folle poiché crede di poter modificare la necessità del destino facendo diventar altro le cose prese di mira. Ogni cosa è eterna ed eterno è il loro apparire. Tutto ciò che sopraggiunge nel cerchio del destino è necessario che sopraggiunga nel modo in cui sopraggiunge: nessuna libera volontà di agire e nessuna effettiva capacità di azione. Non c’è spazio di manovra lasciato incustodito dal destino, nessun

100 È questo il caso corrente dell’età della tecnica e delle scienze sperimentali, le quali non trattano della verità intesa in senso forte, ma assumono per verità le proprie ipotesi in base al criterio della “funzionalità”, fino a che una nuova ipotesi non si riveli più efficace.

101 Severino E., Destino della necessità, cit., p.402.

territorio franco in cui si possa decidere di possibilità alternative. Proprio per questo non c’è spazio nemmeno per quella particolare forma di volontà che, interpretando l’impossibilità di agire come indifferenza dell’agire, decide di non agire affatto. Per chi infatti obiettasse che, poiché tutto è necessitato allora tanto vale incrociare le braccia e non fare alcunché, bisognerebbe rispondere che se ogni azione in quanto ente è un evento necessario, allora anche quell’azione mossa dalla volontà di non fare nulla, è essa stessa un evento necessario richiesto dal destino.

Soltanto il mortale è persuaso di agire – ed agire nel senso nichilistico del termine. Soltanto cioè la persuasione di essere degli “io individuali”, separati dal destino, fa si che sia concepibile un’azione così intesa. L’io del destino vede invece l’impossibilità di tale fede.

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 97-100)