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Il momento fenomenologico e la Fenomenologia

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 69-77)

4. Severino e l’eterno esser sé dell’essente

4.2 Il momento fenomenologico e la Fenomenologia

Ci si chiede allora quanto rimanga dell’impianto fenomenologico, così com’è stato sviluppato nella prima parte della nostra ricerca, nell’articolazione della struttura originaria, costituendo un momento essenziale della stessa.

Il primo rilievo che si è portati a fare già a questo punto di analisi della struttura originaria è che tutto l’impianto fenomenologico, il quale intende basarsi sull’immediatezza della notizia, e soltanto su quella, alla luce della struttura originaria, denuncia da subito il proprio carattere di parzialità. Questo perché avendo occhi soltanto per ciò che si manifesta a livello dei fenomeni, limita ogni indagine al momento fenomenologico e riconosce ad ogni significato soltanto la presenza fattuale del suo esserci, misconoscendo qualsiasi dispositivo logico-metafisico che gli permetta di introdurre il predicato della necessità all’interno del proprio discorso. Infatti, la logica è presente all’interno del metodo fenomenologico soltanto come contenuto derivato e secondario,

63Un rilievo fondamentale qui è l’identico significato che portano il “principio di identità” e il “principio di non contraddizione”. Alla luce della verità dell’essere i due sono esattamente speculari. Tant’è che risulta indifferente appellarsi all’uno o all’altro principio: entrambi dicono il medesimo, sono due formulazioni dello stesso principio. (Cfr., Severino E., La struttura originaria, pp.178-179).

perché considerato privo del carattere di immediatezza che invece possiede l’apparire dei fenomeni.

Tuttavia, Severino non intende affermare che, Husserl, il padre della fenomenologia, avesse affinato un metodo che, trascurando il concetto di verità intesa in senso incontrovertibile, si limitasse a parlare in senso ipotetico del mondo dei fenomeni. Al contrario:

Il pensiero di Edmund Husserl […] si presenta come una potente riaffermazione della filosofia come episteme, “scienza rigorosa”, fondata in modo incontrovertibile e fondamento di uno sviluppo dell’umanità regolato da “pure norme di ragione.64

Soltanto che il fondamento per la costruzione dell’ “edificio ben solido” dell’episteme Husserl lo ricerca nell’esperienza e non si porta oltre a quella. E questo atteggiamento alla luce della struttura originaria non esaurisce le condizioni di un discorso sulla verità. Ricordiamo il principio di tutti i principi:

Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà65

Ciò che si da originalmente nell’intuizione è il dato fenomenologico, il quale si mostra in quell’orizzonte indubitabile e definitivo costituito dall’esperienza vissuta. Per quanto riguarda il limite in cui si dà, anch’esso è costituito dall’orizzonte esperienziale, ovvero dalla manifestazione attuale del fenomeno che si offre. Ma questo, lungi dall’essere per il fondatore un ostacolo o un limite procedurale al metodo fenomenologico, fa della fenomenologia la nuova scienza rigorosa che deve stare a fondamento della filosofia così da descrivere e tracciare i limiti di tutto ciò che si mostra originalmente nell’intuizione, e in tal modo sfrondare il pensare filosofico da ogni concetto superfluo o costruzione teoretica arbitraria o secondaria.

64

Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo, La filosofia contemporanea, ed. Bur, Milano

2007, cit., p.265.

65 Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, p.50-51.

Analizziamo un po’ più a fondo la questione rifacendoci all’analisi condotta da Severino in Studi di filosofia della prassi66, dove vengono delineati i limiti operativi del metodo husserliano.

Innanzitutto si rileva che per Husserl l’evidenza, intesa nella sua dimensione originaria, è apodittica, cioè indubitabile. Tuttavia è “inadeguata”, perché si presenta come unità di attualità e potenzialità. In altri termini ciò che si manifesta attualmente significa qualche cosa di ulteriore, che sfugge dall’orizzonte della manifestazione, ovvero rinvia a qualche cosa di implicito, questa implicitezza essendo il significato originario di ciò che si manifesta. Tale significato è ciò che deve essere esplicitato, e l’esplicitazione è il compito della scienza perfetta – quale è il metodo fenomenologico agli occhi di Husserl – che si propone all’infinito l’integrale adeguazione all’idea-limite costituita, appunto, dal significato originario nella forma della potenzialità.

Il problema nasce, secondo Severino, nel momento in cui viene determinata come “evidenza fondamentale” quel rinvio dall’atto alla potenza, ovvero il rinvio di ciò che si manifesta attualmente, nell’orizzonte della presenza, a ciò che attualmente presente non è. Se infatti – e a riconoscerlo è lo stesso “principio di tutti i principi” – qualcosa si può affermare soltanto nella misura in cui è nell’orizzonte della presenza, come si potrà mai parlare di “evidenza” qualora ciò di cui parlo non entra in questo orizzonte?

L’esempio del cubo riportato nel testo può aiutarci a chiarificare la questione: è presente un cubo, il quale mostra di sé soltanto tre facce. Che cosa è quel principio che mi permette di affermare l’identità o l’implicazione tra quelle tre facce e il cubo? La tesi severiniana è che, lungi dall’essere un’“evidenza”, tale implicazione è «il surrettizio intervento dell’atteggiamento “mondano” nel dominio della riduzione fenomenologica trascendentale, cioè nel dominio del sapere assoluto»67. Posso affermare che quelle tre facce rappresentano un cubo, o sono una parte di un cubo in base all’esperienza

66

Severino E., Studi di filosofia della prassi, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,

Milano 1967. 67 Ivi, p.35.

passata e al concetto di somiglianza, per cui ciò che vedo mi riporta ad oggetti visti in passato.

Ma anche qualora, qualcuno volesse affermare che vi siano prove empiriche per verificare scientificamente l’appartenenza di quelle tre facce all’oggetto “cubo”, a questi risponderebbe già Hume, ma poi tutta la contemporaneità sarebbe ormai d’accordo, che ogni “oggetto”, nel senso di ogni sua qualificazione, identificazione, interpretazione, ecc., per quanto ci si ingegni nel trovare meccanismi di verificazione, rimane comunque un’ipotesi. La lista di supposizioni che accompagnano qualsiasi atteggiamento verificazionale è pressoché infinita e quantomeno inaggirabile per cui non ci si può liberare in alcun modo del carattere di ipoteticità dell’oggetto in questione.

Ne viene che se l’atteggiamento fenomenologico husserliano intende parlare di verità assolute non può però cadere nell’errore di assumere delle semplici ipotesi conferendo loro carattere apodittico, ovvero non può continuare a parlare di un potenziale implicito come se fosse un’evidenza indiscutibile. Così facendo Husserl dimostra di confondere quella che è un evidenza per l’atteggiamento mondano, cioè l’implicazione tra attuale e potenziale, con l’evidenza dell’implicazione sul piano fenomenologico.

Pertanto Husserl intende dare valore scientifico-apodittico ai risultati del metodo, ed intende farlo a partire da quel residuo indubitabile che si ottiene quando si sia spinta a fondo la critica di ogni verità assoluta, ovvero a partire da ciò che effettivamente si mostra. Solo che, con gli strumenti che si propone di usare con tale metodo, è costretto ad introdurre dei dispositivi che, esulando dall’ambito fenomenologico, non possiedono affatto il carattere di evidenza apodittica di cui un discorso abbisogna affinché pretenda di poter parlare di verità incontrovertibili.

Alla luce della struttura originaria, si rileva quindi, innanzitutto, l’indigenza strumentale del metodo fenomenologico nella sua indagine sulla realtà, poiché limitando ogni significato alla semplice attualità dei fenomeni, e pretendendo di poter parlare di ciò che è più vero – i significati concreti, originari – intendendoli come potenzialità latenti di cui è manifesto soltanto il

carattere rinviante di ciò che è loro parte (i fenomeni), è costretta ad introdurre dei dispositivi che esulano dal principio fenomenologico cui dichiara di basarsi il metodo, contravvenendo così al proprio compito di sfrondare il reale da tutte le costruzioni ipotetiche o arbitrarie in cui l’ha ingabbiata la metafisica.

Nella misura in cui viene posto alla base della propria indagine il metodo fenomenologico, tale critica colpisce anche la nuova filosofia fenomenologico- ontologica di Heidegger, cui Severino dedica un intero studio ancor prima de La

struttura originaria, rilevandone i limiti operativi. Vediamone i tratti salienti.

In questo primo scritto intitolato Heidegger e la metafisica68, quando ancora non era maturato alcun pensiero sulla struttura originaria, Severino offre una lettura del pensiero heideggeriano in chiave metafisica. La metafisica infatti, era considerata, per l’allora studente alla Cattolica di Milano, il fondamento necessario per il procedere retto della filosofia, tanto da non potersi dare filosofia vera che non fosse metafisica. Con questa convinzione Severino si accosta alle opere di Heidegger. Egli stesso annovera quest’opera tra i “peccati di gioventù”, data l’impronta analitica di stampo classico ereditata dal maestro Bontadini e la centralità dell’impianto metafisico. Le premesse metodologiche di stampo rigorosamente metafisico conducono l’indagine ad una rilettura dell’ontologia heideggeriana come tentativo ben fondato di ripensare l’essere a partire dagli esistenziali del Dasein; un tentativo che può arrogarsi il diritto di rimettere a capo del cammino metafisico – dicevamo, il solo che potesse pervenire alla verità – domanda fondamentale sull’essere, ma in nuove vesti.

Dopo La struttura originaria una tale considerazione della metafisica è totalmente impensabile. Tuttavia, di questo primo lavoro, alcuni punti sono, per lo stesso Severino, da tener fermi. Innanzitutto, il coglimento della primarietà del significato ontologico è un merito che, riconsociuto in Heidegger e la

metafisica, rende il filosofo tedesco all’oggi uno dei più grandi filosofi della

contemporaneità, con il merito di aver riportato alla luce la precarietà del senso ontologico disponibile e l’urgenza della sua riabilitazione. Non fosse che questa

68 Severino E., Heidegger e la metafisica, ed. Adelphi, Milano 1994.

grandiosa intuizione, è stata sviluppata con un’impostazione metodologica inadeguata.

Abbiamo in precedenza rilevato quale intento si proponesse Heidegger in

Essere e tempo: il disvelamento dell’autentico senso dell’essere che, considerato

il concetto «più generale e vuoto di tutti»69, nessuno si da la pena di mettere adeguatamente a tema, ma che, nonostante tutto, sottende l’intero processo storico. L’essere si da come obliato e sulla superficie del volto nascosto dell’essere è stato costruito l’intero impianto metafisico-ontologico occidentale. L’indagine si propone di demolire questa grandiosa costruzione falsante e ripartire alla scoperta dell’autentico volto dell’essere. Il “come” debba essere condotta l’indagine anche è subito esplicitato: «il metodo di trattazione di questo problema è quello fenomenologico»70. É ormai superfluo ricordare come la fenomenologia venga riconosciuta dal tedesco non soltanto come metodo filosofico privilegiato, ma come unica via percorribile per giungere all’ontologia autentica, tanto che non si dà fenomenologia se non come ontologia e non si giunge all’essere se non attraverso lo studio dell’apparire dei fenomeni.

La tesi fondamentale di Heidegger e la metafisica che ci proponiamo di tener ferma, purché liberata dalla simpatetica declinazione in senso metafisico, è che il tentativo heideggeriano, date tali premesse metodologiche – e nei limiti imposti dalle stesse – è destinato a fallire. Se infatti, il metodo da utilizzare per condurre le ricerche in ambito ontico-ontologico è quello della fenomenologia, allora queste ricerche partono da presupposti che tale metodo non è in grado di fondare.

L’analitica esistenziale inaugurata da Heidegger, interrogando quel particolare ente che è l’Esserci, si muove infatti su due livelli: quello ontico e quello ontologico, ovvero quello degli enti e quello dell’essere di tali enti. Ora, l’indagine fenomenologica, husserlianamente intesa, trova come suo naturale terreno di indagine il livello ontico, per cui indaga gli enti per quel che si danno, lasciando sullo sfondo il livello ontologico. A questo livello si pretende di poter

69 Heidegger M., Essere e tempo, cit., p.13. 70Ibidem.

pervenire appunto attraverso tale indagine. Soltanto che, rileva Severino, una tale presupposizione non è affatto fondata dal momento che il passaggio dall’interrogazione dell’ente (livello ontico) alla verità del suo essere (livello ontologico) non è qualche cosa di scontato, ne tanto meno di evidente. Per cui bisogna riconoscere che il legame necessario tra le due sfere d’indagine – quella ontica che si apre alla manifestazione e quella ontologica che invece alla manifestazione si sottrae – è un legame che un pensiero come quello di Heidegger, che vede un’implicazione certa tra fenomenologia ed ontologia, è costretto a presupporre, e che una tale presupposizione sfugga totalmente dalla giurisdizione della fenomenologia.

La fondazione ontologica degli enti richiede infatti il ricorso al procedimento inferenziale, un dispositivo che è possibile soltanto in campo logico. Che essere ed ente siano legati in modo necessario non è qualche cosa di evidente, per cui o si presuppone, ma in modo totalmente arbitrario, che esista un tale legame – ma l’arbitrarietà non è ammissibile all’interno di una filosofia che ambisca alla verità; oppure si riconosce, alle spalle del metodo fenomenologico, un ricorso ad un ambito d’indagine di ordine logico, che in un pensiero venuto prima del La struttura originaria, era riconosciuto monopolio esclusivo della filosofia metafisica.

Quando Heidegger afferma che la comprensione dell’essere è il fondamento della comprensione dell’ente – pone, cioè l’ontologia a fondamento dell’indagine ontica – intende affermare che questa è impossibile senza quella, ovvero crea una connessione necessaria tra elementi non appartenenti alla totalità dell’ordine manifesto. E tale connessione è possibile soltanto tramite un’inferenza. Ne viene che nonostante il congedo esplicito e la condanna della metafisica, questa soggiace implicitamente alla base di tutto il pensiero di Heidegger.

Per non lasciare in sospeso il confronto con l’ultimo pensatore in analisi nella prima parte, basti qui ricordare come lo stesso Sartre si avvalga del metodo fenomenologico per articolare tutta la sua descrizione esistenzialista e

presupponga quindi un’ontologia che, non appartenendo a quel metodo d’indagine, è tutt’altro che ben fondata.

La fenomenologia lasciata a sé stessa allora non conduce lontano dall’arbitrarietà qualora intenda parlare di ciò che esce dall’orizzonte della manifestazione. L’unica cosa a cui può ambire è la descrizione fattuale di ciò che si mostra fintanto che si mostra. Ma che cosa accade allora alla descrizione fenomenologica del reale una volta portata a fondo la descrizione della struttura originaria? Che senso acquista la fenomenologia una volta inscritta nella struttura originaria?

Abbiamo visto come la struttura originaria si componga di due ambiti semantici indissolubili, il logico ed il fenomenologico. Ma la testimonianza di questa interdipendenza reciproca è anche il riconoscimento di un mutamento di significato della totalità del reale. A mettere capo a questo mutamento semantico è proprio l’unione concreta tra l’immediatezza logica che impedisce all’ente di non essere e la sua immediata manifestazione fenomenologica.

Infatti, riconoscere l’impossibilità logica dell’ente di non essere significa predicarne un certo legame con l’essere. Dire che l’ente non può non essere significa affermare che l’ente “è”. Con tale affermazione si pone in relazione l’ente ed il suo esserci in modo forte. Quando si scomoda quel principio logico per cui «ciò che è non può non essere», si intende predicare la necessità che ogni ente che è, sia. Questa formula in altre parole dice che «ogni ente, poiché è, è eterno», perché affermare l’essere di qualche cosa equivale ad affermarne l’eternità, tanto che le due formule, «ogni ente è» ed «ogni ente è eterno» sono da considerarsi tautologiche.

L’immediato logico ci parla dell’eternità degli enti, di tutti gli enti. Ma a questo punto, cosa ci dice degli enti in ordine alla loro manifestazione l’immediato fenomenologico? L’affermazione della cooriginarietà e della relazione implicativa tra i due ambiti non impone forse una interna coerenza anche sotto il profilo dell’eternità dell’ente? O forse l’orizzonte manifestativo contraddice quello logico? Secondo Severino si dovrà rispondere che nello sguardo della struttura originaria il cerchio dell’apparire dei fenomeni ospita

l’eterno. L’apparire degli enti è l’apparire degli enti eterni: nessuna contraddizione.

Come si spiegano allora nello sguardo della struttura originaria il divenire, il tempo, la contingenza, l’annientamento, la morte e tutti quei fenomeni che la totalità del pensiero filosofico ha sempre inteso come evidenze indiscutibili? E tra quei fenomeni, cosa accade all’esistenza, inscritta nella temporalità, che il pensiero fenomenologico-esistenziale intende come cifra di quell’ente privilegiato che è l’uomo?

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 69-77)