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Il linguaggio del Destino

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 121-129)

4. Severino e l’eterno esser sé dell’essente

4.14 Il linguaggio del Destino

È emerso in precedenza come il linguaggio fosse una modalità della volontà di far diventar altro le cose.130 Il linguaggio è infatti la volontà che certi

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L’uomo non è mortale perché nasce e muore, bensì nasce e muore perché è mortale. L’uomo può continuare a vivere come un mortale anche se è biologicamente estinto. La vita mortale dell’uomo giunge al suo compimento solo se l’essenza mortale dell’uomo è portata al tramonto, solo cioè se la volontà di morire (l’isolamento della terra) esce definitivamente dall’eterno apparire dell’essere. (Severino E., Essenza del nichilismo, cit., §La terra e l’essenza dell’uomo).

130 Rimandiamo a §4.10 Alterità del Destino.

eventi siano segni di certi significati. E, per essere, questa volontà è anche quella fede che crede di poter isolare certi contenuti – ciò di cui parla – dal contesto in cui sono immersi. Il linguaggio è anch’esso fede nell’isolamento della terra e volontà di impadronirsi delle cose nominate, dando loro spicco.

Il linguaggio è un piedistallo: come il piedistallo di una statua dà spicco alla statua, così la parola dà spicco al nominato e lo solleva al di sopra del non nominato: ciò che non è nominato rimane in una dimensione semantica subordinata. Quindi dicendo che la terra come terreno sicuro è niente, non intendiamo che non appaia niente, ma intendiamo: appare la terra avvolta dalla persuasione isolante.131

La parola è il primo rimedio che il mortale conosce contro l’angoscia del divenire; ma daccapo, all’interno dello sguardo del destino, questo strumento riproduce la contraddizione per cui, senza avvedersene, lo strumento crede di poter portare in salvo ciò che la stessa fede che lo anima ha condannato all’annientamento. Per cui il linguaggio testimonia perlopiù l’isolamento della terra e lo fa credendolo il vero e unico riparo sicuro.

Il linguaggio però ha incominciato a testimoniare anche il destino della verità. Come si concilia tale testimonianza con il carattere di totale inadeguatezza che possiede il linguaggio come strumento della follia?

Il linguaggio che parla della terra isolata è un linguaggio che possiede come contenuto appunto l’isolamento della terra, ma che possiede come propria forma il destino della verità. Non si dà linguaggio, nemmeno quel linguaggio che parla dell’alienazione come verità, che appaia al di fuori del destino della verità. Fino ad ora però, il linguaggio ha avuto come proprio contenuto l’isolamento, nella totale inconsapevolezza del destino. Ora appare un linguaggio che presenta come proprio contenuto la consapevolezza del destino, quindi lo testimonia, lo indica. Eppure anche questo linguaggio, come ogni linguaggio che intenda testimoniare qualche cosa, è quella volontà che appartiene alla follia del divenir altro. Ogni linguaggio crede di impadronirsi delle cose. Nominare significa invocare il nominato per renderlo così

131 Severino E., L’identità del destino, ed. Rizzoli, Milano 2009, p.289.

disponibile al dominio. Questa è, per il destino, un’illusione: non si cattura l’eterno. Tuttavia, in ogni linguaggio, tale illusione prevale sul destino. Prevale anche in quel linguaggio – proprio in quanto linguaggio – che testimonia il destino stesso.

Il linguaggio inoltre crede di impadronirsi non soltanto di ciò che nominando evoca, ma anche di coloro per cui nomina e a cui si rivolge: gli interlocutori. Il linguaggio crede infatti di rivolgersi a qualcuno, ed in questo rivolgersi crede di poter modificare il modo in cui il mondo è presente negli altri. Crede cioè, di modificare i significati del mondo altrui. Non ci sarebbe comunicazione se non si credesse che ciò che si dice, il messaggio che si vuole veicolare non si mischiasse, modificando del tutto o almeno parzialmente, la configurazione delle conoscenze di colui a cui il messaggio si vuole che pervenga. È chiaro però che se l’esistenza dell’altro inteso come “coscienza altrui” rimane per il destino della verità un problema, è addirittura escluso come impossibilità il fatto che il linguaggio riesca ad impadronirsene. Eppure il linguaggio si struttura all’interno di questa fede, e non fa eccezione il linguaggio che indica il destino.

Il destino dunque, appare nel linguaggio, ma può apparirvi soltanto come volontà di potenza a sua volta, quella particolare volontà che tenta di contrastare la potente tendenza del linguaggio a testimoniare l’isolamento. Il linguaggio che testimonia il destino appare allora anch’esso come volontà di dominio, ragion per cui il destino della verità in quanto nominato dal linguaggio non può essere la verità, ma è altro da ciò che è. Eppure il linguaggio lo indica.

Ogni indicazione del destino è fuorviante se il linguaggio può parlare soltanto isolando e impadronendosi del nominato. Allora sembra essere una contraddizione qualsiasi linguaggio che si proponga di indicare il destino. Tuttavia il destino della verità nemmeno si può tacere, se ogni tacere è la volontà di sospendere il linguaggio. Questa infatti, come ogni volontà, è di nuovo la riproposizione del voler fare qualcosa – tacere – affinché la verità viva da sé o non venga alterata, ovvero è di nuovo la fede che si possa far diventar altro la terra – e in parallelo la fede che la verità sia alterabile.

Inoltre potremmo convenire con Heidegger nell’intendere il linguaggio taciuto come una diversa forma di comunicazione e di espressione interiore, dove a parlare è la voce del silenzio.132

Si apre a proposito del linguaggio quella contraddizione per cui nell’indicare il destino il linguaggio rimane all’interno della fede nichilistica in cui si crede di poter possedere e manipolare ciò di cui si parla, per poterlo consegnare, come concetto133, a colui cui si parla, così da modificare il mondo interiore dell’interlocutore stesso. In questo modo, il linguaggio che indica il destino si trova a non essere in grado di indicare il destino ed indica, quindi, qualcosa di diverso dal destino.

Tutto il discorso che ci ha condotti fino a qui ha mostrato con evidenza che nessuna volontà di potenza – e il linguaggio ne è una forma – può arrivare alla verità, perché è volontà che qualcosa (il linguaggio, le parole) siano la verità. La verità è sé stessa. Il destino della verità è sé stesso e non il linguaggio, nemmeno il linguaggio che lo testimonia. Eppure è un fatto che il linguaggio comincia ad indicare il destino, seppur nei limiti della sua follia nichilistica, in modo alterato.

Le tracce del destino si presentano nel linguaggio come volontà che qualcosa sia segno di un qualche significato. Ed in quanto appaiono, sono la volontà stessa del destino, come è volontà del destino l’impossibilità che queste tracce possano mai essere decifrate all’interno del linguaggio dell’isolamento. La decifrazione appartiene al destino e non alla terra isolata. Il tramonto della terra isolata è pertanto, il tramonto stesso della volontà di testimoniare il destino.

Il vero volto del destino non può apparire nel linguaggio. Tuttavia questo non significa affatto che il destino non sia. Piuttosto si dovrà dire che il destino è destino nonostante il suo esser testimoniato dal linguaggio; e che ogni volontà

132 Cfr. Heidegger M., Essere e tempo, cit., §56.

133 Il concetto è il “concepito”, l’“ideato”, quindi il frutto di una mente agente, di una volontà che crea.

può trovarsi a testimoniarlo soltanto perché esso è già da sempre al di fuori dell’isolamento della terra, al di là di ogni linguaggio.

Il tratto essenziale per cui il destino si presenta nel linguaggio è quello della sua incontrovertibilità, eppure nessun contenuto del linguaggio può pretendere di essere l’incontrovertibile: nessun linguaggio può sostituire il destino134. Ogni contenuto del linguaggio che indica il destino ne è traccia, e tale rimane, indecifrata, all’interno dell’isolamento in cui il linguaggio consiste. Ma poiché il destino mostra di sé, attualmente all’interno del linguaggio, la propria incontrovertibilità – l’autonegazione della sua negazione –, proprio per questo apparire dell’incontrovertibile nel linguaggio dell’isolamento, è necessario che appaia anche fuori dal linguaggio, nell’inconscio del cerchio dell’apparire, tutto ciò senza di cui quell’incontrovertibile non sarebbe tale, ovvero la totalità concreta del destino; e che vi appaia già da sempre, oltre ogni linguaggio.

Ogni linguaggio è pertanto una contraddizione già da sempre oltrepassata nell’inconscio del cerchio dell’apparire originario. “Già da sempre” significa che non è un processo quello che porta il destino all’apparire dello scioglimento delle contraddizioni. Eppure processualmente appare nel cerchio originario, appunto come oltrepassamento di contraddizioni finite. Questo oltrepassamento si manifesta nel linguaggio, come allargamento e restringimento del circolo su cui il linguaggio ha potenza (crede di aver potenza) ed in cui illumina tutto ciò che nomina. Ma per quanto si allarghi questo cerchio, ogni nominato rimane sé stesso in quanto isolato dal destino, per cui all’interno del linguaggio il destino mostrerà soltanto il volto del proprio isolamento.

In questo allargamento e restringimento del linguaggio il destino della verità si lascia testimoniare soltanto in forma astratta. Infatti, il carattere dell’incontrovertibilità del destino, in quanto testimoniato dal linguaggio, si presenta insieme al carattere di dubitabilità che pertiene al linguaggio in quanto fede. Allora il destino è dicibile in ordine alla sua incontrovertibilità soltanto in

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Nessuna filosofia del linguaggio che pretenda, coscientemente o implicitamente, di porre il linguaggio come l’orizzonte intrascendibile ultimo, non si avvede di stare ricreando l’ennesima divinità epistemica che intenda porsi come assoluta.

modo formale, astratto, per cui ogni dire sul destino ne presenta un volto alterato; nulla invece può esser detto sul destino in quanto destino della verità. Questo, di nuovo, non crea alcuna contraddizione se si ammette che non tutto è dicibile, per cui l’apparire infinito della Gioia non può entrare nell’ordine del linguaggio, se non in modo astratto. E se si ammette dunque che il destino non è il linguaggio, ma sta da sempre oltre ogni dire.

Queste dinamiche di allargamento e restringimento del cerchio in cui il linguaggio consiste dunque, anticipano il tramonto della terra isolata (la Gloria) in cui il linguaggio stesso è perciò destinato a tramontare. In questo preludio alla Gloria, il linguaggio si allarga man mano, sciogliendo di volta in volta (processualmente) le contraddizioni specifiche che incontra nel suo cammino, le quali sono tracce dello scioglimento della contraddizione universale in cui consiste il linguaggio stesso.

PASSAGGIO

Il destino di ogni linguaggio, in quanto appartenente all’isolamento della terra, è dunque quello del tramonto. Che ogni linguaggio sia destinato a tramontare significa che ogni testimonianza perde senso ed ogni forma di comunicazione – cui soggiace la volontà che esista un ascoltatore e la volontà di poterne modificare l’insieme della coscienza – mostra la follia del suo tentativo, quindi ogni dialogare appare come essenziale fraintendimento.

Certo è, che se ogni dialogo esteriore perde significato e viene messo a tacere, ma ogni tacere è di nuovo un dialogare, sembra risulti impossibile al mortale (almeno attualmente) anche soltanto farsi un’idea di che cosa significhi uscire dall’ambito della comunicazione, dato che, all’interno della fede nel divenir-altro – ne sia esemplare la descrizione fenomenologica – l’essere umano trova la cifra di sé stesso proprio nell’esser-con-altri e nel linguaggio.

Cerchiamo di capire nella terza parte che senso assume il “mostrarsi” del destino nel linguaggio e quali sono per l’uomo le implicazioni dell’“esserne a conoscenza”.

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 121-129)