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Interpretazione del dolore

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 114-118)

4. Severino e l’eterno esser sé dell’essente

4.12 Interpretazione del dolore

Torniamo a porre la nostra attenzione sul modo in cui dolore e piacere siano intesi come stati del “mio corpo” all’interno dell’alienazione dell’Occidente.

Abbiamo visto che il corpo è inteso dal mortale come strumento del proprio potere a cui soggiace quella volontà di far diventar altro le cose. Ed è inteso come primo strumento dell’io in quanto luogo eminente di manifestazione di dolore e piacere123. Ecco: questa relazione tra il corpo e la manifestazione di quegli stati in cui consistono dolore e piacere è, anch’essa interpretata alla luce della volontà che crede di far diventar altro le cose. Quindi piacere e dolore, in quanto interpretati dall’io dell’isolamento, sono in relazione a quella volontà che crede di poter disporre degli essenti a suo piacimento.

Si dovrà addirittura dire che, in tale relazione alla volontà, il piacere è lo stesso voluto ed il dolore è invece ciò che è rifiutato. E non semplicemente nel senso del progetto, come qualche cosa che si vuole ottenere o evitare in un futuro, ma per loro stessa essenza: il dolore è lo stesso rifiuto della volontà isolante, mentre il piacere è sé stesso in quanto è lo stesso volere della volontà.

122 Il passato essenziale come cifra distintiva di ogni cerchio rimanda irresistibilmente alla struttura del

Da-sein, con particolare attenzione a quel Da- che dell’esserci significa proprio la provenienza e l’esser

situato, che ne caratterizza l’“appropriatezza” di ogni suo progetto. 123

Questa interpretazione del “mio corpo” come luogo eminente di manifestazione di dolore e piacere lascia aperta, nello sguardo del destino, una possibilità molto suggestiva. Non è impossibile infatti che la relazione tra l’esperienza del dolore e l’io a cui si manifesta, si sintetizzi in una configurazione diversa da quella che ora è perlopiù intesa come “il mio corpo”, per cui si possa arrivare addirittura a credere che ci faccia male il sasso, il libro, gli altri, l’universo, compresi tutti all’interno della fede che interpreta “il mio corpo”. Questa argomentazione, ci pare, possa aprire apre la strada ad un dibattito sul post- umano e le possibilità tecnologiche e robotiche che la tecnica apre.

Ogni progetto, ogni agire si strutturano successivamente su questa concezione del dolore e del piacere declinati in senso elitico, verso ciò che si cerca perché scelto dalla volontà o ciò che si rifugge perché rifiutato. Ogni tecnica – di cui quella odierna è la massima espressione – si struttura su questa sintesi tra volontà e pathémata, ovvero sulla fede di poter disporre degli essenti per poter incrementare i luoghi e l’intensità del piacere, in quanto voluto, e diminuire luoghi ed intensità del dolore.

Sennonché la relazione tra la volontà ed il piacere ed il dolore, porta la coerenza del discorso severiniano alla constatazione di una contraddizione. La volontà, infatti, in quanto fede isolante che crede di poter far diventar altro le cose, è contraddizione. Essa è l’impossibile. Come espressione della stessa volontà, il piacere è la corrispondenza tra la volontà e ciò che è voluto; viceversa il dolore. La volontà appartiene alla loro essenza. Ogni cosa voluta o rifiutata è inscritta all’interno della fede dell’io isolato di ottenere qualche cosa, in funzione di uno scopo. Ma proprio questo è l’impossibile, e il rifiuto del dolore e la ricerca del piacere sono azioni volitive possibili soltanto all’interno di quella fede che è certa di poter far cessare il dolore (farlo non esser più). Solo che quella volontà non è orientata al futuro, ma è la certezza di essere principio di ciò che fa non essere il dolore nel momento presente.

Ma la volontà rifiuta il dolore presente, ossia è certa di poter far sì che esso non sia o non sia stato, proprio in quanto, d’altra parte, il mortale è certo

dell’esistenza del dolore presente. La ribellione della volontà al dolore è

“cieca”, perché rifiuta qualcosa la cui esistenza, peraltro, è per essa indubitabile. Appunto per questo essa non è “azione razionale” [..]. è un rifiuto impotente – e che appare impotente a sé stesso –, perché rifiuta ciò che gli sta dinanzi, evidente. Appunto per questo il dolore è

contraddizione.124

E la contraddizione cresce al crescere dell’intensità con cui la fede è certa dell’esistenza del dolore. Quando questo si manifesta insopportabilmente, cresce al pari la ribellione della volontà che lo nega disperatamente.125

124

Severino E, La Gloria, cit., p.338.

125 La relazione essenziale tra volontà e piacere non vacilla nemmeno di fronte a situazioni limite in cui si dice di volere il dolore o di rifiutare il piacere. Si pensi ad esempio a tutti gli atti di eroismo o di

Vada aggiunto a questa dissertazione sul dolore che tutti gli altri stati d’animo ed ogni altra complessità che abbia a che fare con la sfera “passionale” del mortale non sfugge a ciò che si è detto su piacere e dolore. Infatti tonalità emotive come l’angoscia, la serenità, la disperazione, la malinconia, l’entusiasmo non sono altro da piacere e dolore perché sembrano non rientrare nell’ambito corporeo in cui questi sono localizzati. Piuttosto sono anch’essi forme di questi anche se sono più difficilmente localizzabili, perché appaiono perlopiù diffuse su tutto ciò che circonda l’individuo immerso in un certo stato d’animo. Ogni cosa appare cupa quando si è tristi, mentre tutto è più lucente quando si è in un momento di felicità.

Stati d’animo e stati del corpo, dunque, non differiscono nel loro essere in relazione alla volontà che interpreta certe esperienze come degne di esser volute o rifiutate. Lo stoico, ad esempio, che ritiene di poter giungere ad uno stato di assenza di turbamenti fisici ed emotivi, non abolisce la propria sensibilità fisica ed emotiva, ma lavora sulla complessità delle convinzioni da cui disagio e benessere del corpo sono avvolti nella loro relazione reciproca.

Inoltre, la loro differenza di ordine fisico o mentale in realtà è apparente nel senso che al fondo rimane quella comune appartenenza all’“esser mio” di ciò che si manifesta, per cui che si tratti di un dolore localizzabile nel corpo fisico (Körper) o da intendersi in senso soltanto emotivo, non localizzabile, in entrambi i casi si ha comunque a che fare con un’esperienza vissuta (Leib). Allora si deve intendere con “corpo” quella complessità semantica che si articola in questi due distinti modi di essere che però hanno come centro l’esser

sacrificio: qui il dolore è voluto nel senso che lo si vuol patire, e questo perché la volontà crede, così facendo, di raggiungere uno scopo. Per cui, il voluto in questo caso è lo scopo che la volontà si prefigge ed il patimento è una situazione intermedia necessaria al suo raggiungimento. In questa prospettiva allora, quello che in una “normale” situazione è ritenuto degno di rifiuto, è invece accettato in quanto foriero del piacere prefissato – l’ottenimento dello scopo. Allora ciò che si vuole non è il dolore, ma il piacere ultimo che, si crede, debba passare attraverso una situazione di patimento. Infatti un’ esperienza voluta non è la stessa esperienza in quanto non voluta, per cui, in una stessa situazione, posso rifuggire o cercare qualche cosa anche a seconda della sua manifestazione nell’ordine del piacevole o dello sgradevole. Se il mortale può desiderare in modo anomalo è perché in quel caso la sofferenza si presenta come piacere, e viceversa. Si pensi, ad esempio, a molte patologie di ordine medico-psicologico quali l’anoressia o ad attitudini sessuali come il sadomasochismo.

“proprio”. In questo senso il limite della psicopatologia potrebbe essere rinvenuto nell’incapacità di rilevare, al fondo di ogni alienazione che caratterizza chi vive come estranee o nulle certe esperienze emotive – si pensi ad esempio alla malinconia – una “propria” forma di sofferenza derivante appunto dal fatto di percepire l’estraneità di ciò che dovrebbero essere le proprie tonalità emotive. Ciò che non accade mai e mai può accadere, in nessuna anomalia psichica, e l’assoluta estraneità del corpo, da intendersi appunto come appropriatezza.126

È opportuno, in ordine ai propositi di questa ricerca, fermarci ancora un attimo nell’analisi degli stati emotivi del mortale nella loro relazione alla volontà interpretante: in particolare su angoscia e malinconia.

Si è visto come dolore e piacere, come ogni altro stato d’animo , appartengano al corpo come centro esperienziale del mortale, e come ogni complessità emotiva sia inscrivibile di fatto nell’interpretazione che vuole l’uomo ed il suo corpo come mortali. All’interno della fede nell’esser mortale del mortale ricade ogni emozione con tutte le sfumature interpretative che si porta appresso, così come ogni dolore e piacere, i quali dato il loro carattere imprevedibile ed il loro impatto immediato, vengono ritenuti un che di semplice rispetto alla complessità semantica delle tonalità affettive. Dolore e piacere invece, rimangono all’interno dell’interpretazione dell’esser mortale del mortale nonostante la loro semplicità illusoria, perché proprio all’interno di tale fede si può temere il ritorno del dolore. Per cui soltanto all’interno di tale fede si soffre il ritorno dell’imprevedibilità del dolore, e la si soffre caricando di tale imprevedibilità certe esperienze del passato e proiettandola nel futuro come radice di tutti i mali: la possibilità più propria dell’esserci, la morte.

L’imprevedibilità del dolore si lega al sentimento di angoscia. Questa è appunto la colorazione emotiva dell’imminenza del male in una forma ignota. È la sensazione della possibilità dell’annullamento, il timore dell’irruzione del negativo. Ebbene, possiamo congetturare che, in uno sguardo come quello

126 Cfr. in merito a quanto detto Galimberti U., Psichiatria e fenomenologia, cit.

contemporaneo, che interpreta il divenire del mondo in modo sempre più consapevolmente nichilistico, considerando il divenire come annientamento e la morte come ineluttabilità, al crescere di questa fede sia cresciuta parallelamente la percezione dell’angoscia come imminente possibilità della fine. Ed inoltre che la malinconia (o depressione) sia divenuto l’atteggiamento preminente del mortale trovatosi costretto a rassegnare la propria esistenza alla nullità e alla vuotezza di significato, incapace di orientarsi in un futuro dove morte ed insensatezza minacciano qualsiasi tentativo di progettarsi.

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 114-118)