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Il “dialogo” del Destino

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 131-134)

5. L’esistenza del Destino

5.2 Il “dialogo” del Destino

L’errore in cui consiste il mortale è necessario, è il destino a volerlo. Il destino mostra la propria necessità, e lo fa attraverso il linguaggio. Esso mostra l’inevitabilità del superamento di ogni contraddizione, quindi l’inevitabilità dell’avvento della Gloria e di quel luogo in cui ogni contraddizione è già da sempre risolta: la Gioia. Esso dunque “mostra” all’errore (il mortale) il proprio essere errore, in quanto alienazione dal destino. E gli “mostra” la necessità del suo superamento.

Il mortale è l’apparire della forma alienata del destino. Il destino si mostra in ogni suo apparire, anche in quell’apparire all’interno dell’interpretazione alienata. All’interno di tale interpretazione il destino non può che apparire in quella forma alienata in cui consiste il linguaggio. Nell’apparire in forma linguistica il destino asseconda le regole della sintassi linguistica impartite dalla volontà che crede di poter impadronirsi delle cose. Esso quindi mostra il suo volto soltanto alterandolo (adeguandolo) in base alle regole della linguistica.

All’interno dell’interpretazione linguistica rientra, insieme alla fede in una volontà che dice, anche la fede nell’esistenza di un interlocutore a cui, la volontà che dice, vuol far giungere il messaggio. In questo senso, nei limiti in cui il destino si lascia dire dal linguaggio (questo essendo il senso del “mostrarsi” del destino), esso asseconda tutti i criteri interpretativi della forma linguistica. In quanto si lascia inscrivere in questi criteri, è possibile affermare un senso in cui il destino si apre al “dialogo”. All’interno di quell’interpretazione in cui consiste il linguaggio, all’ascolto del destino c’è il mortale.

Ma, dice il destino, il mortale si illude tanto di esser mortale, quanto di essere all’ascolto del destino. Si ammetta che all’ascolto del destino ci sia il mortale. Il mortale ascolta il linguaggio che testimonia il destino. Il messaggio che giunge al mortale in forma linguistica dice l’impossibilità del suo esser mortale (l’eternità di ogni ente). Mostra al mortale come l’esser mortale sia

frutto di quella fede nichilistica, stando alla quale l’essere è identico al nulla, per cui mostra al mortale come egli sia un’interpretazione folle di sé stesso, un infinito depotenziamento della sua vera essenza – nello sguardo del destino l’uomo è infinitamente di più di ogni uomo e ogni Dio. Mostra però anche come anche lo stesso linguaggio sia frutto dell’interpretazione nichilistica e, di conseguenza, come ogni dialogare sia impossibile. Nel “dialogo” col mortale, il destino mostra come ogni dialogo sia il frutto di un’interpretazione e pertanto di un errore. Messo in questi termini si produce la contraddizione per cui si presuppone ciò che si nega (elenchos). A meno che, lo si affermava precedentemente, non si riconosca che il destino non è il linguaggio, ma è già da sempre oltre ogni linguaggio.

Dunque, anche ammettendo che il destino dialoghi col mortale dice l’errore in cui consiste l’interpretazione dell’esser mortale del mortale. E dice anche la necessità di quell’errore, così come è necessario il suo oltrepassamento. Questo significa che non impartisce ordini né mostra rimedi di guarigione da quell’errore in cui consiste il mortale. Non mostra la diritta via a chi la smarrita, né punisce gli errabondi, dacché ogni vivere è un errare. Per questo Severino può sostenere che

Certo i miei scritti non si rivolgono più all’“uomo”, non gli prescrivono un compito, non gli assegnano una meta, non gli dicono che cosa debba fare, non gli suggeriscono una norma di vita o un ideale, non sono uno strumento teorico per guidare e illuminare la prassi: il proponimento di far tutto questo è legato alla volontà di separare la terra dal destino e di farne l’oggetto del dominio135.

Il destino non amministra il futuro del mortale nel senso che il tenore della sua “comunicazione”, sottostà ai dettami della linguistica (la quale prevede un interlocutore che modifichi i propri atteggiamenti in conseguenza ad un discorso) soltanto in quanto si lascia “capire” da colui che si crede mortale. Il mortale può sapere ora del destino soltanto se il destino si veste, anch’esso, da errore. In un seminario tra le pagine de L’identità del destino, alla domanda che

135 Severino E., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, ed. Armando, Roma 1981.

chiede se il prender atto della follia del divenir altro fosse un atto, Severino risponde che no, «non è un gesto. É un qualche cosa che appare, ma non come gesto. Come gesto è il linguaggio»136. Ciò significa che il sapere del destino (il prenderne coscienza) è l’apparire della necessità del destino. Soltanto il suo apparire all’interno di quell’interpretazione in cui consiste il linguaggio lo rende un atto, quell’atto particolare in cui consiste il prendere coscienza. Questo atto, di nuovo, presupporrebbe un attore (il mortale) che si lasci influenzare dall’ingresso, nel suo ordine di idee, del destino. Ma questo, agli occhi del destino, è la follia.

In un convegno in onore di Severino, Tarca prende le mosse dal sottotitolo proposto, Dialogo con Emanuele Severino, per riflettere proprio sulla possibilità di “dialogare” con il Severino individuo e con la verità del destino.137

Quello che il professore rileva è una “strana dualità” all’interno del contesto dialogico, che porta a dover riconoscere due significati ben diversi nella parola “dialogo”: il primo possiede un senso più proprio, usuale, per il quale dialogare significa scambiarsi opinioni, cercare un accordo «attraverso una specie di contrattazione, nella quale ciascuno dei due deve essere disposto a rinunciare almeno in parte alla propria posizione».138 Tuttavia una simile concezione del dialogo funziona soltanto tra due individui all’interno del linguaggio, ma non attecchisce alla verità. Infatti «[...]se dialogare equivale a

discutere, allora è quanto meno legittimo chiedersi che senso abbia dialogare

laddove si abbia a che fare con l’indiscutibile»139

Sembra dunque che sia il carattere stesso della verità a rendere impossibile il dialogo, poiché ogni dialogare in quanto discutere è già un allontanarsi dalla indiscutibile verità. Certo è che nel discutere filosoficamente della verità, attraverso il linguaggio che la testimonia – avvenga questo dialogo

136 Severino E., L’identità del destino, cit., p.162.

137 Tarca L.V., «Te lo do io il dialogo…», in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere, dialogo con

Emanuele Severino, ed. Morcelliana, Brescia 2014.

138 Ivi, p.247. 139 Ibidem.

con l’individuo Severino o chiunque altro, poco conta – si è “costretti” a discuterla questa verità, ad indicarla. Ma la verità è indicata come l’indiscutibile.

Allora ne viene che nel discutere la verità si discute più propriamente «intorno a quale sia il linguaggio più adatto a testimoniare al meglio la

indiscutibile verità»140. Per cui si può riconoscere un senso in cui la verità si lascia “discutere”, e quel senso lo si ritrova solo in quanto la verità è immersa nel linguaggio ed in tutte le strutture interpretative di cui il linguaggio si fa carico.

Il destino dunque non dialoga con il mortale se dialogare significa “venire a patti”. La verità non concede nulla, essa è da sempre ciò che deve essere. Tuttavia, nel qui ed ora, vi è un senso per cui si può dire che il destino dialoga col mortale. Il mortale sa del destino, attraverso il linguaggio che lo testimonia, per cui sa da quel linguaggio di essere un errore, cioè “appare” il senso per cui egli è un errore. Certo, appare in quel suo venire a conoscenza dell’essere un errore da parte del mortale, anche l’impossibilità che quell’apparire sia un “prendere coscienza” nel senso suddetto. Tuttavia ogni apparire appare attualmente all’interno del linguaggio. Quindi, in quanto ogni apparire, anche quello della verità del destino, prende spazio all’interno dell’interpretazione in cui consiste il linguaggio, ci pare di poter affermare che, in qualche modo, l’errore sa di sé perché entra in “dialogo” col destino.

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 131-134)