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La morte, il dolore della volontà, l’impotenza

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 118-121)

4. Severino e l’eterno esser sé dell’essente

4.13 La morte, il dolore della volontà, l’impotenza

Tuttavia, nello sguardo del destino, questa tendenza non ha le sue radici in una errata concezione della morte. Certamente il modo in cui essa viene intesa orienta il modo di vivere dell’uomo e ne influenza le sue colorazioni affettive. Si può supporre che pensare una vita eterna post-mortem possa consolare il mortale e orientarlo eticamente verso la conquista del paradiso. Oppure che la negazione assoluta di ogni al di là gli permetta di meglio godersi la breve vita che ha a disposizione; o viceversa, l’incombenza sempre presente della signora morte gli paralizzi ogni progettualità e gli impedisca di vivere.

Tutte queste interpretazioni però non fanno i conti col fatto che ogni vivere è un errare, e che ogni progettualità è la volontà di far diventar altro le cose. Nello sguardo del destino tutto questo è la follia. E la follia è l’impossibile. Proprio perché il mortale considera sé stesso mortale ha già firmato la sua condanna a morte. Proprio perché si crede che le cose vadano nel nulla questo sono già da sempre destinate, all’interno di tale interpretazione, al nulla.

Quello che il destino ci dice in proposito, è che la relazione tra la volontà isolante e l’angoscia è un dato di fatto. Ma non esclude che tale relazione acquisti una configurazione diversa all’interno della stessa fede isolante, così che piacere e dolore acquistino un significato nuovo all’interno della fede nel mortale. Così come afferma con necessità che la volontà non potrà mai ottenere ciò che vuole. Ogni cosa lei intenda ottenere si illude semplicemente di

ottenerla. Essa crede di ottenerla ma anche nel compiacersi dell’ottenimento, proprio in quanto fede, è accompagnata dalla frustrazione del dubbio.

La volontà vuole e ottiene solo in quanto crede di poter isolare il voluto. Ma questo è proprio ciò che non può accadere, per cui la volontà non ottiene nulla di ciò che vuole. Tuttavia può illudersi di averlo ottenuto perché quell’ente isolato che comincia ad apparire e che il mortale crede di aver pro-vocato ha un contenuto comune con quanto si era prefissato di ottenere. Ma l’apparire di qualche cosa in concomitanza con quell’ente che è la volontà di ottenerlo non mostra il successo di tale volontà, ma soltanto una concomitanza. E l’impossibilità affermata dal destino di far diventar altro le cose conferma che in quella concomitanza non può apparire nulla “in quanto scopo” della volontà provocante. Che il mortale possa illudersi di ottenere qualcosa perché quel qualcosa ha un contenuto in comune con ciò che appare, non può mai significare che egli ha effettivamente ottenuto quel qualcosa “in quanto scopo” (come un “ottenuto”, e non come semplice apparire), perché in tal caso ciò che è comune tra il voluto e ciò che appare non ha nulla a che vedere con ciò che concerne l’isolamento della volontà. L’oggetto isolato dalla volontà infatti è tanto poco oggetto del suo volere – quindi tanto poco può appagarla –, quanto chi, volendo mangiarsi un buon piatto di bucatini all’amatriciana si ritrovasse tra le mani una merendina preconfezionata, accontentandosi del tratto comune per cui sono entrambi commestibili.127

La volontà è dunque il rifiuto di tutto ciò da cui è raggiunta ed in questo senso non può mai trovare appagamento. E poiché il non appagamento è il dolore, dovremmo allora affermare che nella volontà stessa risiede la forma trascendentale del dolore.

Quello che abbiamo ribadito appena sopra, seguendo l’argomentazione severiniana, è la follia della volontà di aver potenza sulle cose. La volontà non può nulla, è impotente di fronte al destino. Pertanto nessun rimedio all’interno

127 L’esempio riportato nel testo concerne la differenza tra il lupo e l’agnello, i quali posseggono come tratto comune il fatto di essere entrambi quadrupedi. (Severino E., La Gloria, cit., p.372).

della volontà interpretante può portare fuori dalla contraddizione in cui la stessa volontà consiste. Di nuovo quindi, non c’è nulla che si possa volere o decidere affinché le cose cambino o si aggiustino, perché ogni decisione è l’illusione del suo ottenimento. Soltanto il destino, in quanto sta incontrovertibilmente è il senso essenziale a cui ambisce la volontà. Soltanto il destino può autenticamente volere ed ottenere poiché ha già da sempre ottenuto. Non si da volontà che possa porre fine al dolore, quindi tantomeno può darsi tecnica, in quanto braccio armato della volontà, che possa rimediare al male della terra isolata. Tuttavia il linguaggio del destino parla della necessità della Gloria, questa essendo il tramonto dell’isolamento della terra, ovvero il tramonto della contraddizione in cui consiste il dolore. All’ascolto di tale linguaggio il cerchio finito del destino non è volontà che nega il dolore, in quanto necessaria impotenza di tale negazione, ma l’attesa del suo tramonto.

Ma che il destino sia in attesa del tramonto della contraddizione e che la negazione della contraddizione sia impotente è necessario, appartiene alla necessità del destino, cioè appartiene alla volontà del destino. [..] L’apparire della necessità è la stessa volontà del destino. Il destino vuole la necessità. Il cerchio finito del destino vuole dunque il proprio essere un’attesa e una negazione impotente; e vuole che la terra si dispieghi nella Gloria. L’attesa in cui consiste il destino pertanto non è la condizione in cui il mortale non ottiene ancora ciò che egli vuole all’interno dell’isolamento della terra e che a volte crede di ottenere. Nel destino, l’impotenza della negazione della contraddizione non è cioè l’incapacità di ottenere ciò che il mortale, nell’isolamento, crede di poter ottenere. Intese in questo senso, né l’attesa né l’impotenza appartengono al destino.128

Queste righe ci permettono un confronto diretto tra la concezione dell’Ohnmacht heideggeriana e quella severiniana. La prima presenta dei tratti molto simili a quella appena tematizzata. Tuttavia, non parlando la stessa lingua del destino ignora l’eternità degli essenti e rimane inscritta in quel contesto nichilistico in cui la volontà di potenza la fa da protagonista. Nel suo sentirsi libera è essa, in quanto espressione del mortale, a desiderare la liberazione dal dolore, anche se la desidera nel senso dell’accettazione dell’avvento di ciò che ha da venire. Che cosa debba avvenire però, il linguaggio della Geschick heideggeriana non può sapere, perché rimane aperto al regno della possibilità.

128Ivi, p.394-395.

Nel linguaggio del destino invece, è chiusa ogni porta all’incertezza del possibile su cui si muove la volontà del mortale ed appare invece la necessità del tramonto di ogni isolamento e quindi di ogni dolore: appare la necessità della Gloria. In questo contesto dunque, ogni accettazione non è ad opera del mortale, la quale si presenterebbe come ennesimo espediente di quella volontà che, non potendo ottenere, dice al destino «sia fatta la tua volontà». Ma, a prescindere dall’ordinamento etico che intenda orientare la volontà del mortale, è la stessa necessità del destino a volere da sé ciò che deve essere.

L’impotenza di fronte alla Geschick è anche l’impotenza di fronte a quella possibilità che è la pura impossibilità dell’Esserci. La morte è infatti, tra gli eventi la maestà dell’imminenza, il senso stesso della possibilità, in quanto ogni possibile porta con sé la precarietà del suo essere e del suo permanere: la possibilità della sua impossibilità, appunto. In questo scenario l’esistenza autentica è intesa come essere-per-la-morte, che significa la liberazione da ogni tendenza a considerare ogni progetto come definitivo, per cui ogni evento è la morte dell’evento passato ed il passato di ogni evento futuro. Inscritta in un discorso che intende la morte come annientamento, questa viene circondata di un’aurea di dolore e angoscia che invece non le può appartenere all’interno dello sguardo del destino. Se continua ad appartenergli è soltanto perché, all’interno dell’isolamento della terra, il destino ha notizia della propria eternità soltanto attraverso il linguaggio, il quale non sfugge a tale isolamento.129

Nel documento il destino dell'uomo (pagine 118-121)