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La scena tragica antica non è certo avara quanto a rappresentazioni di immagini di follia, anzi si può affermare che tale argomento è stato oggetto di una riflessione collettiva nel teatro attico,

414 Su cui imprescindibile è Diliberto 1984.

415 XII tab. V,7a Si furiosus escit, adgnatum gentiliumque in eo pecuniaque eius potestas esto. Tale disposizione

decemvirale è tramandata anche in due passi della retorica romana, cf. Cic. inv. 2,50,140 e Rhet. Her. 1,13,23.

416 Sull’assegnazione del curator al furiosus cf. Nardi 1983, 91-116.

417 Dig. 27,10,7 pr. Consilio et opera curatoris tueri debet non solum patrimonium, sed et corpus ac salus furiosi. 418 Dig. 27,10,1 pr. Lege duodecim tabularum prodigo interdicitur bonorum suorum administratio, quod moribus

quidem ab initio introductum est. Sed solent hodie praetores vel praesides, si talem hominem invenerint, qui neque tempus neque finem expensarum habet, sed bona sua dilacerando et dissipando profudit, curatorem ei dare exemplo furiosi: et tamdiu erunt ambo in curatione, quamdiu vel furiosus sanitatem vel ille sanos mores receperit: quod si evenerit, ipso iure desinunt esse in potestate curatorum.

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poiché essa costituisce il motore dell’azione in un ampio numero di tragedie e si lega indissolubilmente al problema della sofferenza umana. Si tratta, come si è anticipato, della follia intesa come intrusione del soprannaturale nella sfera dell'umano: quel tipo di attacco subitaneo e violento che rende possibile sottolineare in modo immediato la vulnerabilità e l'impotenza umana.

Poiché lo scopo del nostro lavoro è proprio evidenziare come la rappresentazione della follia in declamazione sia in larga parte debitrice dalla tragedia, non sarà inutile mettere a fuoco, con una breve rassegna, gli episodi di follia propri della scena tragica.

Maria Grazia Ciani, in un contributo sul lessico della follia nella tragedia greca, sostiene che, sebbene nelle opere di Eschilo non manchino episodi di follia, questo tema non divenga mai centrale, rimanendo piuttosto ai margini di altri problemi419. Uno di questi casi è la breve scena

della follia di Oreste presente nel finale delle Coefore: Oreste ne riconosce la causa (le cagne della madre, v. 1054) e, di fronte alle allucinazioni che lo colpiscono e al suo turbamento (ταραγμός, v. 1056), desidera scappare come un auriga che si dirige fuori dalla pista420.

La metafora ippica, osserva Ciani421, ricorre quattro volte in Eschilo, di cui due in relazione alla follia: oltre al caso di Oreste, infatti, è usata per Io nel Prometeo, in cui l’episodio della pazzia è più esteso e, perciò, viene considerato il primo vero esempio di rappresentazione della follia nella tragedia attica. È la stessa Io a descrivere le manifestazioni del proprio malessere: è scossa da movimenti incontrollati422, sente che il suo corpo si deforma423 e, soprattutto, subisce terribili stravolgimenti psicofisici: ἐλελεῦ ἐλελεῦ, ὑπό μ᾽ αὖ σφάκελος καὶ φρενοπληγεῖς μανίαι θάλπουσ᾽, οἴστρου δ᾽ ἄρδις χρίει μ᾽ ἄπυρος· κραδία δὲ φόβῳ φρένα λακτίζει. τροχοδινεῖται δ᾽ ὄμμαθ᾽ ἑλίγδην, ἔξω δὲ δρόμου φέρομαι λύσσης πνεύματι μάργῳ, γλώσσης ἀκρατής· 885θολεροὶ δὲ λόγοι παίουσ᾽ εἰκῆ 419 Ciani 1974, 70. 420 Aesch. Ch. 1022-1023. 421 Ciani 1974, 71. 422 Aesch. Pr. 599-600; 675; 837. 423 Aesch. Pr. 673; 882.

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στυγνῆς πρὸς κύμασιν ἄτης.424

.

La follia di Io, scatenata da Era e dal tafano che la dea ha inviato per tormentarla, crea un turbamento profondo, le toglie la vista e la parola: di conseguenza, il personaggio non può far altro che uscire di scena.

Come è noto, il primo dramma interamente dedicato alla follia è l’Aiace sofocleo: in esso «il tema è centrale, affrontato nella sua totalità: le cause, gli effetti, le reazioni estreme, il giudizio morale; la descrizione inoltre non è più unicamente soggettiva, ma è affidata anche a coloro che sono insieme spettatori e partecipi del dramma, Atena, Ulisse, il coro, Tecmessa»425. La scena della follia (vv. 91-117) è426, secondo il parere di Medda, «fra le più dolorose e terribili di tutto il dramma greco»: Atena, con grande crudeltà, espone Aiace allo sguardo del suo rivale Odisseo, contro il quale l’eroe inveisce, convinto che si trovi legato dentro la sua tenda e inconsapevole, invece, di averlo accanto. Sofocle non è interessato al lato patologico della pazzia: si limita infatti a precisare che questa condizione è causata dall’ira427 e si manifesta attraverso un riso sfrenato428, l'unico segnale del disagio psichico, oltre all'azione violenta (la strage di bestiame) a cui dà luogo. La follia di Aiace comporta, nel momento del ritorno in sé, un dolore insopportabile che conduce il protagonista al suicidio429: l’attacco di pazzia lo ha

completamente e irreparabilmente allontanato dai compagni d’armi, dal nucleo sociale di appartenenza. Proprio la consapevolezza, infatti, è all'origine della sofferenza430, tema, questo,

che diventerà poi un topos presente in molti generi letterari, tra cui non manca la declamazione:

ἐν τῷ φρονεῖν γὰρ μηδὲν ἥδιστος βίος431

Se Sofocle usa il tema della follia come causa ultima della separazione dell’eroe dalla società e fonte, quindi, di dolore estremo, Euripide rappresenta la follia secondo diverse sfaccettature e angolazioni, dedicandole ben più di una tragedia.

Nell’Ippolito, infatti, la follia di Fedra nasce dalla passione per il figliastro Ippolito e viene esasperata dal tentativo di reprimerla: in questo caso è la malattia d'amore – un amore 424 Aesch. Pr. 877-886. 425 Ciani 1974, 79-80. 426 Medda 1997, 14. 427 Soph. Aj. 40-41. 428 Soph. Aj. 303.

429 Ciani 1974, 83: «in Sofocle la follia è un punto di partenza, un dato di fatto già scontato, in previsione del

successivo dramma umano, la solitudine dell’eroe, la sua fine».

430 Soph. Aj. 271-276. 431 Soph. Aj. 554.

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‘sbagliato’ e impossibile da vivere432 – a sconfinare nella follia. Anche Ippolito dimostra un

certo grado di follia nella sua ostinata negazione dell’amore in tutte le sue forme e folle è il linguaggio in cui si esprimono i protagonisti, allusivo ma incomprensibile per gli altri:

ὦ παῖ, τί θροεῖς;

οὐ μὴ παρ᾽ ὄχλῳ τάδε γηρύσῃ μανίας ἔποχον ῥίπτουσα λόγον;433

Così la nutrice si rivolge a Fedra, avvertendola che le sue parole sono pericolose perché folli e, nel prosieguo del discorso di rivelazione, prodotte dall’invasamento di un dio:

τάδε μαντείας ἄξια πολλῆς, ὅστις σε θεῶν ἀνασειράζει καὶ παρακόπτει φρένας, ὦ παῖ434

.

Cedere all’eros, nel caso di Fedra, significherebbe cedere all’eccesso, a quanto condannato dalla società, a una vera e propria malattia:

σὺ δ᾽ οὐκ ἀνάγκην προσφέρεις, πειρωμένη νόσον πυθέσθαι τῆσδε καὶ πλάνον φρενῶν·435

È però nell’Eracle che Euripide affronta il tema della follia come fenomeno patologico: l’eroe delle dodici fatiche arriva a Tebe, dove la sua famiglia subisce le vessazioni di Lico; dopo aver eliminato l’antagonista, la dea Era, matrigna da sempre ostile a Eracle, decide di farlo impazzire e manda, come esecutrice dell’ordine, la riluttante Lyssa, personificazione della follia. La scena della follia di Eracle è divisa in due momenti, narrati rispettivamente da Lyssa e da un messaggero: si tratta, prima, delle avvisaglie dell’attacco e, poi, dell’esplosione della crisi.

ἢν ἰδού: καὶ δὴ τινάσσει κρᾶτα βαλβίδων ἄπο καὶ διαστρόφους ἑλίσσει σῖγα γοργωποὺς κόρας.

432 Basti pensare alla famosa ode della gelosia di Saffo (fr. 31 V), che descrive le manifestazioni patologiche

dell’amore con una sintomatologia molto simile a quella che viene attribuita ai folli.

433 Eur. Hipp. 212-214. 434 Eur. Hipp. 236-238. 435 Eur. Hipp. 282-283.

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ἀμπνοὰς δ᾽ οὐ σωφρονίζει, ταῦρος ὣς ἐς ἐμβολὴν

† δεινός: μυκᾶται † δὲ Κῆρας ἀνακαλῶν τὰς Ταρτάρου436.

I sintomi sono descritti da Lyssa con grande precisione tecnica: la testa che si scuote, gli occhi che roteano, il respiro affannato, le urla animalesche. Il messaggero arricchisce il quadro di altri elementi, preceduti da un silenzio tombale che prelude alla catastrofe:

… Ἀλκμήνης τόκος ἔστη σιωπῇ. καὶ χρονίζοντος πατρὸς παῖδες προσέσχον ὄμμ᾽· ὁ δ᾽ οὐκέθ᾽ αὑτὸς ἦν, ἀλλ᾽ ἐν στροφαῖσιν ὀμμάτων ἐφθαρμένος ῥίζας τ᾽ ἐν ὄσσοις αἱματῶπας ἐκβαλὼν ἀφρὸν κατέσταζ᾽ εὐτρίχου γενειάδος. ἔλεξε δ᾽ ἅμα γέλωτι παραπεπληγμένῳ437 .

Il culmine della follia è indicato soprattutto dagli occhi iniettati di sangue, dalla schiuma alla bocca e dal riso, già presente nella descrizione della pazzia di Aiace. Euripide, qui, riproduce con rigore scientifico le fasi della crisi di pazzia furiosa, attingendo, nel lessico, agli scritti medici a lui contemporanei e, allo stesso tempo, creando una situazione in cui la pazzia deriva da una possessione divina. Con clinica verosimiglianza, il risveglio di Eracle (provvidenzialmente fermata, nel corso della sua azione folle, da Atena) è accompagnato da stordimento e straniamento; tuttavia, il ritorno alla realtà è veloce e doloroso: il padre Anfitrione verifica che il figlio sia di nuovo in grado di intendere e di volere prima di liberarlo dai ceppi con cui lo aveva, in via precauzionale, legato. La reazione di Eracle è immediata: vuole il suicidio; sarà l’amico Teseo, nel finale, a convincerlo ad accettare quanto accaduto e a scegliere la vita, vista come nuova ed estrema prova a cui sottoporsi. Come nel caso di Aiace, la follia «introduce una forte discontinuità nel personaggio: l’eroe che ha difeso l’umanità contro i mostri ed ha appena salvato la propria famiglia, d’improvviso, e senza una ragione che non sia l’astio personale di un dio, stermina i propri cari credendo di uccidere i familiari di Euristeo. […] Al ritorno delle facoltà mentali corrisponde un crollo psicologico che fa di Eracle un uomo

436 Eur. HF 867-870.

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spezzato dalla sofferenza e privo di capacità decisionale per il futuro, che solo la vicinanza dell’amico Teseo riesce a distogliere da pensieri suicidi»438.

Un altro personaggio che combatte contro gli attacchi di follia è Oreste, tormentato dalle Erinni di Clitemestra in seguito al matricidio. Nell’Ifigenia tra i Tauri Euripide si serve degli stessi mezzi linguistici già usati nell’Eracle per descrivere, attraverso gli occhi di un bovaro, l’attacco di pazzia che coinvolge Oreste appena approdato sulla spiaggia dei Tauri, con l’aggiunta del particolare del tremito delle membra:

κἀν τῷδε πέτραν ἅτερος λιπὼν ξένοιν ἔστη κάρα τε διετίναξ᾽ ἄνω κάτω κἀπεστέναξεν ὠλένας τρέμων ἄκρας, μανίαις ἀλαίνων, καὶ βοᾷ κυναγὸς ὥς·439 πίπτει δὲ μανίας πίτυλον ὁ ξένος μεθείς, στάζων ἀφρῷ γένειον· ὡς δ᾽ ἐσείδομεν·440

Secondo Ciani, «la pazzia di Oreste nell’Ifigenia in Tauride è un fatto episodico, una reminiscenza storicamente necessaria, imprescindibile, che viene sfruttata soprattutto sul piano del realismo patologico e descrittivo»441, e non è utilizzata, quindi, come fulcro della narrazione tragica come invece accade nell’Oreste. In quest’opera, infatti, l’attacco di follia è per la prima volta descritto in tutta la sua durata e portato direttamente sulla scena442; inoltre, il motivo della pazzia è soltanto una delle componenti che concorrono alla strutturazione di un personaggio innovativo e problematico443: Euripide, con Oreste, indaga la condizione di sofferenza in cui si alternano stati di follia e stati di coscienza dolorosa del matricidio perpetrato che sfiniscono il protagonista, portandolo allo stremo delle forze. Mentre la condizione di pazzia di Aiace e di Eracle è momentanea, quella di Oreste è caratterizzata da crisi ricorrenti intervallate da fasi di coscienza e rari momenti di sonno444; Euripide indugia sulla descrizione dello stato di

438 Medda 2001, 9-10.

439 Eur. IT 281-284. 440 Eur. IT 307-308. 441 Ciani 1974, 95.

442 Cf. Medda 2001, 5: «La memorabile scena in cui Oreste è vittima di un accesso di pazzia e si dibatte tra le

braccia della sorella, terrorizzato dall’apparizione delle Erinni, è l’unico caso a noi noto in cui un autore tragico rappresenta compiutamente in scena il sopraggiungere di una crisi di follia, il suo apice e il successivo, penoso riaffiorare della coscienza. Le allucinazioni, i movimenti convulsi, l’aspetto devastato di Oreste sono descritti con tratti di grande realismo, che richiamano la sintomatologia di una vera e propria malattia mentale».

443 Medda 2001, 7.

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deperimento fisico di Oreste con un interesse che è in sintonia con i contemporanei studi medici di Ippocrate e della sua scuola445. Elettra, all’inizio del dramma, rende conto dello stato di malato del fratello: non mangia, non si lava446, piange nei momenti di lucidità, a volte salta, di corsa, via dal letto in cui giace, tormentato da un male oscuro e selvaggio447. Lo stesso Oreste rende conto del proprio malessere:

λαβοῦ λαβοῦ δῆτ᾽, ἐκ δ᾽ ὄμορξον ἀθλίου στόματος ἀφρώδη πέλανον ὀμμάτων τ᾽ ἐμῶν448 . κλῖνόν μ᾽ ἐς εὐνὴν αὖθις· ὅταν ἀνῇ νόσος μανίας, ἄναρθρός εἰμι κἀσθενῶ μέλη449 . αὖθίς μ᾽ ἐς ὀρθὸν στῆσον, ἀνακύκλει δέμας· δυσάρεστον οἱ νοσοῦντες ἀπορίας ὕπο450 .

Stravolgimento dello sguardo, amnesia, schiuma alla bocca, difficoltà di respirazione451 e di movimento: i sintomi sono, all’incirca, gli stessi presentati da Eracle. Durante il delirio, Oreste ha delle allucinazioni in cui compare ossessivamente la madre, insieme alle Erinni: non esiste sollievo, coscienza e follia si alternano in un continuum di dolore e angoscia. Quando Menelao chiede al nipote il motivo di tale stato di disperazione, Oreste risponde che la consapevolezza del delitto lo sta consumando:

ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν᾽ εἰργασμένος452

.

Consapevolezza che si aggiunge al dolore453 e agli attacchi di follia454: Euripide, con l’Oreste, mette in scena «una nuova e più profonda dimensione cosciente della sofferenza, che rende problematico il rapportarsi di Oreste con se stesso e con chi gli sta intorno»455; la follia, il dolore,

445 Si vedano, e.g., Ferrini 1978, Garzya 1992, Craik 2001.

446 Cf. anche Eur. Or. 225-226 l’accenno ai capelli sporchi di Oreste. 447 Eur. Or. 34-45. 448 Eur. Or. 219-220. 449 Eur. Or. 227-228. 450 Eur. Or. 231-232. 451 Eur. Or. 277. 452 Eur. Or. 396. 453 Eur. Or. 398. 454 Eur. Or. 400. 455 Medda 2001, 19.

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l’empietà investono la totalità della sua esistenza, «privandolo di qualsiasi via di fuga e facendo passare in secondo piano la ricerca dei tradizionali mezzi rituali di purificazione»456.

Impossibile non citare le Baccanti, tragedia incentrata su un tipo di follia che deriva dalla possessione divina; tuttavia, secondo Ciani, anche Penteo presenta una dimensione folle nella sua hybris di negazione della divinità di Dioniso457. Il sacrificio di Penteo a opera delle baccanti è una vera e propria scena di follia violenta e irrazionale, in cui un’Agave furens si presenta con la schiuma alla bocca e gli occhi stravolti458 e, in seguito, riprende coscienza di sé in un modo che ricorda quello di Eracle. Il padre Cadmo le preannuncia una sofferenza tremenda derivante dalla consapevolezza dell’azione commessa: in quello che è ormai diventato un topos tragico, Cadmo sostiene che, per non provare dolore459, l’incoscienza del proprio male è preferibile e auspicabile.

Il teatro di Seneca non si sottrae a una rappresentazione della follia che molto deve ai predecessori greci, ma anche a riflessioni filosofiche su ira e furor; tutti i protagonisti dei suoi drammi sono soggetti a passioni devastanti che nascono da una razionalità sconfitta. Il furor in cui sconfinano i sentimenti e le emozioni dei personaggi in scena si oppone alla bona mens, all’equilibrio stoico, all’autocontrollo e alla misura di sé460. La cieca follia che si impadronisce

dei personaggi comporta conseguenze terribili e nefaste: il desiderio di vendetta di Medea, Atreo e Clitemestra, la gelosia di Deianira, l’amore sfrenato di Fedra, per citare i casi più eclatanti, conducono alla morte nipoti, figli, figliastri e mariti in un tripudio di irrazionalità e squilibrio. Si pone così l'antica questione della tensione tra l'opera tragica di Seneca, con la sua esposizione violenta di comportamenti deviati, e l'opera filosofica, che si propone come guida verso l'equilibrio e la sapientia; la soluzione tradizionale del problema, per cui i 'casi' di squilibrio della mens rappresentati nelle tragedie sarebbero in realtà intesi a mostrare, didatticamente, gli effetti negativi della mancanza di autocontrollo, non è del tutto pacificante e deve comunque fare i conti con le esigenze poste dal genere letterario; opportune, in proposito le considerazione di Amoroso, che, in un contributo su Seneca e la semiotica della follia nelle tragedie, nota: «la tematica della follia […] si inquadra per Seneca in una problematica di estetica dello spettacolo e […] Seneca operò sulla sua convenzionalità semiotica, non da

456 Medda 2001, 20.

457 Ciani 1974, 100.

458 Eur. Ba. 1122-1123; 1166. 459 Eur. Ba. 1259-1262.

460 Sull’opposizione tra furor e bona mens si veda Giancotti 1953; fondamentale anche Schiesaro 2003, che, con

molto equilibrio, ricorre alle categoria della psicoanalisi per caratterizzare il comportamento patologico dei personaggi senecani; nel caso di Medea (208-214), per esempio, si tratta di un processo regressivo che conduce alla negazione della maternità fino ad approdare all’assassinio dei figli.

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filosofo e da retore, ma da autore e uomo di teatro. […] Seneca, scrittore di teatro, fu conscio di questi parametri della comunicazione per la rappresentazione dei suoi personaggi in preda a

ira e furor, momenti di una tematica filosofica per lui basilare, ma, vero e proprio uomo di

palcoscenico, non si preoccupò solo di predisporre un testo letterario, dai contenuti pur profondi sia dal punto di vista filosofico che pedagogico che politico, ma procedette a una riflessione squisitamente teatrologica»461.

E così possiamo definire folle Fedra462, soverchiata da un’insana passione per il suo figliastro Ippolito; un chiaro segnale di instabilità mentale è il rifiuto delle proprie vesti abituali, come lamenta la nutrice:

reclinis ipsa sedis auratae toro

solitos amictus mente non sana abnuit463

La mens di Fedra non è più sana464: l’abbandono delle vesti è, nella convenzione teatrale, una manifestazione esteriore della follia, perché il folle può allontanare se stesso ed essere altro da sé465. Questo atteggiamento è il culmine della dettagliata descrizione che la nutrice effettua dello stato della padrona, alterata dalle insanae flammae della follia466; la sintomatologia è quella topica: il volto non può celare il turbamento, gli occhi sono fiammeggianti, le palpebre rifuggono la luce, il corpo barcollante è scosso da movimenti convulsi; la notte trascorre insonne e agitata, i capelli vengono acconciati e poi subito sciolti; la donna si alza e poi si stende di nuovo; l’umore è variabile, ma prevale l’insofferenza, accompagnata da pallore, inappetenza e pianto.

I sintomi appena elencati sono simili a quelli che il coro dell’Agamemnon evidenzia nel delirio di Cassandra, invasata dalla divinità: pallore del viso, fremito del corpo, capelli che si rizzano, respiro affannato, versi inarticolati, occhi rovesciati all’indietro467. Il furor della sacerdotessa

di Apollo è paragonato a quello delle baccanti e, subito dopo, cominciano le visioni profetiche presaghe di morte e distruzione, alla fine delle quali Cassandra, stremata, cade a terra.

461 Amoroso 1983, 124 s. Sul teatro di Seneca, la bibliografia è amplissima: per il rapporto tra tragedia e retorica

ricordiamo i contributi di Canter 1925; Boyle 1983 e 1997; Lanza 1981; Petrone 1984; Bonelli 1978 e 1980; Gazich 2000.

462 Sulla follia della Fedra senecana, anche in senso medico, si rimanda a Maggiulli 2013. 463 Sen. Phaedr. 385-386.

464 Così anche in Sen. Phaedr. 268-269 si tam protervus incubat menti furor, contemne famam. La nutrice fin da

subito definisce furor la passione che agita Fedra.

465 Amoroso 1983, 118. 466 Sen. Phaedr. 360-383. 467 Sen. Ag. 710-719.

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Allo stesso modo la nutrice descrive lo stato delirante di Medea (vultum furoris cerno468): la maga appare come una menade con il volto in fiamme, il respiro affannoso, il riso che segue il pianto, i gemiti, l’angoscia e i lamenti continui469. Exundat furor: la folle passione che agita

Medea è incontenibile.

Incontenibile è anche la reazione di Edipo di fronte alla scoperta della verità che lo vede, al tempo stesso, parricida e incestuoso: si tratta di un vero accesso di furor che sconvolge la mente, descritto con dovizia di particolari dal messaggero. Edipo entra nella reggia come una furia e i segni dell’attacco di pazzia sono, come sempre, quelli canonici:

vultus furore torvus atque oculi truces, gemitus et altum murmur, et gelidus volat sudor per artus, spumat et voluit minas ac mersus alte magnus exundat dolor470.

Dopo un’allocuzione rivolta a se stesso in cui riflette sul proprio destino, Edipo scoppia in lacrime e, di nuovo, sul suo volto si possono leggere i segnali di un ritorno della follia, che provoca poi l’accecamento:

… Dixit atque ira furit:

ardent minaces igne truculento genae oculique uix se sedibus retinent suis;

uiolentus audax uultus, iratus ferox iamiam eruentis; gemuit et dirum fremens

manus in ora torsit471.

Il teatro senecano, oltre a mostrare alcune scene di follia, tematizza il concetto, dedicando drammi interi alla rappresentazione del furor e delle sue conseguenze. Un caso è quello del

Thyestes: in questa tragedia non sono presenti descrizioni minuziose della sintomatologia

dell’accesso di pazzia, ma il furor, inteso come folle desiderio di potere, è il vero protagonista dell’azione, perché muove tutti i personaggi del dramma, a partire da Tantalo. Il primo atto, infatti, è costituito da un dialogo tra l’Ombra di Tantalo e la Furia, personificazione della

468 Sen. Med. 396.

469 Sen. Med. 380-392. 470 Sen. Oed. 921-924. 471 Sen. Oed. 957-962.

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terribile passione che anima tutta la stirpe dei tantalidi; la conversazione, di fatto, si svolge tra Tantalo e il suo doppio, e si configura, quindi, come uno scontro tra furor e un’apparenza di

bona mens472. Il male si propaga da un discendente all’altro e come è accecato dal furor Atreo,

così lo è Tieste: i due fratelli sono uguali, come osserva Atreo, perché se Tieste fosse stato nella condizione di farlo, avrebbe commesso la stessa empietà473. E alla follia non ci si può opporre: Atreo aderisce con la sua lucida voluntas al dettame di Tantalo e della Furia; per citare l’analisi di Nenci, «il dolor uccide l’io dell’eroe (o dell’eroina), che risponde, di necessità, patologicamente con la follia. La follia o furor che consegue ad un siffatto dolor provoca non solo lo scatenamento e la liberazione dell’energia necessaria all’azione, ma, soprattutto, l’alienazione da sé, che porta il personaggio, di fuori, esterno ormai a sé, in un’altra dimensione, che è quella della follia lucida e rigorosa, nella quale egli elabora i suoi meditati e razionali piani di vendetta»474.

Il dramma del furor per eccellenza, però, è l’Hercules furens, che Seneca compone sulla base del modello euripideo dell’Eracle. Nel prologo, Giunone chiama a sé le Furie perché