• Non ci sono risultati.

4. Immagini di noverca nelle Minores

4.2 Tamquam noverca: il paradigma di Medea

quis non videt artes novercales et pactum infelicis senis?109

Chiunque voglia osservare con attenzione gli avvenimenti, dunque, non potrà non accorgersi che all’origine di tutto c’è il freddo calcolo della noverca, che con le sue arti ha sapientemente plagiato il marito e lo ha convinto a liberarsi del figlio. In cosa consistano le artes novercales non è ben precisato: altrove110 si parla di veleni, di seduzione, di trame complesse contro vari membri della famiglia; qui la questione non viene approfondita, perché non è questo il punto forte dell’argomentazione, ma solo un elemento ulteriore da tenere in considerazione nel perorare la causa della madre ripudiata. La Minor 338, in sintesi, pur non mettendo la noverca e le sue arti al centro della questione, dimostra come il personaggio fosse caratterizzato in maniera stereotipata: basta solo il suo nome (tamquam noverca) per portare all’attenzione dell’ascoltatore i tratti di ostilità e odio, oltre che il sospetto di azioni concrete volte a ostacolare in modo netto il percorso di vita del privignus per trarne un personale tornaconto. Tale tenacia nel portare avanti il piano di rovina del figliastro permette di veder apparire in controluce, dietro la rappresentazione generica della matrigna dei retori, l’immagine di Giunone, la matrigna per eccellenza del panorama mitologico antico.

4.2 Tamquam noverca: il paradigma di Medea

Se Giunone è la matrigna per eccellenza, quella a cui si pensa non appena viene evocato il nome stesso di noverca, esiste, nella cultura latina, un'altra figura di matrigna crudele che incarna in sé anche i caratteri della maga pericolosa e avvelenatrice: si tratta di Medea. Ora, pensando alla sua vicenda, pare curioso accostare Medea a una matrigna: sono infatti i figli di Medea che, con il matrimonio di Giasone, si trovano a dover accettare la presenza di una noverca nella loro vita. Tuttavia, una lettura attenta dei testi che trattano questo argomento conduce nella direzione della raffigurazione di Medea come matrigna111.

Un caso evidente è la sesta lettera delle Heroides ovidiane, rivolta a Giasone da Ipsipile: la donna giustifica il suo rifiuto di inviare a Giasone come ambasciatori i loro figli gemelli con la paura per Medea, che è, qui in senso proprio, una matrigna delle più crudeli.

109 338,28.

110 Cf. 327,3.

34

Sed temuit coeptas saeva noverca vias. Medeam timui: plus est Medea noverca; Medeae faciunt ad scelus omne manus112.

Medea non soltanto è una matrigna crudele, ma è una matrigna potenziata, capace di commettere qualsiasi delitto pur di realizzare i propri piani113. Seneca, nella tragedia omonima,

presenta Medea come matrigna dei propri figli: quando, infatti, la donna prende in considerazione l'ipotesi dell'infanticidio, tormentata da continue indecisioni e ripensamenti, arriva alla risoluzione definitiva soltanto quando riesce ad alienare i figli da sé, nel tentativo di rendere più tollerabile l'azione delittuosa114. Poiché Giasone e Creusa non hanno figli insieme, Medea non può far altro che trasporre il ruolo di madre dei propri figli sulla rivale: tutto quello che è di Giasone lo ha partorito Creusa. In tal modo, Medea smette i panni di madre e indossa quelli di matrigna assassina, alienando cioè i figli da sé e assimilandosi alla figura della noverca, per cui l'assassinio dei figli del marito è totalmente accettabile. Concettosamente, dunque, una madre può, in terribili circostanze, trasformarsi in matrigna e procedere ad azioni delittuose e contrarie all'ordine naturale delle cose. Alla luce di queste considerazioni, noverca diventa un appellativo funzionale a caratterizzare negativamente, in termini iperbolici e paradossali, la madre snaturata: la polarità mater/noverca ricorre già in Cicerone115, ma diventa assai frequente in ambito declamatorio, dove l'accostamento dei termini antitetici fa da fulcro a numerose

sententiae di grande effetto116.

Anche alcuni luoghi della declamazione condividono con Seneca tragico tale descrizione di una madre/matrigna che cela, dietro di sé, il paradigma di Medea. Nella nostra analisi, partiremo da un gruppo omogeneo di testi retorici molto simili tra loro sia nel thema che nello sviluppo dell'argomentazione: il gruppo è particolarmente significativo perché a esso appartengono testi delle tre raccolte di Seneca (9,6), di Calpurnio (12) e delle Minores (381), su cui ci concentreremo con particolare attenzione. Questo il thema della 381, intitolata Noverca torta

filiam consciam dicens:

112 Ov. epist. 6,126-128.

113 Sulla figura di Medea matrigna in questo passo ovidiano, cf. anche Landolfi 2004, 265-267.

114 Sul tentativo di Medea di riportarsi a un tempo precedente la maternità, per poterla così rifiutare, cf. Schiesaro

2003, 208-214; così anche Hine 2000, 203 ad 934-935 e Boyle 2014, 359 ad 924.

115 Cf. Cic. orat. 107 noverca filii e Cluent. 199.

116 Cf. e.g. Sen. contr. 9,6,17 tolle matris nomen; post damnationem noverca est.; Ps. Quint. decl. mai. 6,2 (p.

35

Venefica torqueatur donec conscios indicet. Quidam filio superduxit novercam et ex ea117 [aliam] filiam suscepit. Amisso filio ambiguis signis uxorem ream fecit. Confessa illa in tormentis communem filiam consciam dixit. Adest filiae pater.

La situazione di partenza è quella tipica in cui un uomo, rimasto vedovo e con un figlio, si risposa e ha una seconda figlia dal nuovo matrimonio. Quando il figlio muore con segni ambigui sul corpo, il padre accusa la moglie di averlo avvelenato e quest'ultima, sotto tortura, accusa di complicità nell'omicidio la figlia. Lo status è coniecturalis: il padre assume la difesa della figlia, tentando di dimostrare che non ha preso parte al delitto.

I temi della declamazione sono la tortura e la crudeltà della mater noverca: i segni trovati sul cadavere, infatti, sembrano quelli tipici di un avvelenamento e, ovviamente, è la matrigna la prima indiziata. Il marito spera in una confessione sotto tortura, ma quel che ottiene è invece un'accusa alla figlia. Un’icastica rappresentazione letteraria di una mater noverca che si comporta anche da venefica, d’altra parte, è il ritratto di Sassia all’interno della Pro Cluentio ciceroniana, in cui molto si insiste sui suoi tratti di crudeltà, sulla sua totale mancanza di scrupoli, sulle sue azioni che hanno come conseguenza terribili sofferenze per i figli. Sassia, che ha sovvertito non solo i legami naturali tra membri di una stessa famiglia, ma anche i nomi stessi che definiscono tali vincoli118, è di certo un modello imprescindibile per le immagini di

mater noverca che compaiono nella declamazione latina119, come nel caso della 381.

La Minor è composta di una breve declamatio pronunciata dal padre, seguita da un sermo ancora più breve che sintetizza un intervento della madre (uno spunto per una sermocinatio da inserire nel discorso del padre?); l'ultimo paragrafo continua la declamatio del padre con l'indicazione di quello che, secondo lui, è stato il movente del misfatto.

Il padre cerca di difendere la figlia usando gli argomenti della giovane età e dell'affetto di sorella:

Non peccant hi anni, ne in novercis quidem. Parvulae serpentes non nocent, ferae etiam mansuescunt120.

117 Rispetto alla lezione illa di A, preferiamo ea di β, cf. infra, 366 ad loc.

118 Cic. Cluent. 199 atque enim nomina necessitudinum, non solum naturae iura mutavit, uxor generi, noverca

filii, filiae paelex; eo iam denique adducta est uti sibi praeter formam nihil ad similitudinem hominis reservarit: il

sovvertimento dell’ordine naturale delle cose è tale che Sassia si disumanizza.

119 Sull’influenza di Cicerone nella declamazione per il modello femminile di avvelenatrice nella Pro Cluentio cf.

Pasetti 2015, 171.

36

Tali affermazioni risultano molto interessanti nell'ottica dello studio delle caratteristiche della

noverca: non è il temperamento naturale che rende crudele la matrigna, ma il suo acquisirne lo

statuto. Proprio come del caso di Creusa e Ione, una donna, anche se di buoni sentimenti, non può far altro che diventare una persona tremenda non appena assume le vesti di matrigna, indipendentemente dalla propria indole. Insomma, matrigne si diventa, non si nasce. Il paragone tratto dal mondo naturale spiega ancor meglio il concetto: anche i piccoli dei serpenti, creature tra le più pericolose, sono innocui; e così, anche i piccoli della matrigna, come la figlia accusata della nostra declamazione, non possono nuocere quando, appunto, si trovano in tenera età121. Altro messaggio sotteso è che la matrigna sia peggiore di una bestia e, quindi, la sua crudeltà sia inaudita e pericolosissima122.

L’ulteriore punto della difesa della ragazza è costituito dalla sua inesperienza in un frangente, come quello dell’avvelenamento, che richiede invece grandi abilità: come avrebbe allora potuto essere davvero complice di un atto di tal fatta?

Quod autem adiutorium in puella esse potuit? Emit venenum? An confecit, ut fratri daret? Quid? Ipsa privigno non potuit dare?123

Il caso atteso è quello in cui la matrigna, direttamente, somministra il veleno al figliastro, mentre è poco credibile che lo abbia fatto la sorella. Poco prima, infatti, il padre aveva affermato che la ragazza, da brava sorella, aveva pianto e si era disperata di fronte alla morte del fratello124, ma anche questo argomento, in mano a un retore, può prestarsi a una reinterpretazione secondo il paradigma di Medea: in Seneca Triario usa il color di Medea assassina del fratello Absirto per dimostrare la tesi della colpevolezza della giovane donna125. Nella 381, però, non ci si

spinge a tanto, e l’unica a essere dipinta come Medea è la matrigna. Il sermo, per quanto ellittico, ci fa comprendere che la figlia temeva molto la madre:

Hic verbis matris appellantis filiam, illius expavescentis timorem126.

121 Interessante è notare che in Sen. contr. 9,6,9 si argomenta l'esatto contrario: quarundam ferarum catuli cum

rabie nascuntur; venena statim radicibus pestifera sunt.

122 Il paragone con il mondo animale è tipico della declamazione: Ermogene (id. 2,4,17 p. 51 P) raccomanda il

confronto con gli ἂλογα ζῷα; cf. anche Winterbottom 1984, 341.

123 381,2.

124 381,1 Persona virgo est, causa soror. Quam valde a fratre dilecta est, quemadmodum mortuum flevit! 125 Sen. contr. 9,6,9 con Winterbottom 1974, 336 n.1.

37

Probabilmente si tratta di un’indicazione per una sermocinatio volta a illustrare una scena in cui la madre condiziona psicologicamente la figlia, terrorizzandola. Il timor deriva dalla malvagità della madre, al cui volere risulta difficile opporsi127. È però nel finale che, ancora più chiaramente, emerge il paradigma di Medea: nelle parole del pater, l’accusa alla figlia è stato un modo, per la moglie, per tormentarlo e torturarlo emotivamente.

Cur ergo dixit consciam? Ut me orbaret. Nihil dulcius est ultione laesae. Et prorsus non frustra hoc cogitavit: certe si non aliud, iudicio patrem torquet128.

Lo scopo deliberato dell’accusa di complicità alla figlia, dunque, è stato quello di ferire il marito, così come Medea arriva all’infanticidio per colpire Giasone e vendicarsi di lui. Il desiderio di ultio, infatti, è un tratto caratteristico del personaggio di Medea e di tutte le donne offese, che sanno diventare molto pericolose129. In questo caso, tale bruciante desiderio è capace di cancellare l’amore materno e di trasformare una madre in matrigna. Ciò è reso esplicito da Mentone, nella controversia senecana, il quale, con un’affermazione a dir poco concettosa, ritiene la figlia più sfortunata del fratello defunto: lui ha avuto una matrigna del tutto corrispondente alle aspettative, mentre lei ha subìto il ben più triste destino di una matrigna coincidente con la propria madre.

Non misereris huius? Miserior est quam frater: ille habuit sine dubio novercam, <haec matrem noverca peiorem>.130

Sulla stessa falsariga anche Vozieno Montano:

At illa dum novercae meminit matris oblita est131.

Tale opinione, infatti, nella Minor 381 è soltanto accennata, mentre in Seneca viene resa esplicita in più di un’occasione, come appunto si è potuto notare132; anche nell’escerto di

127 Cf. Sen. contr. 9,6,9 matrem quid expavisti, puella? […] quid extimuisti tamquam noverca? 128 381,4.

129 Cf. Ov. met. 384-385, epist. 5,4 e 10,98. 130 Sen. contr. 9,6,6.

131 Sen. contr. 9,6,3.

132 Cf. anche Sen. contr. 9,6,1 filiae quoque noverca; 9,6,6 habui filium tam bonum ut illum amare posset etiam

noverca, nisi in eam incidisset quae posset etiam filiam odisse; 9,6,7 at ego putabam unius novercam; 9,6,12 tolle matris nomen: post damnationem noverca est.

38

Calpurnio la donna è definita noverca di entrambi i giovani e solo dal thema si ha l’informazione che la ragazza è sua figlia naturale133. Inoltre, la crudeltà della protagonista

emerge anche dalla sua capacità di ribaltare la propria condizione, perché, da torturata, diventa torturatrice del proprio oppressore e concretizza il desiderio di rivalsa nell’odiosa accusa rivolta alla figlia. In tal modo, priva il marito non soltanto del primo figlio, ma anche della figlia, su cui getta un’ombra inquietante, e distrugge il nucleo familiare.

Non è, però, questa l’unica madre-matrigna delle Minores. Un’altra Medea retorica si cela dietro il personaggio della madre nella Minor 319, Adultera venefica, di cui riportiamo il thema:

Qui uxorem adulterii ream detulerat dixit communem filium testem fore. Inter moras iudicii adulescens ambiguis signis cruditatis et veneni decessit. Vult maritus agere cum uxore veneficii. Illa postulat ut praeferatur iudicium adulterii.

Il figlio di un’adultera, designato per essere testimone a favore del padre nel processo di adulterio, muore in circostanze ambigue, riportando sul corpo i soliti segni di indigestione o avvelenamento. Perciò, il padre accusa la moglie di veneficium, ma lei protesta e chiede che si svolga prima la causa adulterio. Anche in questo caso, l’idea è che la donna, per eliminare un testimone scomodo, che pure è suo figlio, arrivi al punto di comportarsi non come madre, ma come matrigna avvelenatrice. Il discorso del marito affronta la questione di quale processo debba essere istruito per primo e rivolge alla moglie parole molto pesanti, definendola un

prodigium134; egli si sente anche in colpa per aver indicato il figlio come testimone e averne, quindi, involontariamente, causato la morte. La sermocinatio finale dipinge un’immagine dell’accusata davvero tremenda: in maniera molto cinica, la donna pensa a come potrebbe scampare alla condanna e, se tutto dovesse volgere al peggio, si rallegra almeno di essere sopravvissuta al testimone (suo figlio!)135. Anche se non si insiste molto, nel corso della declamatio, sull’identificazione di madre e matrigna, è chiaro che il color nella mente del retore

sia questo; e la vicinanza al paradigma di Medea è costituita anche dalle abilità di venefica dell’accusata. Il caso più comune in declamazione resta, però, quello di una matrigna che avvelena non tanto i propri figli, quanto i figliastri.

133 Calp. decl. 12 (p. 12,11 H.) noverca filios nostros aut insimulatione persequitur aut veneno. Su questo escerto

e la trasformazione della madre in matrigna cf. anche Casamento 2015, 100-104.

134 319,4 vivit interim in civitatem, inter nos est femina inter prodigia numeranda.

135 319,9 ‘quaeretur de adulterio et quaeretur diu, et †extrahet iudicium, sicut adhuc extrahit†, ut sequatur

adulterii poenam alia subscriptio, alii iudices et alia sortitionis fortuna. Interim ut nihil artes valeant, multum Fata possunt: multum citra scelus quoque impedimenti per se ipsa mortalitas adfert. Ut nihil prosit, vixero tamen, et, quod mihi vita ipsa iucundius est, tamdiu superstes testi vixero’.

39

Emblematica è, a questo proposito, la Minor 246, Soporatus fortis privignus, in cui una noverca dà da bere al figliastro, eroe di guerra, una pozione che lo addormenta fino alla fine di un conflitto appena scoppiato, motivo per cui, una volta sveglio, deve subire un processo per diserzione.

Qui fortiter fecerat, bello imminente, soporem ab noverca subiectum bibit. Causam dixit tamquam desertor. Absolutus accusat novercam veneficii.

La noverca si configura qui come venefica e, d’altra parte, il tema del veleno è molto frequente nella declamazione latina136; si tratta di dimostrare, per l’accusa, che il sonnifero somministrato fosse un vero e proprio veleno e, quindi, il problema di fondo è la finitio del sopor. Il fenomeno dell’avvelenamento doveva essere tutt’altro che raro nella società del tempo, la riflessione giuridica specifica, che vede il suo culmine nella Lex Cornelia de sicariis et veneficis137, non manca di evidenziare. A livello letterario, i modelli di questo testo sono molteplici: innanzitutto, l’orazione In novercam di Antifonte, che costituisce l’antecedente per una serie di temi di declamazioni greche in cui una matrigna e una concubina si accusano a vicenda dell’avvelenamento di un vir fortis138; in campo latino, un caso giudiziario corrispondente si

riscontra in Seneca, nel De beneficiis139, ma già Cicerone aveva presentato orazioni incentrate sul tema dell’avvelenamento, la Pro Cluentio, cioè, e la Pro Caelio. Quel che, però, è interessante ai nostri fini è il tipico accostamento tra il veleno e la matrigna: ovviamente, il fatto che a dare al vir fortis il sonnifero sia stata la noverca non depone a suo favore, anzi aggrava di molto la sua posizione. Il problema risiede nella definizione di ‘veleno’ e dei suoi effetti: il giovane, infatti, non è morto, ma è rimasto a lungo in una sorta di coma; egli ritiene che la matrigna volesse ucciderlo, anche se non direttamente: l’effetto della mancata risposta alla chiamata alle armi è l’accusa di diserzione, che può comportare la pena capitale, se dimostrata. Se quindi il sonnifero, di per sé, non può essere definito un vero e proprio veleno, il suo effetto

136 Sull’argomento si rimanda al recente Pasetti 2015, che contiene anche una schedatura di tutti i temi declamatori

relativi al veleno.

137 Questa legge fu emanata in epoca sillana e riuniva in sé due quaestiones di epoca precedente; lo scopo era

quello di regolamentare i casi di omicidio, compresi quelli per avvelenamento. La pena prevista per i colpevoli era capitale e si applicava anche per il possesso, la vendita, l’acquisto e la preparazione di sostanze velenose, cf. Cic.

Cluent. 54 e 148, Sen. contr. 3,9,1, Ferrary 1991 e Longo 2008, 18-27. Sui rapporti tra questa legge e la

declamazione, cf. Pasetti 2015, 174 s.

138 Lo stesso thema esiste anche in latino, cf. Iul. Vict. rhet. p. 7,18 Giomini Celentano (= p. 377,9 Halm) e Pasetti

2015, 160-162; 167 s.

139 Sen. benef. 5,13,4 ita, qui veri beneficii speciem fefellit, tam ingratus est quam veneficus, qui soporem, cum

40

avrebbe comunque potuto rivelarsi letale e per questo motivo deve essere annoverato tra i

venena.

La 246 è strutturata in un exordium (§§ 1-2) che illustra l’antefatto e la motivazione (l’ultio) che ha portato il giovane ad accusare la matrigna; il sermo (§ 3) affronta poi il problema della

finitio e come proporne una a vantaggio dell’accusa; tuttavia, le indicazioni del rhetor non

vengono seguite pedissequamente140, perché la declamatio dà per scontato che la potio sia un

venenum e si concentra più che altro sullo stereotipo della venefica noverca. Dopo la propositio

e l’argumentatio (§§ 4-5), dunque, si passa alla narratio (§§ 6-7) e alla peroratio (§§ 8-11), che riprende i motivi dell’exordium. Vediamo ora le parti più propriamente interessate dalla raffigurazione della matrigna come avvelenatrice:

Si quid autem ad hanc praeteritorum indignationem adicere etiam forma ipsa iudicii potest, illud certe est quod nulla possit tolerare patientia, quod se mihi contendit noverca beneficium dedisse. Vos aestimabitis quid de persona hac sentiatis: non fecisset hoc mater; certe, quod mihi satis est, pater non fecit141.

Ciò che risulta per il giovane insopportabile è che la matrigna ritenga un beneficium quel che, ai suoi occhi, non può che essere inteso come veneficium; per capire dove stia la verità basta pensare alla persona142 coinvolta, al personaggio, cioè, della matrigna, di cui l’accusatore sfrutta il cliché che la vede ostile al figliastro. Il chiasmo non fecisset mater … pater non fecit, arricchito dal poliptoto, enfatizza i ruoli di madre e padre in opposizione alla noverca: mentre i genitori naturali mai avrebbero potuto danneggiare il figlio, la matrigna non avrebbe mai potuto agire in vista del suo bene. Fin qui, si tratta del tipico atteggiamento di ostilità e sospetto verso la noverca, che, poco oltre, viene riproposto in unione alla questione del veleno:

Veneficii accuso. Veneficam dico quae soporem dedit. Unde tibi <in> hos usus venena? Notiora sunt quaedam pernicie et experimento deprehenduntur, adeo ut aliqua publice dentur. Hoc quid est? quid tu vis vocari? In tempus venenum, quo mens aufertur, quo corpus gravatur,

140 Cf. Dingel 1988, 92 s.