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5. Furor e dementia nelle Minores

5.1 Il furor di Ercole

Il gruppo di Minores interessate dal ‘paradigma di Ercole’ è il più numeroso e, di conseguenza, il più vario. Si tratta di una serie di testi in cui il padre impazzisce e commette, analogamente alla sua controfigura tragica, qualche azione a danno dei figli.

La prima che analizziamo è la Minor 295, intitolata Demens ex vinculis fortis, di cui riportiamo il thema:

Dementiae damnatus a filio et alligatus ruptis vinculis fortiter fecit. Praemio petît restitutionem. Quam cum filio contradicente accepisset, abdicat filium.

Un uomo diventa vir fortis dopo un periodo di pazzia furiosa, durante il quale suo figlio è stato costretto a tenerlo incatenato; come ricompensa, chiede la reintegrazione dello status giuridico e socio-economico precedente la dementia e, una volta ottenuto quanto richiesto, l’uomo disconosce il figlio, reo di essersi opposto in tribunale alla sua istanza. È proprio il figlio che

607 Cf. Brescia – Lentano 2009, 74 s. 608 Cf. Nocchi 2015, 189 s.

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svolge la declamazione, cercando, con varie allusioni, di insinuare il dubbio che il padre non sia del tutto uscito dallo stato di pazzia e che, pertanto, non sia affidabile.

Il tipo di follia che affligge questo padre è di natura furiosa, con accessi tali da rendere necessaria una stretta sorveglianza e l’uso delle catene, da cui l’uomo, dotato di una forza straordinaria, si libera senza troppa difficoltà: il motivo della forza usata per rompere le catene ha un referente mitico nell’episodio dell’eroe Ercole imprigionato da Busiride609; un primo

segnale, dunque, della relazione tra questo testo di retorica e il semidio incaricato di compiere le dodici fatiche. Le indicazioni del maestro riguardano la trattazione della follia: il figlio dovrà mostrarsi felice della guarigione del padre, ma chiarire che l’uomo ha sofferto di una tipologia di malattia che presenta delle ricadute, in quanto follia ‘intermittente’610:

Filius optabit ut pater sanus sit; dicet id genus furoris fuisse ut intermissionem haberet611.

Le indicazioni del sermo, però, non sono del tutto rispettate nello svolgimento del discorso, in cui mancano espliciti riferimenti alle intermissiones,612 anche se si insinua che la sanità mentale sia soltanto temporanea. Infatti, il figlio inizia a declamare affermando che il padre è di nuovo incline all’ira, e questo rappresenta un prodromo della pazzia; inoltre, l’opposizione alla

restitutio è giustificata dal timore di lasciare l’uomo senza sorveglianza, proprio perché, è

sottinteso, potrebbe avere una ricaduta. L’abdicatio è un provvedimento ingiusto, in quanto il figlio ha curato il padre fino alla sua (presunta) guarigione e il fatto che l’uomo abbia combattuto da eroe e abbia mostrato una forza fuori dal comune non sono, di per sé, prove di sanità mentale, ma, anzi, potrebbero essere azioni dovute proprio alla condizione di furiosus. Il figlio dedica molto spazio all’autodifesa, affermando che l’accusa di dementia è l’unica che gli antichi legislatori hanno considerato lecito intentare contro i propri padri, evidentemente perché è facile, in età avanzata, essere affetti da demenza senile. A ciò si deve aggiungere che la mancata opposizione sarebbe stata un atto impius: se il padre può davvero essere soggetto a nuovi attacchi di follia (e il figlio sembra esserne certo), non può evitare di avere vicino a sé un

curator che lo assista. Infine, si insinua che la stessa abdicatio sia una prova dello stato di furor

del padre, incapace di distinguere gli amici dai nemici:

609 Cf. Hdt. 2,45; Isocr. 11,45; Ps. Apollod. 2,117 (τὰ δὲ δεσμὰ διαρρήξας).

610 Si è già visto che l'intermittenza apre la possibilità di contatti con la follia che affligge gli eroi senecani, cf.

supra, 116-118.

611 295,1.

612 La follia era considerata potenzialmente reversibile; gli attacchi potevano alternarsi a fasi di sanità. Un’analisi

della follia temporanea è presente in Cael. Aur. chron. 1,5,151 e 153 con Pigeaud 1995, 86; 101 s.; 106. Le implicazioni giuridiche dell'intermissio sono trattate in Dig. 28,1,20,4 e 1,18,14 e in Cod. Iust. 5,70,6.

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Duret ista animi tui quies: scias quibus irascaris, scias quos ames613.

Il padre folle, dotato di forza straordinaria e protagonista di imprese eroiche che causano un problema al figlio innocente è una chiara immagine dell’Ercole furente: in questo caso, però, il figlio non viene ucciso ma, in maniera più edulcorata rispetto al modello, disconosciuto. E così un’immagine di Ercole si nasconde anche dietro al testo della Minor 289, Amator filiae, di cui riportiamo il thema:

QUI CAUSA MORTIS FUERIT, CAPITE PUNIATUR. Speciosam quidam filiam de amore confessus amico dedit servandam, et rogavit ne sibi redderetur petenti. Post tempus petît. Non accepit. Suspendit se. Accusatur amicus quod causa mortis fuerit.

Un uomo inizia a provare attrazione per la propria figlia e, per evitare di commettere un incesto, l’ha affidata a un amico fidato, vietandogli di riportarla a casa neanche sotto sua esplicita richiesta. Dopo qualche tempo, infatti, la chiede indietro e, al rifiuto dell’amico, si uccide; l’amico viene ritenuto responsabile della sua morte e, per questo, subisce un processo. I temi della declamazione sono, dunque, la causa mortis614, l’amicizia, il rapporto incestuoso tra padre e figlia e la follia d’amore. Il punto su cui verte la causa è se sia possibile ritenere responsabile della morte del suicida il suo amico, che non ha fatto altro che seguire le sue indicazioni. La passione incestuosa tra padre e figlia riprende, rovesciandolo, l’episodio di Mirra e Cinira615:

qui, infatti, è il padre che si innamora della figlia, al contrario della vicenda mitologica, e che riesce a evitare di consumare un amore illecito. Come spesso accade in declamazione, il desiderio proibito è provato dall’uomo616, mentre la donna è relegata a un ruolo passivo617. In

più, tale nefasta passione è provocata dal furor, che inserisce il padre di questo pezzo retorico all’interno di una fitta schiera di padri folli della declamazione: anche se lo schema di base rimanda alla vicenda di Mirra e Cinira, infatti, il declamatore equipara, con il color insaniae,

613 295,5.

614 Su cui si veda quanto osservato da Pasetti 2018.

615 Su cui Apollod. 3,14,4 e Ov. met. 10, 298-524 con Pianezzola 2007, 321-324 e Reed 2013, 231 s. ad loc., che

rendono conto di tutte le varianti del mito.

616 Basti pensare ai casi di raptus o quelli in cui la passione incestuosa rende infamis chi la prova: 335; Sen. contr.

8,3; Ps. Quint. decl. mai. 18 th. e 19 th. (p. 353,1; 371,8 H.); Quint. 9,2,79; Calp. decl. 44 (p. 34,20 H.) e 49 (p. 37,15 H.). Altro caso è quello dell’innamoramento per la moglie del proprio padre, cf. Sen. contr. 6,7 o del proprio fratello, cf. 291.

617 Con l’unica eccezione della matrigna, che talvolta si innamora del proprio figliastro. Un’analisi delle figure

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l’incesto alla follia. Il padre che, sotto gli effetti del furor, nuoce involontariamente alla figlia, dibattendosi tra pulsione aggressiva e razionalità, ricade nel paradigma di Ercole furioso; va in questa direzione anche la presenza dell’amico adiuvante, che diventa una figura di Teseo, incaricato di sostenere Ercole nel tentativo di riprendere in mano quel che è rimasto della sua vita.

Il padre protagonista è fin dal titolo caratterizzato dalla sua pulsione perversa: è un amator, termine che, di solito, nella declamazione, indica il donnaiolo abituale che ha rapporti con una

meretrix618; qui non è una prostituta l’oggetto dell’attenzione maschile, ma la sua stessa figlia.

È evidente che un interesse del genere, di chiara impronta incestuosa, non possa che essere causato da uno stato di follia; e tuttavia, nel sermo, il maestro fornisce indicazioni per lo svolgimento dalla parte dell’amico, che dovrà elogiare il suicida, giunto al gesto estremo per tutelare se stesso e la figlia da una passione torbida e ignobile. L’amico, infatti, si difende affermando di aver agito in assoluta buona fede e di aver seguito pedissequamente gli ordini che aveva ricevuto; affronta poi la questione della definizione di causa mortis e sostiene che, se fosse stato possibile togliere all’amico l’amore, questi non si sarebbe mai suicidato e, pertanto, la motivazione del decesso, in quanto interna all’individuo, non può essere attribuita a un elemento esterno, a qualcosa, cioè, che l’imputato potrebbe aver detto o fatto. Subito dopo, però, l’amore viene declinato nella forma di una pazzia a cui non ci si può opporre:

Volo tamen causam facere difficiliorem. Non deposuerit apud me filiam, nihil praeceperit; tamquam melior amicus defendere filiam in qua pater furebat volui: non enim amor erat qui sic stimulabat619.

Il padre è impazzito per la figlia: furere in e ablativo, di cui questa è l’unica attestazione, è parso a Burman620 una formazione modellata sul costrutto, tipico del lessico erotico, ardeo in e ablativo621; tale scelta stilistica vuole evidenziare come ci sia un’equivalenza tra l’amore incestuoso e la follia. Subito dopo, infatti, si afferma che non è la passione amorosa il motivo dell’attrazione del padre verso la figlia, ma la pazzia. E nonostante questo stato di alterazione mentale, il pater rimane lucido, almeno in una prima fase, e affida la figlia all’amico, meritando lode certa:

618 Cf. 297 tit. e Calp. decl. 33 (p. 29,9 H.) 619 289,4.

620 Burman 1720, 558 ad loc. 621 Cf. e.g. Ov. met. 9,725.

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Sed libenter cedo: ipse fecit rem admirabilem, fecit ut in laudem verteret hoc ipsum, quod turpiter amabat. Quem tum enim illi animum fuisse putatis cum in illo furore tenuit tamen adfectum patris? Perduxit ad amicum, deposuit622.

È chiaro che attribuire al pater un intento eroico significa anche eliminare la possibilità che sia stato istigato dall’amico; in ogni caso, l’uomo ha saputo controllare il proprio folle desiderio, forse perché si tratta di una dementia intermittente o forse perché, in fondo, l’amore paterno prevale su ogni altro tipo di impulso. La parte avversa, però, contesta le presunte buone intenzioni del pater difese dall’amico:

'At enim petivit postea.' Si animum illius metiri velimus, intellegemus non fuisse petiturum nisi quod sciebat me non redditurum: secutus est illum impetum animi sui. 'At enim petiit.' Adice 'recepta sanitate, et non accepisset': ne peteret deposuerat623.

Il declamatore si oppone all’interpretazione dell’accusa affermando che il padre ha chiesto indietro la figlia in un momento di lucidità (adice: recepta sanitate) e non di follia; non era quindi male intenzionato al momento della richiesta. Inoltre, non l’avrebbe in ogni caso riavuta, perché l’amico avrebbe rispettato l’impegno a non consegnarla. Ne esce un quadro di follia intermittente, che rafforza l’equivalenza tra amor e furor. Nel finale, l’amico ribadisce le ragioni del proprio agire, dimostrando la correttezza del comportamento tenuto.

Volgiamo ora l’attenzione alla Minor 256, che già dal titolo, Furiosus trium filiorum pater, si rivela come l’esempio più evidente del contatto tra declamazione e tragedia: si tratta, infatti, di una riproposizione secondo la retorica di scuola dell’Hercules furens624. Questo il thema:

Qui tres filios habebat duos per furorem occidit. A tertio sanatus abdicat eum.

Un padre di tre figli, preso da un attacco di pazzia furiosa, ne uccide due; quando, grazie all'aiuto del terzo, riacquista il senno, deve sopportare il peso delle proprie azioni. Così, convinto che la

622 289,5.

623 289,6.

624 Così anche un passo dell'Anthologium di Stobeo (4,40,22), in cui si riporta un discorso pronunciato da un certo

Gaio al posto di un Paolo, colpevole di aver ucciso il proprio figlio durante un attacco di mania: Γαΐου ὑπὲρ Παύλου παιδὸς ἰδίου ἐν μανίᾳ ἀνῃρημένου. Ἔοικε δὲ ὁ βάσκανος δαίμων φιλοτιμότατος εἶναι πρὸς τὰς παραδόξους συμφοράς. ἕστηκέ σοι παιδοφόνος πατήρ, τὴν μὲν χεῖρα μιαρώτατος τὴν δὲ ψυχὴν καθαρώτατος, μανίᾳ διακονησάμενος τὴν συμφοράν. Da notare l’uso dell’aggettivo παιδοφόνος, che si ritrova in Eur. HF 1201, a indicare la matrice tragica di questo tipo di svolgimento.

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sanità mentale sia per lui una disgrazia, decide di disconoscere il figlio, colpevole di averlo riportato alla realtà.

La declamazione è svolta dalla parte del pater e si risolve quasi per intero nell’accusa di omicidio, proiettata sul figlio, e in una riflessione su come l’inconsapevolezza del male sia preferibile alla conoscenza. Nonostante si tratti di un caso di furor, la declamazione non verte sulla dementia, ma sull'abdicatio, di cui si tenta di fornire una giustificazione. Tema centrale è, dunque, quello della follia, definita nella forma di furor, di pazzia furiosa: tuttavia, della sintomatologia dell'attacco nulla viene detto, se si eccettua un breve accenno alla visione allucinatoria dei figli ancora in vita. Lo svolgimento del brano retorico, infatti, non indugia sugli aspetti fisici e corporali della pazzia, ma tende verso un tono tragico: moltissimi sono i riferimenti a moduli tipici del teatro, in particolare senecano.

Al thema segue una generica introduzione del padre, che mette a fuoco il motivo della pazzia e quello del disconoscimento:

Poteram, etiamsi non irascerer, abdicare tamquam bonus pater. Omnia de fortuna mea timeo, omnia de tam fragili ac tam mutabili mente, et propter hoc dimittendus mihi a domo filius erat, ne incideret in meum furorem. Sed quatenus et causas quoque abdicationis interrogor [id est cogit me frequentius malorum meorum meminisse], quamquam inter praecipua propter quae abdicem hoc est, quod mihi ista narranda sunt, dicam tamen625.

Fin da subito il sentimento che caratterizza il pater è l’ira, che deriva dalla consapevolezza della propria colpa; d’altra parte, l’ira e il furor sono concetti spesso interrelati e legati da un rapporto di causa-effetto626. Se l’uomo vuole agire da bonus pater, deve cacciare di casa il figlio per non metterlo in pericolo nel caso di un nuovo accesso di follia: così anche Ercole vuole togliersi la vita per non far del male al padre qualora il furor tornasse a tormentarlo627. Il pater, infatti, non si sente ancora del tutto guarito e al sicuro e rinfaccia al figlio di essere stato messo nelle condizioni di raccontare il suo doloroso passato e, quindi, di prenderne coscienza: per questo, ritiene il figlio sopravvissuto responsabile, in ultima analisi, della morte degli altri due figli.

Inputo filio meo orbitatem. Respondebit: 'non ego occidi.' Scio; mea manu factum est, ipse ego

625 256,1-2.

626 Cf. Cic. Tusc. 3,11; 4,52; 4,57; Sen. ir. 1,1; epist. 114,3; Quint. 7,4,31 fere ira et concitatio furori sunt similia. 627 Sen. Herc. f. 1244-45; 1263.

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pater qui genueram, qui educaveram, per viscera liberorum ferrum exegi. Credo enim tibi, et orbitatem tamen tibi inputo, tibi. Aestimo illam ex die mei doloris. Quaedam ignorare simile non passi est: tunc liberos perdidi cum perdidisse me sensi628.

L'elemento della mano colpevole dell'assassinio è presente anche nel modello tragico; il padre ricorda i tipici compiti genitoriali a cui aggiunge, ironicamente, l’uccisione con la spada629. Il

peso della perdita è arrivato insieme alla consapevolezza della strage commessa630 e il padre ha

buon gioco a inserire qui il tema di ascendenza tragica dell'ignoranza preferibile alla sofferenza: è proprio la consapevolezza che conduce al dolor631. Questo argomento è il leitmotiv della

declamazione, approfondito subito dopo:

Esto, gravem sine dubio manibus meis iniuriam fortuna fecerat; posuerat tamen huius rei in ipso animo remedium illo tempore quo furere et agi dementia videbar. Frequentius in ea cogitatione eram ut crederem esse cum liberis omnibus. Abstulisti mihi ignorantiam malorum. Quanto miserabilior fui ex die tuae sanitatis! Furiosum me non sic cecidi; tum lacerare vestes, tum verberare vultus meos coepi632.

La sorte, che è da intendersi di segno negativo633, aveva predisposto un paradossale remedium

per lo sventurato padre: la follia, che lo aveva protetto da una coscienza dolorosa634. Questa

particolare forma di pazzia porta con sé le allucinazioni635, che sono terapeutiche, in quanto

consentono al protagonista di credere la propria famiglia ancora in vita; l’uomo ribadisce che l’ignoranza del male è preferibile allo stato di consapevolezza636 e che la recuperata sanità

628 256,3.

629 Anche Medea uccide i figli con la spada, cf. Sen. Med. 969-970 e 1006 ferrum exigam. 630 Per la sofferenza interiore derivante dalla disperazione, cf. Sen. Herc. f. 1121; Oed. 924.

631 Cf. Sen. Oed. 1005-1007, dove la consapevolezza di Giocasta è paragonata a quella di Agave, nel momento in

cui si rende di aver ucciso il proprio figlio (et furens/ Cadmea mater abstulit gnato caput/ sensitve raptum).

632 256,4.

633 Come è tipico del teatro senecano, cf. Averna 1998.

634 Di opposto parere è Edipo in Sen. Oed. 514-515: a Creonte, che tenta di nascondergli la verità, risponde che la

consapevolezza sia preferibile all'ignoranza delle proprie sventure (CR: nescisse cupies nosse quae nimium expetis. / OE: iners malorum remedium ignorantia est).

635 Per casi tragici di allucinazioni, si veda Soph. Aj. 285-304; Eur. HF. 947-1000; IT. 285-294; Or. 255-276; Sen.

Herc. f. 939-1038.

636 Questo tema trova riscontri sia in ambito morale, cf. Cic. div. 2,29 certe igitur ignoratio futurorum malorum

utilior est quam scientia, sia, soprattutto, tragico, cf. Sen. Thy. 782-783 in malis unum hoc tuis bonus est, Thyesta, quod mala ignoras tua; Herc. f. 1098-1099 proxima puris sors est manibus nescire nefas; Soph. Aj. 271-276; Eur. Or. 395-396; Ba. 1259-1262. Per il luogo comune della beatitudine che deriva dall'ignorare le sventure cf. Soph. Aj. 552-555; Eur. fr. 205 N; [Plut.] mor. 115e.

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mentale è causa di una terribile infelicità637. Quando era folle, infatti, il pater ha commesso un

atto esecrabile, arrivando a colpire i propri figli; ora che è guarito, invece, non può far altro che colpire se stesso con gesti rituali autolesionistici, tipici del lamento funebre antico638. Il

responsabile di tutto è, però, indicato nella figura del figlio rimasto vivo, su cui il padre proietta le proprie azioni delittuose:

Omnia igitur haec non in aliam vim accipi debent quam si filios meos ipse occidisses, quam si ipse abstulisses. Unde tantum boni ut reddere possis illam valetudinem, illum furorem? Quod unum possum praestare infelicissimis illis iuvenibus meis praestabo: ne quis eorum morte gaudeat, ne cui prosit quod filios meos occidi639.

L’unico spiraglio di positività è impossibile da raggiungere: il padre dovrebbe essere di nuovo colto dalla follia per poter tornare a ignorare le proprie colpe. Nella chiusa, egli si augura che nessuno, compreso il terzo figlio, possa trarre giovamento dalla morte degli altri due.

Oltre al tessuto tragico che si è potuto osservare nel dettato della declamazione, è evidente che il modello per la costruzione del pezzo retorico, a partire dal thema, è la follia di Ercole: già dal titolo, infatti, si caratterizza il protagonista della controversia come un padre caduto vittima di un tremendo attacco di furor che lo ha spinto a sterminare la propria famiglia. Rispetto all’originale tragico si può notare la sostituzione della moglie dell’eroe con un terzo figlio, segno inequivocabile dell’impronta declamatoria del testo: la tragedia riflette sulla reazione di Ercole di fronte alla strage della famiglia al completo, mentre la declamazione è più interessata al conflitto generazionale tra padri e figli e, per questo, sceglie di sostituire un personaggio femminile con quello di un ulteriore figlio640. Il padre protagonista, inoltre, è meno eroico della controparte tragica: alla straordinaria capacità di sopportazione di Ercole, che lo contraddistingue anche nel momento in cui si rende conto di essere il colpevole della strage domestica, si oppone il desiderio martellante di evitare la lucidità, e con essa la sofferenza, del

pater dei retori, che addirittura scarica sul figlio sopravvissuto la colpa del proprio insanabile

dolore. Un Ercole in tono minore, dunque, quello dei retori, che tuttavia reca con sé le tracce

637 Cf. Sen. Herc. f. 1259-61, in cui Ercole lamenta la perdita di ogni bene, follia inclusa, e Calp. decl. 31 (p. 28,15

H.) importuna sanitas.

638 Sulle stereotipie mimiche del planctus si veda De Martino 20084, 186. Per gesti di questo tipo in tragedia cf.

Aesch. Pers. 1038-1077; Ch. 22-31; Eur. Andr. 1209-1213; Hec. 649-656; Or. 960-970; Tr. 1235-1237; Sen. Tro. 64-163; Herc. f. 1100-1114.

639 256,5-6.

640 In questo processo entra anche in gioco l’elemento della triplicazione, tipico della declamazione, cf. Lentano

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della grande tradizione tragica, fonte inesauribile a cui attingere per creare temi e svolgimenti sempre diversi.