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Pellerossa

L’esordio letterario di Anna Maria Ortese risale al 1933, anno in cui su «La Fiera Letteraria» le vengono pubblicate ben tre poesie, dalle quali naturalmente emerge il rimando a Manuele. La stessa rivista pubblicherà l’anno successivo il racconto

Pellerossa1, e continuerà via via a seguirla, specie attraverso il nuovo direttore Massimo Bontempelli, il quale sponsorizzerà la pubblicazione del primo libro della scrittrice, Angelici dolori (Bompiani 1937), costituito da tredici novelle e comprendente il titolo sopra citato.

Come ha notato Giancarlo Borri, già in quel primo, acerbo racconto, Ortese evidenzia

una delle sue fondamentali tematiche: quella degli uomini cui la civilizzazione dilagante – il cosiddetto progresso – toglie lo spazio «naturale» e l’originaria «innocenza».2

Lo scritto è inoltre legato alla precedente poesia che ricordava dolorosamente il fratello, ormai sepolto in Martinica, nella lontana Fort de France.

1 Il titolo appare in prima battuta nella forma di Pellirossa; a partire dalla pubblicazione in volume, nel 1937, passerà definitivamente alla variante

Pellerossa.

94 Non più di tre anni fa, esistendo ancora mio fratello Manuele,

poiché la più bella stanza della casa, quella d’angolo sul porto, era priva di mobili e solo arredata di cassoni e brande, io potevo sognare quello che dico, ora assurdo e lamentevole sogno.3

È un’Ortese decisamente lirica, e che riesce già a far posto, in questo incipit che battezza la sua entrata ufficiale fra i narratori italiani, anche a un altro tema che la caratterizzerà, e non poco, e che approfondiremo in seguito: il sogno, collegato sempre all’estasi della visione artistica e alla percezione ustionante del reale, e del surreale.

Ma torniamo a Pellerossa. Leggiamo alcune righe successive all’inizio:

Un veliero dunque, una «Maria Rosaria» di quelle che attraccavano un tempo sotto le finestre caricando barili, con spettacolare rande e fasciame, vecchio ma buono. A bordo di questa obbediente casa andavamo il fratello maggiore ed io dolcemente navigando, prima sotto la costa sorrentina, poi giù verso la Sicilia e quindi, fatti esperti da alcuni mesi di navigazione, sopra i mari aperti del mondo, quali l’Atlantico e l’iridato (nella mente) Pacifico. Lui avrebbe capitanato la nave, io, provvista di colori tedeschi portati da casa, avrei dipinto i paesaggi e la gente colorata di quei posti, grande mia passione.4

Doveva già pesare su questa prima descrizione l’ammirazione sconfinata per un autore come Edgar Allan Poe, per cui il senso del mare e del mistero, della navigazione intesa come porta verso

3 Anna Maria Ortese, Pellerossa, in Angelici dolori…, cit., p. 21. 4 Ibidem.

95 ulteriori mondi, ulteriori sensazioni dell’essere, fu sempre determinante. Ortese si adatta a quell’immaginario legandolo alle esperienze private, di una giovane donna che ha già solcato i mari, insieme alla famiglia, e che è dilaniata dal dolore di un lutto.

Il mito di Colombo conquistatore, che abbatte il divieto delle colonne d’Ercole e si spinge al di là dei limiti finora conosciuti, si salda nella fantasia della scrittrice non perdendo mai di vista un altro mito, personale, ovvero del fratello marinaio, di quel Manuele Ortese anch’egli partito a bordo di una nave verso un nuovo mondo, sconosciuto ai più, e spintosi fino al limite estremo, tanto da superarlo: la vita, la morte.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, è la stessa autrice a dirci che la predilezione per la data del 1492 si sia originata in lei molto presto, nei suoi primi anni di vita; e potremmo sospettare una predestinazione in questa scelta, qualora non volessimo attribuire eccessiva importanza alle vicende della famiglia, spesso in viaggio attraverso i mari per poter trovare una nuova sistemazione, per colonizzare, potremmo azzardarci a dire, a sua volta altri luoghi, altre terre: tutto questo può naturalmente aver pesato ai fini dell’edificazione dell’immaginario – poetico e filosofico – di Anna Maria Ortese. Deve però essere una spia certa il fatto che questo primo racconto sia dedicato ai nativi americani, fin dal titolo, e che fin dall’inizio tuttavia si dia spazio al fratello Manuele, sventuratamente perito.

La nota permanentemente doloristica di Anna Maria Ortese non nasce dunque per caso. L’elaborazione del lutto passa anche attraverso la rielaborazione di quel tema a lei così caro: terra e indiani americani, sui quali s’imporrà con forza la figura di

96 Manuele: non solo fratello ma anche simbolo, non solo persona in carne e ossa ma anche allegoria attraverso cui filtrare un pensiero.

Il fratello rinsalda e quasi eternizza il tema cardine di Anna Maria Ortese. Attraverso la prova della perdita, la gestione del tema naturale risale le radici dell’esperienza umana, prediligendo l’uomo nel suo contesto più puro e pacifico con la Terra, e ritrae inoltre quello stesso uomo incapace di difendersi dalla morte inflitta da altri umani, simili ma da lui diversissimi.

Il racconto, dopo le prime pagine, arriva poi a una scena singolare.

Urgeva dunque che noi due lavorassimo a trovar la occorrente nave e, con bandierine allegre e colori tedeschi e propositi belli, prendessimo le vie della fortuna e salvezza diretti alle terre di libertà.5

Già all’interno dello stretto e angosciante perimetro dell’ambiente familiare, lo vediamo bene, Anna Maria Ortese sente forte l’impulso a fuggire, sente fortissimo il dovere dell’autonomia, economica e identitaria, materiale e spirituale, e rappresentata con quelle «terre di libertà» che tanta parte avranno nella sua opera.

La scena che stiamo esaminando continua:

Una mattina io dissi:

«Bisognerebbe ornare la stanza, che ne dici?» (al fratello Manuele).

97 Egli con un suo coltello badava a intagliare nel legno una

freccia, mi guardò. Io non feci subito il nome, ché trepidavo non mi leggessero in viso gl’intimi sentimenti, il mio amore silenzioso e originale anche: Cavallo Bianco.

Ci si potrebbe a questo punto confondere, equivocandosi con quell’ultimo nome, pensando cioè a un vero cavallo, anziché a un uomo vero e proprio. Ma è Ortese stessa a fugare il dubbio, con la battuta immediatamente successiva:

«Che ne diresti d’un Pellerossa al naturale ch’io dipingessi, attaccandolo poi sulla branda? Pensa che impressione, entrando».6

È più che probabile che l’autrice, che doveva essere conoscitrice meticolosa della mitologia dei nativi, si stia qui riferendo a una vecchia leggenda, che ha per protagonista l’indiano Cavallo Bianco.

Un giorno, mentre partecipava ad una caccia al bisonte in un’area dell’attuale California, Cavallo Bianco s’imbatté in una roccia solcata da un varco. Incuriosito dall’anfratto, il vecchio indiano si addentrò all’interno dell’apertura, trovandosi in breve davanti a un tunnel molto esteso.

Intenzionato a capire dove conducesse quella galleria sotterranea, Cavallo Bianco si fece strada all’interno della roccia, finché non notò una debole luce verdastra alla fine della galleria. Incontrò allora, incredibilmente, due sconosciuti: un uomo di pelle bianca, e una donna dai capelli biondo oro, seduti tutt’e due al centro di una grande sala.

6 Ivi, pp. 22-3.

98 Osservandoli con attenzione, il vecchio indiano ebbe l’impressione che i due fossero addolorati per qualcosa. Chiese dunque il motivo del loro dispiacere, e scoprì così il figlio della coppia era stato ucciso da poco tempo.

I due si presentarono poi a Cavallo Bianco, dichiarando di essere abitanti del mondo sotterraneo. Nonostante fossero a conoscenza dell’esistenza del mondo esterno, seguitarono a dire, non avevano mai avuto occasione di vedere qualcuno della superficie. Il vecchio indiano gli spiegò di aver avuto accesso al loro mondo sotterraneo casualmente, per mezzo di un solco scoperto all’interno di una roccia.

Durante il lungo incontro, la coppia di uomini sotterranei descrisse a Cavallo Bianco come si svolgeva la vita nel loro mondo. Gli rivelarono inoltre che gli antenati dei nativi americani provenivano da quello stesso mondo interno, poiché legati ad un’antica razza antidiluviana proveniente dal continente sommerso di Atlantide.

Questa, in sintesi, la leggenda da cui Ortese potrebbe aver attinto, e che avrebbe in seguito rielaborato; leggenda che a primo impatto sembra una sorta di mito della caverna alla rovescia. Al contrario di ciò che avviene nel testo di Platone, in cui i prigionieri del mondo sotterraneo risalgono lentamente verso l’uscita, qui all’opposto è un rappresentante della superficie ad addentrarsi verso l’interno, nelle viscere di un anfratto che tuttavia non è giudicabile negativamente, come avverrà invece nel caso del filosofo greco. In questo percorso a ritroso, anzi, ritroviamo l’ideologia più cara ai nativi, e dunque anche ad Ortese, basata su un rapporto di profonda vicinanza alla Madre Terra, per rispettarne i segreti così come per conoscerli;

99 vicinanza che in questa occasione si spinge ben oltre i limiti canonici assegnati agli uomini, in una sorta di nuovo superamento delle colonne d’Ercole che qui si muovono in verticale, non in orizzontale, e scendono fin dentro il pianeta penetrando ciò a cui di norma non era consentito l’accesso.

La discesa di Cavallo Bianco nel mondo sotterraneo, poi, non può non richiamarci alla mente quella che nel più comune degli immaginari è intesa come la discesa ultima dell’essere umano, il suo viaggio estremo dopo la morte, verso l’Aldilà o gli inferi, che dir si voglia.

In un testo come Pellerossa, prima prova in prosa di Anna Maria Ortese, scritto poco dopo la morte del fratello Manuele a cui il racconto è naturalmente dedicato, e di cui costituisce l’asse portante, il fantasma feroce che vive nelle parole pur essendo defunto nella realtà, protagonista luminoso che sorpassa, per un attimo, l’eternità tenebrosa della morte, in un testo come

Pellerossa, dicevamo, soprattutto quella discesa metaforica di

Cavallo Bianco non può non essere considerata.

Altri punti di contatto legano inoltre Pellerossa e il mito del nativo che stiamo esaminando. Primo fra tutti, il fatto che nella leggenda indiana Cavallo Bianco sia precisamente un Sioux. Poco oltre il passo che abbiamo letto, Ortese specifica la tribù dell’indiano che vorrebbe non solo dipingere ma addirittura trasfigurare all’interno di un romanzo, indiano che è anch’egli, non a caso, un Sioux.

Ma non la vanità, era il mio movente: che da alcuni mesi, per certa lettura di opuscoli missionari in cui si deplorava il decadimento della bella razza americana tanto diletta a noi, io ero rimasta impressionatissima, mangiavo di malavoglia e unico

100 mio conforto era una impetuosa discussione che aprivo

giornalmente in famiglia sulla «viltà dei bianchi» e altre esagerazioni. Non mi si dava molto retta, né a me del resto importava, ché altre erano le mie ansie continuate, assillanti: si pensi, un libro. Un romanzo (ma ben superiore ai soliti d’avventure) in cui badavo a esporre la tragedia dell’ultimo Pellerossa, un Sioux, superstite unico sulla marea bianca del mondo.7

In questo passo, abbiamo visto, Anna Maria Ortese argomenta circa l’incredibile attaccamento alla vicenda dei nativi americani; dichiara che vorrebbe perfino dedicare un libro a uno di loro, ovvero al «superstite unico sulla marea bianca del mondo».

Nella leggenda che abbiamo citato, nel finale, c’è l’accenno a un’antica razza antidiluviana e al continente sommerso di Atlantide. Il Cavallo Bianco ortesiano, quindi, pare proseguire quella stessa vicenda, ponendosi però come il solo essere a cui è stata risparmiata la vita, il novello Noè uscito immune da un annegamento senza pari, il secondo Adamo che non avrà neppure discendenza, forse.

Ortese, tuttavia, non andrà fino in fondo alla storia, ossia all’ulteriore resoconto di Cavallo Bianco all’interno della trama principale, incentrata su di lei e il fratello. Ci dice solo che vorrebbe scrivere «una cosa da far colpo, ma in un senso tutto superiore, s’intende»8, e che

tutto il raffinato mondo intorno mi pareva al confronto un vegliardo assopito nella poltrona, che non si può immaginare cosa più deprimente. Ne ero oppressa come per nebbia che cali.

7 Ivi, p. 23. 8 Ibidem.

101 Come fuggire, dove raggiungerlo e per quali libere vie del

mondo, l’ultimo Eroe?9

Quest’ultima parola si ripeterà spesso all’interno del racconto, sempre attraverso quella prima lettera maiuscola, volutamente enfatica, e senza mai perdere di vista il referente familiare di Manuele.

L’autrice sembra poi rifarsi anche a un altro avvenimento, stavolta non mitologico, che ha fra i suoi bellicosi protagonisti l’indiano Lakota (e quindi Sioux) Cavallo Pazzo, il quale fu realmente esistito e soprattutto prese parte attiva alla battaglia di Little Bighorn, così chiamata dal nome del torrente, nel Montana orientale, accanto al quale si svolsero le operazioni militari. Scoppiata nel giugno del 1876, la campagna fu disastrosa per i soldati americani, guidati allora dal generale Custer e sterminati quasi fino all’ultimo uomo dai Sioux e dai loro alleati.

Pellerossa, non casualmente, è un testo su cui agisce forte la suggestione della battaglia dei nativi, ed è mescolato in maniera altrettanto pervasiva a due arti diverse dalla letteratura, ma ugualmente riconducibili ad Anna Maria Ortese, e cioè disegno e pittura.

Ricordiamo il passo citato nel precedente paragrafo, in cui

Ortese legava la preferenza per la data del 1492 a una quasi inspiegabile attrazione cromatica. «Allora non avevo che sensazioni di sogno e di vaga ebbrezza», vale la pena riprendere le sue parole. «Amavo solo, non so perché (credo questione di colori) le due Americhe».

9 Ibidem.

102 Ebbene quegli stessi colori entrano prepotentemente in

Pellerossa, ma vi entreranno solo dopo il lasciapassare di

Manuele. Ortese concepisce infatti l’idea di dipingere questo grande indiano, che invadeva già da tempo la sua fantasia; si procura per questo delle matite, «pur miserabili e inadatte, per ricrearmi vicino il nobile amico»10. Ma, prosegue Ortese, autrice

e protagonista della storia,

volevo prima ottenere il consenso del fratello Manuele che, espertissimo in materia, avrebbe dovuto dirmi sulla convenienza o no di tale tentativo artistico. Ed egli consentì […].11

Non è una dichiarazione da poco. Se è vero che Ortese sarà per tutta la vita legata alla data simbolo del 1492 (e a tutto ciò che da essa è scaturito), è anche vero che quel legame si sviluppa dal rapporto estremamente intenso, reso ancora più intenso attraverso l’esperienza del lutto, col fratello Manuele; legame corroborato anche dalla traccia cromatica (di quei colori di cui Manuele «era espertissimo»), e dalla tematica della guerra (a sottolineare la morte di alcuni membri della famiglia Ortese in pieno clima bellico).

Anche leggendo solo la parte in cui Ortese descrive il disegno di Cavallo Bianco, si ha quasi l’impressione di assistere a un rito iniziatico, una preghiera che i due fratelli compiono prima della battaglia, prima della fine incombente dell’uno e della sopravvivenza miracolosa dell’altra.

Leggiamo:

10 Ibidem.

103 Si cercò allora insieme, io febbrilmente, un foglio da

imballaggio alto quasi mezza parete e, stesolo sul pavimento di quella stanza deserta (non altrimenti si poteva adoperarlo), inginocchiatami su esso mi misi fremendo all’opera servendomi per modello d’una stampa che possedevo di Pellerossa prima dell’incivilimento. A mano mano che lavoravo grida di meraviglia mi uscivano dalle labbra, rotte voci di esaltamento, di commozione. Cavallo Bianco compariva a vista d’occhio, come uscendo dal pavimento, con la testa due volte la mia e la bocca serrata sull’altezza del mento e gli occhi anche socchiusi, potentissimi, con una aureola di penne alte un metro, e con le braccia pure d’un metro incrociate sul petto. Appena terminato d’arrossare la voluminosa faccia dell’Eroe, io serrai i pugni per contenere la gioia che mi straripava fin nelle dita convulse, e lo guardavo lo guardavo, esprimendo con avventata foga la mia commozione, la fedeltà che sempre sempre gli avrei portato […].12

Più che una ragazzina divertita ed emozionata, di fronte a una piccola opera d’arte che sta nascendo dalle sue dita, l’impressione è quella di star osservando una giovane credente in adorazione davanti al suo dio, finalmente apparso, finalmente emerso (in questo caso, addirittura, dal pavimento di una stanza), un fedele in contatto con una rivelazione quasi sensibile, e a tal punto indubitabile da essere immediatamente riportata sulla pagina.

Ortese non è semplicemente felice, lo capiamo chiaramente, va incontro perfino a «grida di meraviglia», a «rotte voci di esaltamento», a una profonda «commozione». E l’indiano dipinto, lo stesso che via via verrà non visto ma contemplato, non

104 si presenta in una posizione qualsiasi bensì con le braccia incrociate sul petto, pari né più né meno a quelle di un santo, o di Cristo stesso; e non è sormontato da un semplice copricapo ma addirittura da un’aureola di piume: probabile trasfigurazione della corona di dodici stelle di Maria Vergine, o della stessa corona di spine: immagine assai significativa e che segna l’inizio di un campo semantico fortemente incentrato sull’immagine di Gesù agonizzante, inchiodato e venerato sulla croce.

Torniamo però al periodo che stavamo leggendo, che continua anche grazie alla presenza quasi deifica di Manuele, artifex indiretto del dipinto del pellerossa e guida spirituale della sua creatrice tecnica:

[…] anche il fratello Manuele, che non mi aveva lasciata un minuto, passeggiando nella stanza su e giù, era stupefatto, e chinato a guardare rideva di compiacenza.

«Le penne, come le faccio le penne?» gridai.

Lui consigliò, toccandole, varie matite: il verde e il giallo, preferiva. Anche turchine però e nere andavano bene, con qualche spruzzatura di sangue.13

Le penne della domanda-invocazione della scrittrice, mi sembra, hanno tutta l’aria di porsi come una metafora. Non parliamo, infatti, solo di penne come ornamento tipico dei nativi americani, ma anche delle penne con cui scrivere libri; penne che potevano accompagnare un indiano Sioux, e specie sul campo di battaglia, e insieme penne da usare allo stesso modo di un’arma, con cui ferire, divulgando la verità, e insieme proteggere. Manuele, non a caso, nel finale del passo parla di sangue.

105 Potrebbe semplicemente suggerire alla sorella l’utilizzo del colore rosso, ma sceglie invece un rimando violento – «qualche spruzzatura di sangue» – e rafforza così sia l’immagine della guerra cui abbiamo già accennato sia il senso di una scrittura tutt’altro che quieta.

Il passo immediatamente successivo alla scena appena descritta, inoltre, rinsalda ancora di più la sensazione del sacro mista a quella della sofferenza, delle spruzzature di sangue, vere o allegoriche che siano, perfettamente conciliate con quella che pare una chiamata mistica, una sguardo divino infine posato sui questi piccoli profeti contemporanei, Manuele e Anna Maria: il primo la mente e la seconda il braccio di questo contatto, l’uno che letterariamente rivive dopo essere morto e l’altra che eterna le gesta, attraverso il protagonista del racconto, del fratello defunto.

Abbiamo visto nel paragrafo precedente come Ortese non si dichiari palesemente cristiana, pur non potendo fare a meno di credere alla Rivelazione; dall’estratto che visioneremo adesso sembra davvero innegabile la presenza di un sottotesto, il quale rimanda inevitabilmente alla tradizione religiosa.

Ci troviamo sempre in una delle stanze da letto della misera casa degli Ortese. L’autrice, dopo una parentesi di commozione quasi surreale, ha appena terminato il suo disegno e si appresta ora a fissarlo a una parete. Prima, però, compie il gesto non casuale di accendere la luce.

Così scrive Ortese:

[…] allorché il faro s’accese e cominciò a entrare la luce ritmicamente nella stanza dalle vetrate azzurre, io avevo finito.

106 E, aiutata dal fratello, mi affrettai a innalzare l’Eroe con quattro

chiodi sulla branda, al posto di alcune immagini sacre che riverentemente tolsi (ingiallite assai). Egli fu subito in piedi, ed eretto sul gigantesco torace (il doppio di uno normale), ferma la testa, socchiusi gli occhi, ci guardava fieramente come fosse al palo della tortura ma incurante d’ogni avverso destino.

Dietro un suo braccio panneggiato di giallo, fuggiva l’ultima vastissima luce del tramonto e la Prateria s’incupiva di fossi. Accendemmo nella stanza una candela e, gonfio il cuore di devota passione, lo guardavamo.14

Dopo aver letto con attenzione, non potrà sfuggire la