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Sempre in Angelici dolori, un altro racconto, intitolato La vita

primitiva, il decimo della raccolta, riflette sulla condizione

originaria dell’esistenza, a partire da un viaggio che la scrittrice intraprende insieme al fratello Giovanni, alla volta della «perduta riva del Pacifico, la costa orientale della Nuova Zelanda del Sud, non molto distante da Dunedin»32.

L’immaginario marino è anche qui molto presente, ricordando, scientificamente parlando, l’importanza che l’elemento dell’acqua ebbe nelle prime fasi della storia umana, e d’altra parte, da un punto di vista religioso, ritrovando in quello stesso elemento un significato battesimale, di purificazione e rinascita. Anna Maria e Giovanni, novelli conquistadores che hanno appena raggiunto un luogo incontaminato, presumibilmente dopo la morte del fratello Manuele, elaborano così nuovamente quel lutto: lo scenario marino ha anche questa funzione, non

31 Ibidem.

122 secondaria, quasi di tumulazione, automatica e ulteriore, di Emanuele Carlo Ortese, che, ricordiamolo ancora una volta, era un marinaio; tutto ciò si pone inoltre come collegamento a un tema che anche in questa narrazione si riconferma: il rapporto con la cultura dei nativi americani.

Diciotto anni io. Egli sedici.

Al mondo non c’era rimasto alcuno.

Mi pare che in treno, traversando ancora l’Europa, io avevo leggermente pianto, e, benché avessi cercato di nasconderlo, lui ne aveva qualche sospetto. «Perché?» mi aveva domandato appena, fissandomi.

«È il vento» avevo risposto «il vento di queste pianure selvagge».33

Questi nuovi selvaggi, unici sopravvissuti, a quanto ci viene detto, in un mondo quasi post-apocalittico, attraversano dunque le celebri pianure indiane, rese più selvagge, se vogliamo, dal fatto di essere ancora vergini, distanti da un eventuale, futuro progresso, come dall’eventualità che altri umani possano mettervi piede.

I due Ortese sono giunti in quel punto del mondo per un motivo preciso. Non sono lì per caso e non sono di passaggio. Come ci spiega la stessa autrice:

[…] giunti finalmente alla meta, alla bella isola amata, forse l’aria stessa mi rasserenò, e io non pensai ad altro. Reclutammo alcuni negri poderosi, e ottimi per ingenuità e classica allegria; e con essi, ben carichi di legname e cassette di provvigioni, partimmo dalla ridente cittadina inglese, diretti alla volta del

123 mare, di quel promontorio sotto il quale intendevamo costruire –

tenace contro gli anni – la nostra marinaresca casetta.34

E poco oltre:

Verso le dieci, la capanna era già in piedi, decorosa nelle apparenze, alta due metri, lunga cinque, in color grigio piombo, fatta di due stanzette separate da un semplice tramezzo. Una volta terminati i lavori (noi assistevamo con le mani dietro la schiena, dando qualche consiglio), uno dei negri, certo Jacob, avrebbe voluto rimanere con noi. Si professava servo fedele, diceva tante amabili cose, poveretto, in un gergo pressoché goffo e incomprensibile; congiungeva le mani sul cuore, si prostrava impetuoso con la fronte a terra. Ma mio fratello non volle.

«Vai, vai» diceva. «Non abbiamo bisogno. Siamo venuti proprio per star soli».35

I conquistadores Ortese sono perciò diversi dai loro antecedenti. Non si caratterizzano per la loro violenza e non alimentano incomprensioni con i natii, non fanno gruppo e non intendono schiavizzare gli indigeni. Forse proprio in questa sottolineatura ritroviamo la volontà dell’autrice, nascosta soprattutto dietro al fratello Giovanni: egli è fra i due il più ritroso e timido a mostrarsi, che cerca e vuole la solitudine, scacciando perfino un nativo del posto.

Anche Giovanni Ortese, tuttavia, sarà destinato a mutare il suo comportamento. Dopo un iniziale freddezza che lo divideva dall’emozione della sorella, e conseguentemente dalla bellezza di

34 Anna Maria Ortese, La vita primitiva, in Angelici dolori…, cit., p. 107. 35 Ibidem.

124 quella terra, il giovane, dietro il quale sono intuibili alcune influenze, muterà prospettiva.

«Com’è bello, che belle sere trascorreremo qua, Giovanni!» esclamai fissandolo con affetto.

Sorrise. Sul labbro gli luceva una peluria incipiente, e il suo petto nudo, snello, roseo, il disegno sapiente delle spalle, erano già quelli di un innocente e ragguardevole «primitivo»36.

Ortese mette fra virgolette quell’ultima parola, così importante e così delicata, così spiritualmente distante dal luogo da cui fugge e così stupefacente ai suoi occhi.

Oh, non dimenticherò mai quella prima sera!

Qualche scrittore europeo, giunto alla mia adolescenza infelice traverso non ricordo bene quali eredità librarie di antenati, si era sforzato (ammirevole solerzia!) di illuminarmi abbastanza sulla poetica e grandiosa bellezza dei tramonti tropicali; e cioè dipingendo con accurata e reverente mano quelle nuvole fantastiche, indugiando con allegro pensiero su quei cupi e stupendi riflessi di che la Natura ivi si riveste, subito che il Sole è dileguato nei flutti. Ma confesso che la realtà superò gagliardamente ogni aspettativa, e gli zelanti Maestri ammutolirono nel ricordo.

Stavamo seduti, Giovanni ed io, sulla soglia della capanna, per terra, di fronte all’Occidente […]37

Proprio come due indiani, accovacciati sul suolo di un nuovo mondo ma pur sempre rivolti al vecchio, i fratelli Ortese iniziano a fare esperienza di una condizione inedita. Anna Maria mostra

36 Anna Maria Ortese, La vita primitiva, in Angelici dolori…, cit., p. 108. 37Ibidem.

125 però più velocità di adattamento, dettata forse dal maggiore entusiasmo, dal desiderio disperato di raggiungere quella nuova dimensione, fisica e interiore (la stessa che le fa percepire quella «Natura» e quel «Sole», scritti rigorosamente con la lettera maiuscola, quasi come due divinità); Giovanni si mostra invece più cauto e diffidente, o forse più timoroso e più profondamente, insospettabilmente, emozionato.

Accanto a me, irrigidito dalla commozione, mio fratello pareva non respirasse. Pallido era egli, il viso leggermente proteso in avanti, gli occhi allucinati, un sorriso esitante sulle labbra; e i suoi piedi scalzi, fin nelle dita riverberati da una magica morbida luce rossa.

Per caso io mi guardai la gonna, le braccia. Anche erano rosse.

«Tutto è rosso!» gridai (e sonò la mia voce come un miracolo). «Guarda, Giovanni».

Non mi rispose. Fissava intenerito il Sole lontano, che si calava magnifico e nudo nelle acque, d’un rosso spaventevole, a pezzi macchiando l’acqua di rosso, là e quaggiù.38

Di questo passo colpisce in primo luogo lo scontro coloristico, se così possiamo chiamarlo, che ricorda molto quello presente nel racconto Pellerossa: anche lì il rosso si contrapponeva fortemente al bianco; la cute indiana pitturata era metafora di guerra agli invasori e sangue versato, mentre il bianco era l’ovvio significante di pace e indipendenza da raggiungere, attraverso varie figure liberatrici.

Nel caso de La vita primitiva è Giovanni ad essere bianco, ovvero pallido, naturale rappresentante di quelle ‘facce pallide’

126 che raggiungevano l’America dall’Occidente; mentre rossa è la natura, specie il sole ormai al tramonto, «d’un rosso spaventevole», e l’acqua stessa che quel sole bagna.

Come nel racconto precedente, anche in questa narrazione i riferimenti alla tradizione cristiana non sono affatto marginali. Non è un caso, infatti, che dopo un momento di estasi di fronte alla bellezza del panorama Giovanni esclami «Preghiamo! […] gettandosi ratto in ginocchio»39.

Subito obbedii, e, inginocchiata accanto a lui, piamente, come la nostra buona madre ci aveva insegnato, recitai il Pater e altre pietose devozioni. Il mare parlava sempre. In breve il sole scomparve.40

Dietro il personaggio di Giovanni Ortese sembrerebbe celarsi la figura del Battista, a cui il fratello dell’autrice si ricollega innanzitutto per il nome, ma anche per l’elemento dell’acqua e per la caratterizzazione cromatica del rosso.

Nel dipinto del Caravaggio sotto proposto, uno dei molti dedicati a San Giovanni Battista, spicca, come del resto anche in altre raffigurazioni del medesimo artista (e non solo), il caratteristico mantello rosso, simbolo del cruento martirio che l’uomo dovette subire. E non manca neppure la notazione del bianco, attraverso il perizoma anch’esso ricorrente nella ritrattistica della figura.

39 Ibidem.

127 41

Giovanni Ortese sarà sempre vicino a questi due colori all’interno del racconto, come del resto la sorella. Il fratello dell’autrice possiede tuttavia qualcosa in più: la fede, e per questo invita più volte Anna Maria a seguirlo nelle sue invocazioni a Dio, specie in quella situazione di assoluta verginità terrestre, e insieme di riscoperta profonda della propria umanità.

Dopo il passo che abbiamo letto, dei due fratelli in contemplazione dell’oceano, ne abbiamo un altro, più breve, che accosta nuovamente Giovanni all’acqua. La situazione qui è abbastanza ordinaria, Anna Maria sta apparecchiando la tavola della loro prima cena.

41 Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Giovanni Battista, Olio su tela, 173 x 133, 1604 c., Museo Nelson-Atkins, Kansas City.

128 Trascinai io una cassetta nel centro della stanza, vi disposi

acconciamente due piattelli di alluminio, alcuni biscotti rossastri e lucidi, poco promettenti. […] La cena era pronta. Non dimenticai di portare qui la bottiglia con la candela.

«E l’acqua?» domandò con ironia Giovanni. «È vero!» esclamai ridendo.42

Attraverso un nuovo battesimo, forse non solo metaforico, Anna Maria Ortese vuole segnalare l’entrata a far parte di una vita diversa, bella quanto un paradiso, a tal punto pacifica che quasi non sembra fatta da uomini.

Giovanni il «primitivo» non è tuttavia un ingenuo, né si fa prendere eccessivamente dall’eccitazione di Anna Maria Ortese, che in questo racconto mischia l’estasi di un luogo differente con la folgorazione della scoperta di Dio. Il fratello ricopre qui la funzione di protettore di questo cambio di situazione, nonché di continua esortazione alla preghiera.

«Buonanotte!» mi disse Giovanni con semplicità, spolverandosi un ginocchio. […]

«Hai sonno?»

«Sì. Vai pure tu a dormire».

«Tenterò. Ma lo sai che non riesco facilmente».

«Vedrai… A proposito: se sentissi fischi o altro, intendo qualcosa di “anormale”: sei colpetti, tre forti tre deboli, alla parete – e avvertimi, sai. Sarò in piedi in un baleno» mi propose con un affettuoso sorriso, girando leggermente il capo.

«Non dubitare».43

42 Anna Maria Ortese, La vita primitiva, in Angelici dolori…, cit., p. 111. 43 Ivi, p. 113.

129 Non ci vuol molto a capire come in quei «sei colpetti» si nasconda il famoso numero da sempre associato al demonio. Giovanni, vero e proprio angelo custode di Anna Maria, che ha perfino portato con sé un fucile che caricava a pietre, vuole assicurarsi che niente di anormale, di diabolico, posso infestare la notte della sorella.

Ma nessun pericolo turberà quella prima notte da primitivi, che sembra tanto avere qualcosa di iniziatico, di battesimale in senso ampio, e insieme di autenticamente cristiano. Anna Maria Ortese lo spiega sempre attraverso cambiamenti cromatici, di colori che in tutta la sua opera saranno essenziali, continui veicoli di significato e di attenzione peculiare nei confronti di determinati temi.

Ci siamo appena soffermati sulla scena in cui Giovanni dà la buonanotte alla sorella. Subito dopo, Anna Maria Ortese scrive:

Lo avevo accompagnato nella sua stanzetta, alla stuoia che fungeva da letto. Si coricò, e con premura io gli rincalzai dietro le spalle la coperta orlata d’oro, perché non prendesse il raffreddore, ché in Europa ne soffriva di frequente. Stetti poi qualche tempo curva, e con la candela alzata nel pugno, a osservarlo, tutto com’era schiarito dalla fiamma nella nuca e nei calcagni, d’un bel rosa tra le pieghe doppie de la coperta.44

Non sono rare le raffigurazioni di San Giovanni Battista accompagnato da un manto rosso bordato d’oro; così come d’oro può essere a volte l’agnello, altro attributo che lo accompagna, e naturalmente la croce.

44 Ibidem.

130 Nella scena sopra riportata è come se fosse in atto una mutazione. Di Giovanni Ortese, allo stesso modo del Battista, non si vuole più sottolineare l’aspetto doloroso, ovvero la decapitazione cui dovette andare incontro in nome di Cristo, segnalata dal rosso del mantello. Anna Maria Ortese comincia qui a puntare il dito su un’altra tinta, quell’oro che appunto orla la coperta, e che viene ulteriormente intensificato dalla luce della fiamma, che colpisce la nuca e i calcagni: come nella migliore tradizione delle raffigurazioni dei Santi, in cui le figure appaiono spesso scalze, coi calcagni in forte evidenza, e col volto ovviamente in rilievo, anche in questo caso la candela che regge Anna Maria Ortese, chiaro collegamento alla luce di Dio, sottolinea quelle specifiche zone del corpo.

Ma c’è ancora un’altra scena, di inequivocabile ispirazione cristiana, e che è necessario riportare integralmente:

«Ammira!»

La voce di Giovanni mi sonò alle spalle.

Ero, ancora tutt’avvolta nella bianca coperta, uscita sulla soglia della capanna, e consideravo commossa la luce del Sole, che arrossava il profilo più alto della roccia, e accendeva di fugaci baleni le prime onde dell’Oceano. Una pace soave, un riso segreto, già confortavano i punti dolorosi dell’anima.

«Se si va dall’altra parte si vede meglio» risposi. E corsi, avvolta sempre nella coperta bianca che sventolava tutta, e spesso abbattendomi in essa, e rialzandomi veloce, corsi verso la spiaggia.

Il freddo dell’acqua, investendomi, mi deliziava. […] «Vieni, vieni!» gridavo a Giovanni. «Da questa parte».

131 Mi seguì di corsa, anche lui avvolto fino ai piedi della coperta

orlata d’oro, la quale a lui cascava su un fianco scoprendogli al sole le spalle colore di rosa.

«Bello, bello!» esclamava Giovanni, rialzandosi anch’egli velocemente dalle cadute. «Perdio, Anna!»

Era come se lo avessi inventato io, quel posto. Sorridevo inebriata.

Da uno squarcio potente nella roccia, scorgevamo ora distintamente un triangolo d’immensa pianura azzurra, e, abbagliante su questa, librato a mezzo volo, sgocciolante di limpido oro, il Sole. Una barca con la vela rossa, un cervo che, dipinto ivi rozzamente, si levava sulle zampe posteriori, passava in quel punto nella scia gialla, la quale andava tremando ineffabilmente fino ai nostri piedi. Pareva volesse parlare.

«È tutt’oro! tutto!» proruppi osservando festosa il viso e le mani di Giovanni. Anche le mie braccia erano d’oro, e i capelli che la brezza mi portava sugli occhi, e la coperta che mi ero gioiosamente appuntata alla vita.

«Benediciamo Iddio!» disse Giovanni. E, di fronte al Sole, s’inginocchiò.

Nella luce mirabile, mille volte più mirabile di quella del tramonto; nella calma pura, animata, festevole, graziosa e grandiosa di quel mare, di quel cielo esotico, salì la sobria voce, adorna di qualche fuggevole pronunzia castigliana, del mio fratello Giovanni, benedicente Iddio.

«Sono soddisfatto» concluse Giovanni, segnandosi ampiamente col segno della croce.45

A mio avviso due cose colpiscono, più di altre, in quest’estratto.

La prima: scompare il rosso, indicativo del sangue e della morte (lo vediamo solo fugacemente all’orizzonte, attraverso la

132 vela della barca), e subentra definitivamente una colorazione dorata, simboleggiante il sole e ancora di più Dio, di fronte al quale Giovanni s’inchina; Anna Maria, avvolta all’inizio in una coperta bianca, farà più difficoltà a compiere quest’atto di sottomissione. La tinta che l’avvolge (ovvero il candore di quella coperta) è comunque benefica, pura, e la fa gravitare nell’orbita del fratello, nella previsione che lei stessa verrà coinvolta in quella nuova dimensione.

La seconda, e più importante: abbiamo parlato prima del valore iniziatico della scena precedente, ovvero dei due fratelli Ortese in contemplazione del nuovo mondo, a due passi dall’acqua dell’oceano: un’acqua battesimale, energetica, senziente e distributrice di benessere, se non addirittura di grazie, si ha quasi questa sensazione. Ebbene, in questa scena ulteriore i due Ortese compiono il passo successivo, non azzardato nella descrizione precedente e ora finalmente realizzato: l’immersione, assai significativa, in quell’acqua.

È davvero difficile non vedere in quest’atto, così apparentemente semplice e allo stesso tempo così lirico, un altro (e qui ancora più forte) rimando alla figura di San Giovanni Battista.

Ci può a questo punto venire in aiuto un particolare, collegato sempre al Santo e relativo precisamente alla sua nascita, avvenuta secondo i Vangeli il 24 giugno, esattamente sei mesi prima di quella di Cristo. La data è strettamente connessa con il solstizio d’estate, momento dell’anno in cui, secondo le antiche religioni, avverrebbe la fatidica unione fra sole e luna, ovvero tra fuoco e acqua.

133 Questo stesso senso di fuoco e acqua percorre similmente l’intera storia, senso intensificato da ciò che fuoco e acqua rappresentano per la religione cattolica: Spirito Santo e battesimo, sempre in direzione di quella «vita primitiva» che in questo racconto è presente fin dal titolo, intesa come ritorno alle origini, soprattutto dell’anima.

A questa scacchiera di notizie possiamo poi aggiungerne un’altra, relativa ancora una volta al Battista. Al Santo sono da sempre dedicate molte feste: una fra le più rappresentative è quella celebrata a Civitella Roveto, piccolo comune italiano in provincia dell’Aquila. Qui, fra il 23 e il 24 giugno, nella notte notoriamente considerata come la più magica dell’anno, si sviluppa un ciclo di feste collegate strettamente anche al solstizio d’estate, e quindi in definitiva al sole: come spiega Marco Fabbrini, «è in relazione al suo sorgere e culminare che si attua la concatenazione degli atti e delle pratiche della festa»46. Festa

dove è centrale l’elemento dell’acqua, esattamente del fiume Liri: presso le sue rive, gli abitanti del luogo si immergono, fra il 23 e il 24 giugno, sia di giorno che di notte, in ricordo del battesimo di Cristo nel Giordano e per ottenere aiuti e benedizioni.

Allo stesso modo il racconto di Anna Maria Ortese centralizza l’elemento dell’acqua, e insieme l’elemento del sole, che percorre quasi con violenza l’intera narrazione, ma non soltanto: anche il momento antecedente l’alba ha la sua valenza, prima che l’astro sorga; valenza propiziatoria e mistica, di rito preistorico e cristiano connesso al culto delle acque, così come la festa abruzzese dedicata a San Giovanni.

46 Marco Fabbrini, La notte di San Giovanni: etnografia di una festa popolare

134 Credo che l’arrivo più logico, dopo un tale ragionamento, sia la volontà di unire, da parte di Ortese, ovvero rappresentare insieme nuovo e vecchio mondo, la vecchia tradizione europea, specie religiosa, filtrata attraverso il fratello Giovanni nonché dalla figura di San Giovanni Battista, e la relativamente nuova America, alla quale non occorrerà molto tempo per adeguarsi ai costumi europei, pur salvaguardando sempre la propria autenticità. Un riverbero di una simile riflessione possiamo rintracciarlo poco prima dell’inizio dalla cena inaugurale in quel Paese straniero, quando l’autrice descrive la disposizione di alcuni oggetti all’interno della capanna, fra i quali risaltano, al termine dell’elenco, quasi scintillando, «un crocifisso nero alla parete, e un fucile medievale portati dall’Europa», gli stessi che «toccavano […] le più riposte corde del sentimento»47.

Senza troppa difficoltà, Ortese ci riporta a quel detto secondo cui l’America fu fatta da gente che teneva la Bibbia in una mano, e un fucile nell’altra. Tuttavia i due fratelli non useranno mai quell’arma, la cui presenza è sì decorativa ma pure rammemorativa del passato, passato, fatto di violenze e massacri, che la scrittrice non intende riproporre.

La scena del battesimo nelle acque dell’oceano ci indica dunque una strada diversa di conversione dei popoli, finanche dei popoli americani (non solo indigeni, Ortese parla anche ai contemporanei). Attraverso quell’intenzione e quell’atto, i fratelli possono così godere della

bellezza di questa vita da noi scelta, in verità unico scampo alla terribile e invadente Civiltà, la quale empiva il bel ciel d’Europa

135 di artificiali muggiti, e macchiava l’innocenza e lo splendore dei

popolari costumi.48

Il passato non è totalmente da rinnegare per Anna Maria Ortese: lei che veniva da una famiglia misera quanto innocente, da un gruppo di «poveri fratelli primitivi, gente nobile e randagia che sparirebbe ignorata dalla terra»49.

L’America – il suo mito, e il suo senso – serve allora