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Prima di passare a un’analisi approfondita dei testi di Anna di Maria Ortese, che porti alla luce i riferimenti riguardo una certa declinazione del concetto di natura (in maniera particolare del suo lato più autentico e genuino, simboleggiato dall’America precolombiana19), è bene rifarci ancora una volta alla biografia

19 Anna Maria Ortese tratterà il tema “America” sia in senso positivo che negativo, rifletterà sull’aspetto più puro rappresentato dai nativi e insieme sulla rivincita

55 dell’autrice. Il suo particolare senso del selvaggio, infatti, che fin da Angelici dolori si tramuta in un mito a tutti gli effetti, prende avvio da alcune consuetudini che faranno sempre parte della sua persona, ovvero di un’identità notoriamente refrattaria alla contaminazione – se ciò consiste nel sciupare la virtù propria e del mondo naturale che la riflette – e al contrario attratta dalla sincerità, anche brutale, di qualsiasi manifestazione dell’esistenza, dall’essere primitivi e cioè puri, anche barbaramente autentici, incorrotti.

Non sarà quindi certamente un caso che la scrittrice dedichi tanto tempo e tanta energia a un’attività come quella del camminare, e fin dalla prima adolescenza. Non sarà un semplice passatempo quel fuggire quotidianamente, sistematicamente, da casa, perdendosi fra i vicoli cittadini o godendo della libertà dei luoghi più aperti.

Curiosità, autonomia, attrazione verso la diversità, necessità d’indipendenza, quasi di autodeterminazione: sono questi i precoci stati d’animo che già caratterizzano la scrittrice, e che col tempo rimarranno invariati nel suo temperamento.

Al mattino (ci svegliavamo tutti all’alba), caffellatte. Poi, alle otto, quando il giorno schiariva un poco le tetre nuvole del porto, e la casa era vuota (tutti gli studenti nelle loro aule), qualche attività banale: ritagliare cartoni, disegnare, inchiodare o incollare. Ma spesso […] ero fuori, e me ne andavo di strada in strada, di colle in colle. Non avevo orari, nessuno me ne aveva imposti, non per liberalità, ma perché non veniva in mente, e

degli americani nell’era contemporanea. Vedremo come, nel corso delle pubblicazioni, la scrittrice darà spazio alla voce vendicatrice del nuovo continente, che da usurpato riveste ora il ruolo di usurpatore, da invaso si è trasformato in invasore, da attaccato è ora instancabile promotore dell’attacco.

56 così, tornando verso le tre o le quattro, andavo silenziosamente a

gettarmi sulla branda. Ci restavo poco: di nuovo, quando si accosta la notte, me ne uscivo, tornando però prima delle dieci, che si chiudeva il portone e le vie erano troppo silenziose.20

Viene in mente Virginia Woolf, quando candidamente afferma che per lei camminare equivale né più né meno che all’atto di fare romanzi. «Se ho voluto vivere è stato per emulare mio padre» afferma l’autrice di Mrs Dalloway, «per diventare forte come lui, scalare montagne, camminare ore e ore, scrivere»21.

Tornando ad Ortese, il passo sopra citato è tratto dal Porto di

Toledo, romanzo dichiaratamente autobiografico e che ripercorre

la vita dell’autrice insieme alla famiglia ormai trasferita a Napoli. Potrebbe quasi risultare bizzarro immaginare la scena: all’epoca Anna Maria Ortese è solo una ragazzina, vive in un contesto ancora profondamente maschilista, come poteva essere una città meridionale prima della seconda guerra mondiale; ciononostante si attarda fuori casa, non ha alcun genere d’impedimenti e vaga liberamente da un posto all’altro.

Leggiamo ancora:

Ogni tanto mi facevo tutta la città a piedi. I miei neanche se ne accorgevano. Tornavo la sera stanca, coi piedi doloranti.22

E in un’altra dichiarazione:

20 Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo, cit., p. 24.

21 Virginia Woolf in Nadia Fusini, Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia

Woolf, Mondadori, Milano 2009, p. 42.

57 Giravo tutta Napoli. Dal porto, a piazza Dante, all’Arenella,

scendevo le scalette del Petraio, facevo tutta via Caracciolo. Non prendevo mai un autobus, mai un tram.23

Più che una giovane donna, sembra di osservare un piccolo fuggiasco in movimento, quasi impossibilitato a fermarsi. Non c’è spazio per scuola, faccende domestiche, visite in chiesa o altro. Ortese in questo senso è già un incredibile outsider; vive nel suo tempo eppure ne è fuori, ne è esclusa o è lei che se ne vuole escludere; è incessantemente in cammino.

Verso cosa?

Sicuramente l’ingenuità potenziale che ogni evento, cosa e forma di vita può possedere: attestato d’innocenza che per Ortese significa bontà, mancanza di menzogna, indipendenza. Quel suo peregrinare da un lato all’altro di Napoli allora, e in seguito di altre città, il ritmo di un passo senza fretta ma senza sosta, per cercare una più profonda comunione con se stessa, un contatto col mondo naturale che dovesse divorziare dai momenti di socialità e quasi santificare la solitudine, tutto questo esprime primariamente il senso del selvaggio sviluppato da Ortese.

Anche Luca Clerici riflette su come l’importanza del passeggiare si leghi precocemente a un immaginario che pone fra i suoi capisaldi il mito americano24 (che per Ortese fa rima col

mito del selvaggio, ovverosia del puro) e si sofferma su alcune dichiarazioni rilasciate a Dacia Maraini.

Nelle sue parole svetta con insistenza il riferimento all’America, e si rimane quasi storditi quando ci si ricorda che la protagonista di quelle considerazioni non è la scrittrice affermata

23 Ibidem.

58 ma una giovanissima donna, la piccola Ortese metà africana e metà europea, che però viveva già fantasticando di altri continenti.

Dacia Maraini le chiede che tipo di bambina fosse e Anna Maria Ortese risponde:

Magra, silenziosa. Così almeno dicono gli altri. Perché io non ricordo nulla di me. […] Non ero espressiva, non capivo niente. A scuola ero sempre l’ultima. Detestavo la storia, fino al 1492. Amavo solo la geografia, l’antica America.25

E ancora:

Moralmente e intellettualmente non esistevo. Vivevo come un gatto. Ero una creatura inesistente […] Allora non avevo che sensazioni di sogno e di vaga ebbrezza. Amavo solo, non so perché (credo questione di colori) le due Americhe.26

Se nell’ultimo intervento Ortese sembra minimizzare, circa un tema che l’attraverserà dall’inizio alla fine della sua scrittura, attribuendo solo a un’attrazione visiva – «credo questione di colori» – la spiccata preferenza, nel primo caso c’è invece una chiara attestazione, un riferimento precisissimo che sa quasi di dichiarazione poetica.

Il 1492, data altamente simbolica della scoperta dell’America, diventa per Ortese uno spartiacque imprescindibile, argine che mette da una parte l’ignoto e dall’altro la rivelazione, l’estraneo e il finalmente conosciuto, il vecchio corrotto e il nuovissimo

25 Anna Maria Ortese, in Dacia Maraini, E tu chi eri?..., cit., p. 27. 26 Ibidem.

59 incontaminato: di una terra e di una cultura, ma anche di un’identità.

Più o meno inconsciamente, Ortese mette in relazione una scoperta territoriale e culturale con la scoperta di se stessa, del cosiddetto Sé junghiano. Azzerando i secoli che la separano da quell’evento, impara quasi ad indossarlo, simile a un fatto che la riguardi da vicino, come con l’appropriazione privata di un luogo, un rispecchiamento profondo.

«Vivevo come un gatto», abbiamo appena letto, «ero una creatura inesistente»: allo stesso modo del continente americano prima della scoperta, isolato e lontano, anch’esso inesistente ovvero non considerato, non facente parte della società e specie della percezione più ortodossa di questa. Similmente Ortese si taglia fuori, si esclude, si sente più vicina agli aborigeni che ai conquistadores, imparerà ben presto a relegarsi dentro pezzi di terra/patria natia che saranno via via sempre più angusti, e su quelli si abituerà a r-esistere.

Tutto ciò porterà, come nota Andrea Baldi, alla ricerca spasmodica di una “patria dell’anima”, ossia di uno stato di serenità creativa, prima che fisica, che non fosse minacciato da avversità economiche27: un obiettivo purtroppo disatteso, come sappiamo.

27 Cfr. Andrea Baldi, La meraviglia e il disincanto. Studi sulla narrativa breve di

Anna Maria Ortese, Loffredo, Napoli 2010, p. 45.

Sempre in questo testo, Baldi spiega come Ortese, via via che procedono le pubblicazioni, maturi un’ambizione precisa, e cioè il recupero «dell’“altra patria”, di là da venire». Ortese pensa a «una concordia tra gli esseri antecedente al male, esemplata forse su un patto immemoriale e protetta in un eliso ignaro di mutamenti. Il rifiuto della violenza imperante, dell’inevitabile offesa che l’individuo reca ai suoi simili, approda così al vagheggiamento di un altrove impregiudicato, a quell’utopia che salva dalla corruzione del tempo» (Ivi, p. 16).

60 Fin dall’esordio, la biografia ortesiana preconizza un destino

nomade, nel perseguimento febbrile di un equilibrio emotivo mai divenuto possesso stabile: una sofferenza che sembra iscritta nella sua mappa genetica […]28

E sarà proprio quel desiderio, mancato, insoddisfatto, ad acuire il senso di divorzio dalla maggioranza, che l’autrice avverte come proprio fin dall’infanzia; sarà proprio quella frustrazione ad esaltare la diversità, quasi ad accendere, a far luccicare la distanza dal mondo.

Ortese sente dunque, e precocissimamente, il bisogno di proteggersi da una simile dinamica, da una sorta di sindrome dell’invasione/conquista ma alla rovescia: questa acquista, nella sua interiorità, un significato non secondario, addirittura equiparabile alla visione di un nuovo continente.

C’è però un grande discrimine in un’operazione del genere. Invece di piegarsi a una presunta civilizzazione, coatta e dolorosa, a un’entrata a far parte del mondo conosciuto da scontare a caro prezzo, Ortese preferisce il nascondimento ulteriore: la duplicazione delle maschere, l’esercizio nell’oscurità, il silenzio.

Come vedremo in seguito, la scrittrice non accetterà mai compromessi, mai patteggiamenti con quell’umanità in cui spietatamente afferma di non confidare; e mai smetterà di rifugiarsi, di celarsi in quelle opere che proteggano la segretezza, l’incanto anche devastante della purezza, la protezione del lato più selvaggio, cioè sincero, della vita: in tutta la sua pienezza. Ortese dichiara che quella data, il 1492, ricopre per lei una grande importanza. E se è vero che essa rappresenta

61 disvelamento, risoluzione di un mistero, conoscenza e sfruttamento di una novità, è anche vero che la sensibilità ortesiana si concentra soprattutto sugli aspetti altri, i più nascosti, di tale esperienza. L’autrice è cioè influenzata dai veri protagonisti di quella scoperta, ovvero terra e nativi americani, insieme alle loro peripezie future. Il suo occhio cade sui conquistati piuttosto che su chi conquista, non esalta la magnificenza dell’impresa ma piuttosto il relativamente piccolo, inverosimile Eden rivelatosi alla fine del quindicesimo secolo, il punto di luce potente, così potente da sembrare oscuro, emerso in un certo momento dell’umanità e che diviene apprezzabile, per Ortese, non tanto per l’essere stato finalmente scoperto, falsamente illuminato, dai colonizzatori europei, ma per il segreto intimo che in sé racchiudeva (racchiude ancora), per la sua anima di distanza e alterità, per l’essenza forte e al contempo vulnerabilissima.

Ad Ortese interessa che quello stato primitivo sia stato portato alla luce, come attestazione di una pace primigenia ancora possibile sul martoriato mondo degli uomini, come dimostrazione di amicizia col pianeta, come miracolo fra e dei viventi; soprattutto le interessa che quella luce sia diversa da quella canonica, sia segreta e sia difficile, sia incomparabile, sia quasi irreale.

È sostanzialmente questa la chiave di lettura che dovremmo dare al senso e al mito del selvaggio, per come li percepirà e elaborerà Anna Maria Ortese; selvaggio che significherà, come avremo modo di analizzare, prevalentemente sguardo e studio del mondo naturale, adesione a meccanismi definibili non come disumani bensì non umani, o oltreumani, o veramente umani; e

62 acquisizione di un metodo – di vita e di conoscenza – che varrà da visione filosofica, non fredda dottrina ma modo di essere intensamente partecipato, e basato, senza alcuna ironia, sull’operato di fiori e fiamme, e insieme di pioggia e montagne, alberi, uccelli, cani, gatti, tigri, e via dicendo.

Non c’è miglior insegnante da cui imparare, se non dalla natura in senso stretto. Ortese arriverà a dire che la «libertà è un respiro», frase quasi sdolcinata e che potrebbe anche risultare retorica, se non fosse seguita dalla precisazione che

tutto il mondo respira, non solo l’uomo. Respirano le piante, gli animali. C’è ritmo (che è respiro) non solo per l’uomo. Le stagioni, il giorno, la notte sono respiro. Le maree sono un respiro. Tutto respira, e tutto ha il diritto di respirare. Questo respiro è universale, è il rollio inavvertibile e misterioso della vita. Se la libertà è prima di tutto un respiro, se è il respiro: sì, rispondo, c’è libertà per l’uomo. Ma è in questo modo, come cosa e diritto di tutti, che l’uomo intende la libertà? Non credo.29

Considerazioni che poco dopo s’intensificano, in un crescendo sempre più sdegnato:

Distruggere campi e foreste, mutare e pervertire il corso delle stagioni; procedere tranquillamente alla reclusione e al massacro di creature ogni giorno solo per nutrirsi di carne o per indossare pellicce; torturare liberamente, in liberi laboratori, milioni di esseri sensibili e ignoti quanto l’uomo, torturarli fino alla morte… tutto questo viene presentato come difesa del proprio respiro (o libertà) dell’uomo! […] Questa libertà non appartiene che a pochi, quest’aria non è di tutti! Sempre più buia la terra,

63 più soffocante il cielo, più povera la luce. Libertà, si dice. Non è

mentire, questo? Non è sopraffare? Si chieda, a chi si arroga tanto diritto, di chi – secondo lui – la Terra, di chi quei gioielli incomparabili che sono il mare, la luna, il verde dei monti, la gioia delle nubi, del vento; si chieda di chi il respiro universale, e a chi la libertà! Di chi la salute e pace della gente, di chi l’integrità e fiducia dei giovani di ogni paese! A chi ogni paese, e tutta la terra; di chi il Respiro! Oh, non per tutti, dirà. Si vorrebbe, ma non per tutti è possibile!30

Se prima sembrava di leggere Virginia Woolf, ora a riecheggiare è Verga e la celebre Libertà, ultima delle Novelle

Rusticane dedicata alla rivolta di Bronte del 1860.

«Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!»31, si

esclama qualche passo prima del finale, con un’enfasi che in parte riguarda Anna Maria Ortese, in parte verrà da quest’ultima superata ovvero moltiplicata, modificata come referente globale a cui tutta la Terra, non solo l’uomo, tende e deve tendere.

L’autrice compie l’atto successivo di spostare l’asse di quella libertà, non riservandola solo al campo prettamente umano bensì a quello dell’intero universo, specie del suo nucleo più inesplicabile: la natura nella sua stupefacente totalità e complessità, sulla quale Verga pure riflette ma non potenzia quanto Ortese.

All’autrice non basta difendere l’uomo e i suoi diritti civili, non le sarebbe bastato denunciare, come Verga, le vicende di un paesino alle falde dell’Etna, dove un gruppo di contadini, all’approssimarsi delle truppe garibaldine, travisando il proclama

30 Ivi, pp. 122-3.

31 Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle, a cura di Lorenzo Tinti, Rusconi, Milano 2016, p. 307.

64 di Marsala si sollevarono contro borghesi e possidenti, attuando un vero e proprio massacro.

Quale fu il risultato di una simile azione?

Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, una volta arrivato a Bronte fece immediatamente fucilare alcuni dei rivoltosi. I rimanenti furono invece processati e andarono incontro a gravi condanne.

Eppure il termine libertà sarà, all’interno del testo di entrambi gli autori, a dir poco martellante, nascerà in risposta a una situazione critica e, soprattutto, non riuscirà pragmaticamente a manifestarsi. La libertà sarà una parola, un’ideale, la disperata speranza della maggioranza, ma non una verifica empirica. Particolarmente vicino al sentire della scrittrice sarà il finale della novella:

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...32

Proprio come il passo poco sopra riportato di Anna Maria Ortese, anche quest’ultimo è di un’ironia altamente stridente, contiene il riferimento totalizzante alla terra, s’interroga sulla difficoltà estrema dell’essere liberi e di quanto l’uomo sia partecipe, o addirittura l’assoluto protagonista, del danno inflitto alla sua specie (e a tutte le altre, nel caso di Ortese).

La stessa autrice rifletterà su Verga, non nascondendo l’importanza che la sua opera riveste, ma con una restrizione:

32 Ivi, p. 310.

65 Verga è molto grande: ma egli pone l’orecchio anche sul vivere

naturale, non lascia da parte la natura, e ora già sentiamo quanto poco naturale sia la natura, e come tutto, natura e uomo, sia segreto e mutamento e tristezza. Verga non scorgeva, credo, il decadimento e il filare misterioso delle cose 33.

Mistero sarà, come avremo modo di spiegare, una parola chiave della poetica di Anna Maria Ortese, la quale, è ovvio, non poteva trovare in Verga un completo combaciamento. Il grande siciliano non possedeva una simile quanto originale visione mistica, non panteistica ma profondamente fondata sul sistema naturale; non coglieva il coefficiente di segreto insito in ogni manifestazione della vita; e soprattutto non aveva una prospettiva che andasse al di là del fatto concreto, che riguardasse il «filare misterioso delle cose».

È ancora una volta al mondo americano che dovremo rifarci, al suo immaginario di colonizzazione e di lotta contro quest’ultima, se vorremo comprendere davvero ciò che Ortese comunica. Dovremo però spostarci di qualche secolo, considerando non la colonizzazione inaugurata da Colombo ma quella degli stessi americani nei confronti dei popoli nativi.

In modo particolare, risulteranno davvero illuminanti alcune dichiarazioni del grande capo Seattle della tribù dei Dwamish, pronunciate nel 1854 in seguito alla proposta del cosiddetto “grande capo bianco” di Washington, ovvero l’allora presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, di acquistare una parte del territorio indiano con la promessa di istituire una riserva per i pellerossa.

66 Dirà Seattle:

Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria, lo scintillio dell’acqua sotto il sole come è che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra è sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura, ogni ronzio di insetti è sacro nel ricordo e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che cola negli alberi porta con sé il ricordo dell’uomo rosso. Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono i nostri fratelli, il cavallo, la grande aquila sono i nostri fratelli, la cresta rocciosa, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia. Quest’acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non è solamente acqua, per noi è qualcosa di immensamente significativo: è il sangue dei nostri padri. I fiumi sono nostri fratelli, ci dissetano quando abbiamo sete. I fiumi sostengono le nostre canoe, sfamano i nostri figli. Se vi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordarvi, e insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovrete dimostrare per i fiumi lo stesso affetto che dimostrerete ad un fratello.34

Siamo incredibilmente vicini alla sensibilità ortesiana, la stessa che le farà affermare che

La libertà è del Denaro. La Vita è del Denaro! Lo spazio è del Denaro! L’esenzione dal martirio – o soffocazione – è del

34Il celebre discorso del capo Seattle è riportato in un numero eccezionalmente vasto di pubblicazioni, vecchie e recenti, cartacee e online. Segnalo qui di seguito il mio riferimento: Romano Toppan, Essere leader al tempo di Dio, ME Publisher, Venezia 2015, p. 34.

67 Denaro. E per quanto strana e sempre dolorosa mi appaia la

collocazione di ogni vita, o anima, nell’essere, questa aggiunta al suo limite mi appare la più dolorosa. Non posso capirla! Quando l’ultima libertà della Terra e dei suoi figli meno forti potrà essere comprata – com’è effettivamente comprata e ridotta a un’agonia, e distrutta –, allora il concetto di libertà che ne esce è deturpato e sconvolto.35

Così come al capo Seattle la proposta del presidente degli Stati Uniti risultava bizzarra («L’idea ci sembra strana»), l’istinto di