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Quando scrissi “Toledo”, e per molto tempo dopo, amavo questo libro, lo consideravo il mio più caro e fondamentale. Poco alla volta, sono stata svegliata: il libro era cosa illeggibile, e io – dopo tanti beati anni d’illusione – non ero più nulla. “Toledo”, insomma, è stata l’esperienza letteraria umiliante, l’esame – la prova d’esame – in cui sono caduta. Se, dopo, qualcuno ha cercato di rivalutare altri miei libri – “Toledo” mai – questo non ha cambiato le cose. E dopo quel libro – per il gran silenzio e spesso il compatimento avvertito intorno – io non sono stata più la stessa, e ho conosciuto una lunga-lunga depressione. E come, se dopo una giornata piena di dispiaceri, ci si addormenta, e poi ci si sveglia che è sera, e il giorno non riserva più nulla: così, con tanta ombra nel cuore ho vissuto. E a quel libro, sempre alle mie spalle come un reato, ho cercato – cerco – di non pensare più.1

Scrive così Anna Maria Ortese, in una lettera datata 21 marzo 1990 e indirizzata all’amico Franz Haas. La scrittrice si trovava allora a Rapallo, luogo che simboleggiò il suo ritiro finale dal mondo, il rifugio ultimo che segnò il suo esilio definitivo dalla vita, mondana e non.

1 Anna Maria Ortese, in Franz Haas, ‘Un solo libro ho scritto’. La Ortese e Il porto

184 Dopo la sollecitazione del suo estimatore e amico, Ortese ha modo di ritornare più volte sul tema di Toledo, e sempre sottolineando la parola «errore – irrimediabile errore»2.

… scrissi un libro ‘travestito’ da qualcosa che io non ero, e vinsi lo Strega. Ne scrissi un altro, del tutto mio, Toledo, e fu sempre, e anche ora, profondamente ignorato. Cominciò di là, nel ’75, il mio tempo più desolato.3

In quella che potremmo definire l’autobiografia spirituale di Anna Maria Ortese, ovvero il suo scritto più autentico e forse per questo più intricato, oggetto di una lingua continuamente trasfigurata e di ardua lettura, assistiamo quasi a un contrappasso. È Ortese stessa, con amara ironia, a ribadirlo chiaramente. Con

Poveri e semplici, testo «travestito», che non la rappresenta fino

in fondo e lontano dal suo stile più puro, la scrittrice vince la più famosa competizione letteraria italiana. Con la pubblicazione di ciò che più le sta a cuore, invece, appunto Il porto di Toledo, tutto tace, e fino alla fine della sua vita tutto continuerà a farle credere di aver commesso uno sbaglio imperdonabile. Se c’era una predisposizione all’isolamento in Anna Maria Ortese, certamente Il porto di Toledo ne sancì la consacrazione.

Ma tenga presente che, qui in Italia, il mio caso è chiuso, o archiviato, da tempo. Anzi, proprio il caso TOLEDO. […] Insomma, mi si accetta – anche in tante tesi di laurea, anche dalla Francia – ma TOLEDO resta un imperdonabile e oscuro peccato letterario e morale per tutti. Credo che entri in questa condanna l’ancestrale terrore di qualche cosa che la donna non

2 Ivi, p. 85. 3 Ivi, p. 86.

185 deve esprimere: se la parità (interiore) con l’uomo, o la sua non

appartenenza al luogo comune, non so. Ma temo che TOLEDO fu proprio un romanzo trasgressivo per le stesse femministe: dichiararono infatti, nel ’75, che bisognava toglierlo dalle loro librerie. E lo tolsero. Figuriamoci gli altri. […]

Dovunque, ho sentito qualcosa di simile al sospetto e al disagio. Ma di che? Per questo io non sono stata più orgogliosa – come lo ero fino al ’75. È perché sono diventata invisibile – su quel solo punto – e inutilmente ho cercato di capirne il perché. Solo Pasolini – che non avevo mai visto – mi fu fratello: subito ripreso – irriso – dal più orgoglioso e forse sensibile Raboni.4

Parole confessate ancora una volta a Franz Haas, in una lettera sempre del ’90, a cui ne fa seguito un’altra, in cui Ortese torna, quasi sadicamente, senza soste e senza rimozione del dolore, a riflettere sul medesimo punto.

Lei dà importanza a un libro (TOLEDO) di cui nessuno, da quindici anni, si ricorda, o se ne ricorda con irritazione e confusione. Un libro che è ritenuto tutto sbagliato e inaccettabile, e di cui si accenna con discrezione e prudenza per non offendermi, per non soffermarsi su un mio fallimento. Mi vogliono bene: ma quel libro no, va dimenticato. L’impostazione del Suo articolo fa di quel libro la quasi unica ‘assoluzione’ per una vita piena di errori e senza fortuna. Disgraziatamente proprio quel libro rappresenta per il gusto italiano – e per il suo ‘pensiero critico’ – il punto peggiore della mia scrittura e la mia vita. La storia della mia vita è precipitata proprio su quel libro, e il distacco tra me e i miei lettori (e anche editori) – distacco pieno di amarezza – comincia da lì.5

4 Ivi, p. 88.

186 E proseguendo:

In ottobre e novembre ’75, i settimanali pubblicando i costosi inserti pubblicitari – a colori – molto lussuosi – dei libri Rizzoli di tutto l’anno ’75 – non mancarono un autore e un titolo della Rizzoli. Solo Ortese e Toledo non c’erano. Chiesi una spiegazione. Risposero: una distrazione. Allora capii tutto. Per me: fu tolto di mezzo.6

Il porto di Toledo costituisce dunque un doloroso spartiacque nella vita della scrittrice. Con questo volume, Ortese dà alle stampe la sua pubblicazione più autentica, il suo testamento più puro; è un po’ ciò che rappresentò Menzogna e sortilegio per Elsa Morante, che per quest’ultima voleva essere «l’ultimo romanzo possibile, l’ultimo romanzo della terra e naturalmente il mio ultimo romanzo»7; allo stesso modo Il porto di Toledo

possiede qualcosa di estremo, di potentemente verginale e sincero: la volontà di inserire, pur nella trasfigurazione e finzione della storia, la maggior parte della propria intimità, della propria vita e del proprio sogno.

Il risvolto della medaglia di un tale atto è che, diversamente da

Morante, nel caso di Ortese non ci fu vera ricezione, non ci furono applausi né successo. Solo qualche rara voce, che venne subito messa a tacere. Una dinamica simile sembra seguire amaramente, perfettamente, il destino infelice di Anna Maria Ortese, che nel momento in cui rivela se stessa nella forma più compiuta vede serrarsi le porte della comprensione, al coraggio più forte di mettersi del tutto a nudo fa eco un panorama di

6 Ivi, p. 89.

7 Dichiarazione di Elsa Morante tratta da un’intervista a Michel David, uscita su «Le Monde» e datata 13 aprile 1968 (reperibile anche all’interno della Cronologia delle Opere, a cura di Cesare Garboli e Carlo Cecchi, Mondadori, Milano 1988, vol. I, p. LVII).

187 creature che rimangono mute. Se già Anna Maria Ortese doveva nutrire qualche dubbio sull’attenzione e intelligenza umane, dopo la grave indifferenza rivolta a Il porto di Toledo l’autrice non ha più dubbi.

L’immagine-simbolo dell’indiano d’America, all’interno di uno scenario simile, si rafforza con ancora più convinzione. Anna Maria Ortese non è solo straniera/estraniata da se stessa per via di una certa predisposizione, che l’accompagna fatalmente sia per una sua inclinazione sia per le angosciose vicende familiari; Anna Maria Ortese è quell’Anna Maria Ortese, forse l’animale più solitario della letteratura italiana, bestia ferita da una malinconia millenaria, quasi un fossile archeologico che rivive grazie al dolore del mondo, Anna Maria è quell’Anna Maria Ortese, dicevamo, anche a causa degli altri.

Nella prima parte di questo capitolo, ricorderemo, ci siamo soffermati sul saggio di Todorov intitolato La conquista

dell’America. Il problema dell’«altro», dove quell’ultima parola,

così importante e tuttavia così incompresa, densa e problematica, è messa tra virgolette. Si tratta di un fatto calzante anche per Ortese stessa, che soprattutto col Porto di Toledo viene messa tra parentesi: sospesa, oscillante in un luogo senza venti, in bilico su un perenne incontro mancato fra il sé e gli altri.

Quell’«altro» però, per Anna Maria Ortese, non è un problema. È sì problematico, ma è connesso al costante desiderio di comunicazione, di scambio reale e fruttuoso, di continui tentativi. Allo stesso modo degli indiani d’America, che ieri come oggi non si stancano di instaurare dialoghi con vecchi e nuovi governanti, e nella pazienza e nella temperanza hanno sempre mostrato la loro forza più grande, così Anna Maria Ortese, pur

188 nello sconforto e nella disillusione, ha sperato fino alla fine che

Toledo, il suo canto più sincero, venisse colto per quello che è.

Alla fine del 1993, ecco spuntare una speranza per un’edizione italiana di Toledo, la promessa di una ristampa da parte della ‘Casa’ Adelphi:

In primavera pubblicherà Il mare non bagna Napoli – che a me non va più – e a fine ’94, forse, Toledo – che sarà libero da

Rizzoli. (15 dicembre 1993)

Il libro non sarà pubblicato così presto. Ma mentre passano gli anni, non si dissolve negli occhi della Ortese il miraggio della ricomparsa di Toledo in Italia. A maggio del 1995 chiudeva una lettera salutandomi una volta di più ‘con gratitudine per la Sua generosità di lettore (ricordo Toledo)’ (14 maggio 1995). Nel marzo del 1996, a Milano, dove lavorava alla stesura e rifinitura del romanzo Alonso e i visionari, pensava sempre e ancora a Toledo. Passava altro tempo, passavano altri dolori: ricevetti sue sensibilissime righe alla morte di mio padre, la cui vita – scriveva – ‘sembra chiusa’ (8 ottobre 1996). La Ortese era ormai molto stanca e malata, ma voleva veder rinascere Toledo a qualunque costo, anche a costo della salute. Era una corsa contro il tempo – anche la calligrafia era sempre più malferma – quando da Rapallo mi scriveva:

Sto correggendo le bozze di Toledo. Era stabilito che uscisse in febbraio (Adelphi) – ma sono in grande ritardo, non credo ce la farò a mantenere l’impegno. […] E così, Toledo, se esce, è perché solo Lei, Franz Haas, mi ha detto una volta che era un buon libro. Nessun altro, o non così. (16 dicembre 1997)8

189 È sempre dalla testimonianza di Franz Haas che stiamo attingendo, che ci guida attraverso l’itinerario non facile delle pubblicazioni di Ortese. Nel ’93 la nuova casa editrice Adelphi decide di ridare alle stampe alcune passate pubblicazioni dell’autrice, fra cui anche Il porto di Toledo, che vedrà tuttavia la luce, per una seconda volta, solo nel ’98, pochi giorni dopo la morte della scrittrice, all’epoca stanca e ammalata, esausta e provatissima, ma attaccata ancora con tutte le sue forze a quel libro: «la pubblicazione potrebbe slittare a marzo se non in ottobre. Per me, questa pubblicazione, ora, è vitale. Vivo per questo».9

Come per un sinistro colpo del destino, l’ennesimo, Ortese non vide la sperata ristampa di Toledo. Visse però quegli ultimissimi giorni in attesa di essa, augurandosi non tanto di ricevere il meritato successo, ma, credo fortemente, di vedere che il suo sforzo più grande riuscisse a infrangere quel vero e proprio carcere, la gabbia dell’isolamento in cui troppo spesso lei visse, e scrisse.

Questo scontro, questa particolare lotta tra Davide e Golia, verrà vinta solo alla fine, poco dopo la morte dell’indiana Ortese, evento a cui la ristampa di Toledo va quasi misticamente a sommarsi, e che se liberò la scrittrice da quella riserva, metaforica quanto concreta, la consegnò pure a un’esaltante percorso di riscoperta.

9 Ivi, p. 92.

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