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Le Piccole Persone è cronologicamente l’ultima pubblicazione

di Anna Maria Ortese. Dato alle stampe nel 2016, il volume, curato da Angela Borghesi, raccoglie e ordina i numerosi interventi della scrittrice a sostegno dei diritti degli animali, e non solo. Sarebbe infatti più opportuno parlare di diritti della natura, di quella fragile quanto turbolenta madre Terra, quella Madre Vita, secondo le più puntuali e affascinanti parole di Ortese, che ha sempre fatto parte della sua poetica: quell’essere tremendo e insieme spettacolare, nel bene e nel male dei suoi effetti su tutti i viventi, non solo umani, il pianeta sul quale viviamo, colto in questo caso nella sua ineffabilità eppure nella necessità di essere di continuo interrogato, si riverbera sull’intera produzione della scrittrice, e filosoficamente e scientificamente. Con un senso estremo di potenza, e mistero, esso s’impone con forza sulla pagina ortesiana, sempre a metà strada fra percezione del dolore e dovere all’innocenza, sondaggio dell’imperscrutabile e memoria delle giustizie passate.

In questo capitolo vedremo quanto questo tema si approfondirà e stratificherà, man mano che la visione del mondo di Ortese virerà verso una determinata direzione, e sempre intendendo il legame naturale come declinazione del concetto di isolamento, autoreclusione angosciosa ma benefica, straniamento favorevole in quanto fuga da un panorama cittadino che solo fittiziamente è

42 evoluto, e proprio per questo risulterà insostenibile agli occhi – e soprattutto al cuore – dell’autrice de L’Iguana.

Il corpus di questi testi, alcuni dei quali furono anche pubblicati dai giornali dell’epoca, ci fa vedere come la riflessione ortesiana sul tema non abbia mai subito arresti. Fin dal 1940, col piccolo intervento intitolato Gli amici senza parole1, dedicato a

cani e uccellini e di poco successivo alla pubblicazione di

Angelici dolori, fin da allora le glosse a margine, potremmo così

definirle, dell’investigazione di Ortese sul ruolo dell’uomo nella natura, e della natura nel più ampio sistema solare, hanno irrobustito una scrittura che solo apparentemente può essere definita fantastica, ossia di pura divagazione, largamente sganciata dalla realtà e da ciò che essa, anche narrativamente, impone.

Il tentativo di Ortese anzi, pur nel funambolismo allucinatorio della narrativa così come della poesia, nella prosa militante dei pezzi giornalistici allo stesso modo dei più lunghi reportage di viaggio, è sempre quello di non sganciarsi da un concetto chiave della sua vita, e dunque, conseguentemente, della sua opera: l’intento morale.

Nel dire «coscienza profonda» cerco inutilmente una spiegazione razionale a quanto voglio dire. È che questa spiegazione, per ora, non c’è, e si presume non debba esservi. Se l’umanità fosse ancora ardita, potremmo chiamarla questione di fede. Una coscienza profonda esiste, è sempre esistita, e ne fa fede tutto quanto resta – e può rinascere – di veramente assoluto nell’umanità: la sua bellezza morale.2

1 Anna Maria Ortese, Gli amici senza parole, in Le Piccole Persone…, cit., pp. 75-9. 2 Ivi, p. 23.

43 Ortese giunge a simili considerazioni dopo un discorso a monte su libertà e potere, e prima ancora sulla cultura che dovrebbe sostenere l’uomo nel suo rapporto con la Terra; rapporto, quest’ultimo, registrato dall’autrice come di orrendo sfruttamento, mai di collaborazione armonica e fruttuosa. Il favoloso ritmo dei tempi antichi, fatto di rispetto e di senso dell’attesa, d’immaginazione in senso ampio e di autenticità di rapporti fra le persone, persino fra gli oggetti, sembra essersi esaurito. Nulla forse può salvare l’umanità dal baratro, per Ortese, se non il continuare ad offrire testimonianze di ciò che è stato, positivamente parlando: che vuol dire in primo luogo offrire esempi di bontà e dolcezza, poi investigare sul buono che rimane e portarlo alla luce, infine non stancarsi di credere nella pace anche durante la guerra, soprattutto durante la guerra. Guerra che la scrittrice identifica sostanzialmente con l’uomo e il suo egoismo, oggi più che mai codardo e difatti scagliato su ciò che non può razionalmente difendersi: la natura, che nella sua maestosità è pur sempre delicatissima, niente affatto eterna e a rischio distruzione almeno quanto la razza umana.

Quell’intento morale di cui parlavamo, allora, è agganciato a un referente molto concreto: la terra, in senso fisico e metaforico, nel suo significato di suolo coltivabile e di casa delle creature. L’equazione è quasi scontata per Anna Maria Ortese, velocissima e sempre operante, e a tal punto lavorerà nei suoi scritti che diventerà una vera e propria costante, della quale non sarà possibile affrancarsi se si vuole cogliere ciò che con più forza Ortese voleva comprendere, e far comprendere.

44 Il punto di partenza, anche per i successivi capitoli, sarà l’esigenza ortesiana non tanto della chiarezza, il cui intimo desiderio è comunque percepibile, ma piuttosto della sincerità quotidiana e della verità da applicare ad ogni occasione della vita. In un mondo, quale quello moderno, a tal punto strutturato e ambiguo, non raramente fasullo e marcio, fin nel profondo delle sue intenzioni, ecco che solo nella natura e nei suoi viventi più onesti, gli amati animali, Ortese poteva trovare il suo pubblico, segreto quanto oscuramente comunicante, nonché il modello migliore da cui trarre esempi.

Senza sovrastrutture, non artefatti e privi di menzogna, giusti anche nel momento della brutalità, gli animali e i loro habitat possiedono i requisiti più invidiabili, secondo Anna Maria Ortese, a cui tutti dovremmo aspirare: primo fra tutti l’essere semplici, che vuole dire essere non mendaci e dunque disperatamente veri.

La sincerità come rapporto col massimamente essenziale: è questo ciò che conta di più per l’autrice; e la semplicità, ovviamente, come conseguenza naturale (e nel suo caso anche letteraria, sebbene non stilistica) di questo atteggiamento.

Come vedremo, anche i concetti più alti espressi nei suoi testi, perfino le vette più filosofiche raggiunte dalla sua investigazione, partono dagli elementi primari della vita e a quelli ritornano. Ad Ortese interessano i fatti basilari, primordiali dovremmo dire, perché da quelli cresce e si diversifica ogni ulteriore stratificazione. «La semplicità è una complessità risolta» potremmo dire, parafrasando il celebre scultore Constantin Brâncuși; e per Ortese varrà lo stesso motto ma con una maggiore, se non quasi totale, enfasi spirituale.

45 Ritornare a percorrere il cammino che conduce alla radice, in questo senso alla natura, profondissima, di tutte le cose, vuol dire anche tornare a sperare in tempi migliori, in un diverso e più consapevole contatto fra il cielo e la terra, fra l’uomo e gli altri viventi; e, asterisco non secondario, fra tutto ciò che abbiamo appena elencato e la sommità più emozionante e bella cui si possa giungere: la morale, di cui ci occuperemo meglio in seguito.

Qui basti aggiungere che anche in questo caso Ortese non cerca il difficile, al contrario ricorre a metodi spiccioli3,

preferisce l’accessibile a tutti per non nascondere a nessuno un’esistenza migliore, o per lo meno la speranza in quest’ultima, la consapevolezza che essa è esistita e potenzialmente, uomini permettendo, ancora potrebbe esistere.

Come?

No di certo rifiutando il posto in cui viviamo, il suo peso e la sua tortuosità quasi annichilente, la sua mutevolezza, il suo destino a perire. Mai però, ed è proprio qui lo scarto, allontanarsi da ciò da cui tutto è nato: per alcuni può essere Dio, per Ortese a

3 «Il dolore che do (anche a un cane), e di cui mi compiaccio, mi ritornerà come un boomerang, esattissimamente, sul volto. Quindi non recare dolore, mai, nemmeno a una pietra […], e comunque mai compiacersene. Avvertire tutti che la vita è una: e dove batti prova dolore, ma chi dà il dolore poi lo vede tornare indietro.

Ora di morale, nelle scuole? Oppure ora di religione? Non importa il nome. Ma un’ora è necessaria. Dedicata ai ragazzi per insegnare loro la cosa più importante del mondo, e che la civiltà e il denaro credono di aver vinto: il tempo passa comunque, e manda a casa, alla fine, i suoi conti. Ciò che hai fatto non si perde nello spazio. Male e bene li riavrai a casa, anche tu, fanatico della morte comoda (l’altrui): li riavrai puntualmente» (Ivi, pp. 71-2).

Ortese risolve quindi il problema in modo un abbastanza pratico: prima fornendo un esempio fra i più semplici, e cioè il danneggiare anche senza volerlo un cane, e poi arrivando a proporre di insegnare morale ai ragazzi, come fosse un vero e proprio catechismo. Non è un caso che simili concetti – natura, male, morale, religione –, siano intrecciati l’uno con l’altro, come esamineremo più dettagliatamente nelle prossime pagine.

46 livello inconscio forse è Dio ma pubblicamente, nelle sue dichiarazioni più note, è sempre la Terra e tutto ciò che di più puro – dunque di semplice, e di conseguenza dimenticato – essa accoglie, incluso quello «spirito unitario della vita terrestre»4 di cui la «“presenza” dello spirito dell’uomo»5 fa parte, e al quale, faticosamente, la scrittrice vuole continuare a credere.