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155 Sempre nell’ambito della narrativa breve, altro titolo assai significativo è L’alone grigio. Risalente al 1969, il racconto, che diede anche il nome alla raccolta, costituisce uno degli apici della letteratura ortesiana, secondo alcuni addirittura «una delle sue più inquietanti novelle»1.

All’improvviso, nel mondo cominciano a presentarsi fenomeni atmosferici particolarmente violenti: piogge prolungate, mareggiate intense, eruzioni vulcaniche sparse per il pianeta. Eppure la natura sembra non danneggiarsi, acquistando anzi una smagliante e misteriosa brillantezza, una bellezza conturbante data uno strano riflesso che circonda il sole, «un breve alone grigio intorno al fulgido disco»2.

In breve cominciano anche a ricomparire i morti, prima in piccole unità, poi sempre con maggiore frequenza.

Stupiva il numero immenso di gente che tornava, e stupiva ancor più il sentimento affettuoso, di normale piacere e gioia, con cui era accolta. Si aggiungeva a questi ritorni, un altro fatto sottilmente terrificante: le partenze erano cessate. I malati e i vecchi non se ne andavano più. Tutte le partenze erano sospese, cessate.3

1 Giancarlo Borri, Invito alla lettura di Anna Maria Ortese, cit., p. 49. 2 Anna Maria Ortese, L’alone grigio, in Angelici dolori…, cit., p. 267. 3 Ivi, p. 269.

156 Ritornano, da questo «mondo delle ombre»4, perfino i genitori della protagonista, Giulia, altero ego dell’autrice; genitori ai quali non ha l’animo di chiedere nulla.

Diedi ad essi la stanza in fondo al corridoio, e mi era caro, la notte, se mi svegliavo un po’ inquieta, pensare ch’erano là. In quel tempo, tenevo con me in camera una Bibbia, e ogni tanto, quando quel pensiero fisso, ormai, mi ossessionava, l’aprivo e cercavo un po’ di conforto: forse era un errore, forse le cose non erano così gravi.

La sera, i miei sostavano un po’ davanti al televisore, come fanciulli, nella cameretta in penombra. Servivo la cena, ma come bambini se ne dimenticavano. E scoprivo sempre, tra loro, occhiaie timide, allusive, come di gente che sa, è al corrente di altre cose.5

La regressione umana qui descritta scavalca anche i confini della vita, e della morte, presentandosi inoltre come funzionale al trattamento di un tema che è una costante per Anna Maria Ortese: il ritorno alle origini, il ritorno – in questo particolare caso – all’infanzia intesa come momento primitivo dell’essere, basico e totalizzante, e insieme minimo e fragilissimo. Sono gli stessi dati che Ortese associa alla carta d’identità dei nativi: innocenti, eternamente fanciulli, indifesi, ma possessori di una sapienza infinitamente ricca, pura e ineffabile: proprio come quella dei genitori dell’autrice, che non fanno parola.

L’esplicitazione del rimando americano non tarderà ad arrivare:

4 Ivi, p. 268.

157 Verso la fine di luglio le alluvioni, le frane, le eruzioni

avevano ormai bloccato mezza terra, la luce era erogata solo in alcune zone dell’Europa centrale, Inghilterra e Francia al buio, Belgio e Olanda con sole candele, in America, in pieno giorno, si presentò un’aurora boreale, che illuminò tutto quell’immenso continente, dal Canada alla Virginia. A Washington, la Casa Bianca era sfarzosamente illuminata da torce: il presidente assassinato era tornato, in una carrozza chiusa che era rimasta tutta notte davanti al giardino, e si diceva che in quella carrozza era anche Lincoln.

La nostra televisione (funzionante ad aria) ci diede un’immagine di un’intensità incredibile, malgrado le righe e il tremolio continuo. K. aveva gli occhi pieni di lacrime, e una mano alzata a coprire la nuca, come se ancora gli facesse male. Gridava qualcosa, tra le lacrime, guardando tutti con un’espressione interrogante, amabile, terribile. Poi, non vi fu che folla, immensa marea di teste. Passavano dei cantanti, delle bandiere. La carrozza di Lincoln fu infiorata… Ma Lincoln non uscì, o, forse, non lo vedemmo.6

E subito dopo

Il secondo giorno dopo questo fatto, lo schermo inquadrò turbe d’indigeni a cavallo. L’America ne era coperta. Urlavano vittoriosi. Molti scendevano da cavallo e s’inginocchiavano commossi, toccando più volte, con la fronte, il suolo della patria amata. Le città andavano scomparendo sotto la furia delle maree: solo a New York, l’acqua era alta decine e decine di torbidi metri verdi e bianchi, praticamente N.Y. non esisteva più. Il terzo giorno, l’Oceano fu pieno di legni dall’aspetto cadenti, grigi, come palazzi disabitati; e non erano disabitati: gli

6 Ivi, pp. 269-70.

158 spagnoli di Diaz, gli inglesi di Enrico, gli Olandesi, i Genovesi,

tutti ritornavano.7

Ortese immagina dunque che perfino il presidente Kennedy (timidamente, riverentemente chiamato K.) ritorni dal mondo dei morti, e insieme a lui Lincoln, che tuttavia non si fa vedere. Non è una citazione casuale quella della scrittrice, soprattutto nel caso di Kennedy, il quale ebbe sempre un occhio di riguardo nei confronti dei nativi.

La questione più urgente, nel periodo del suo mandato, era senz’altro il problema della loro povertà, quindi dei loro standard di vita. Una serie di studi dei primi anni ’60 mise in luce che più del 90% dei loro alloggi era al disotto degli standard di abitabilità, il tasso di mortalità infantile era più del doppio della media nazionale, l’incidenza di malattie quali tubercolosi, meningite e dissenteria superava anche di cento volte quella della popolazione non nativa, l’età media della morte si aggirava intorno ai quarantatré anni, e infine, con una disoccupazione che variava fra il 40 e l’80%, il reddito familiare era infinitamente più esiguo rispetto a quello degli angloamericani.8

Sono particolarmente significative alcune parole rivolte dagli indigeni al presidente Johnson, successore di Kennedy.

Siamo grati del fatto che i grandi programmi e progetti del nostro compianto, scomparso, beneamato presidente John Fitzgerald Kennedy proseguano sotto la sua amministrazione. Teniamo a esprimere nuovamente il nostro profondo dispiacere

7 Ivi, p. 270.

8 Cfr. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla preistoria

159 e dolore per il nostro capo scomparso che il nostro popolo

chiamava Capo Grande Aquila […]

Siamo lieti che Lei stia portando avanti i programmi del presidente Kennedy e che sia Suo desiderio far avverare le speranze che egli aveva per gli indiani americani. Ci ha menzionato nel Suo discorso sullo stato dell’Unione, e ciò ha dato coraggio al nostro popolo.9

10

9 Ivi, pp. 335-6.

10 Una delle molte foto di repertorio che ritraggono il presidente John Fitzgerald Kennedy insieme a membri degli indiani d’America, qui precisamente insieme a un loro rappresentante. Ad Anna Maria Ortese non dovette sfuggire che nel ’60, prima di diventare di fatto il trentacinquesimo presidente americano, Kennedy andò in cerca del voto dei nativi, e nel ‘62 parlò ai delegati di ben novanta tribù in visita alla Casa Bianca, rivolgendogli parole che alla scrittrice dovettero risuonare altamente pietose e umane, rivoluzionarie nella loro durezza, portatrici sì di un ricordo della colpa dell’uomo bianco, ma pure della voglia di superare quel danno:

«I hope that this visit here, which is more than ceremonial, will be a reminder to all

Americans of the number of Indians whose housing is inadequate, whose education is inadequate, whose employment is inadequate, whose health is inadequate, whose

160 Kennedy fu perfino ribattezzato Grande Capo Aquila, come abbiamo appena letto, per la sua vicinanza ai problemi e alle tradizioni dei nativi; e fatico a credere che Anna Maria Ortese, così attenta alla tematica, non fosse al corrente dell’operato del presidente.

Nell’Alone grigio, è il Kennedy resuscitato che viene proposto, poco prima del catalogo degli antichi conquistatori del nuovo mondo: «gli spagnoli di Diaz, gli inglesi di Enrico, gli Olandesi, i Genovesi». Questi tuttavia appaiono emergenti dall’acqua dell’oceano, come dopo un diluvio universale abbattutosi specie sulla città di New York, la cui scelta, da parte dell’autrice, non credo affatto che sia stata casuale. Com’è noto, furono proprio quegli Olandesi, della Dutch East India Company, a insediarsi per primi nel territorio di New York (o più propriamente New Amsterdam): per l’esattezza sulla punta di Manhattan, dove in breve alzarono un fortino per gestire l’ingente commercio di pelli lungo l’Hudson River. Successivamente, Peter Minuit, direttore di quell’avamposto, acquistò l’isola dai nativi Lenape attraverso un’ignobile negoziazione, che avrebbe privato gli indiani della loro terra in cambio della cifra irrisoria di soli 60 fiorini. Con l’arrivo del nuovo governatore Willem Kieft, le violenze verso il popolo indiano si intensificarono, fino a giungere al sanguinoso massacro di Corlears Hook nel 1643 – in cui gli olandesi uccisero centoventi indiani, fra cui donne e bambini – e al successivo

security and old age is inadeguate – a very useful reminder that there is still a good deal of unfinished business» (Public Papers of the President of the United States,

Federal Register Division, National Archives and Records Service, General Services Administration, 1962, p. 619).

161 biennio di belligeranza – la cosiddetta “Kieft’s war” – che portò a ulteriori e numerose vittime su entrambi i fronti11.

Provocatoriamente, Ortese sceglie la città simbolo dell’America per indicare non una punizione bensì una razionale giustizia. È inoltre la natura che attua questa sorta di compensazione: è attraverso lo sconvolgimento causato da piogge torrenziali, eruzioni straordinarie, strane mareggiate, che si sottolinea lo sbaglio tremendo causato dall’uomo.

All’uomo non risponde l’uomo, bensì la natura, cioè in definitiva Dio. Ortese, lo abbiamo letto poco sopra, cita la Bibbia, che dichiara di leggere di continuo all’interno del racconto, e da cui avrà tratto certamente il tono sentenzioso della narrazione. E tuttavia, nell’Alone grigio, nessuno ha timore di Dio.

Comunque, anime liete e contente dovunque. Il tempo era annullato, la fatale paura che l’uomo si porta nel sangue fin da bimbo, e credo che lo faccia tanto tremare e gridare, che tutto passa e non torna, che una cascata immensa è la vita, le cui acque mai più non risalgono, quella paura era annullata. Ora vi era certezza; e si poteva osservare una cosa buffa: nessuno aveva paura di essere giudicato: segno che l’umanità, in sostanza, era profondamente colpevole.12

Non c’è peccato originale dunque, Ortese sembra voler dire questo, né tanto meno giudizio e patimenti finali. Ma la rassicurazione dell’autrice è assai illusoria, e con altrettanta

11 Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari,

Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, Il Saggiatore, Roma

2012, p. 714.

162 capacità illusionistica ci viene presentata la reale, se così si può dire, concatenazione degli eventi.

Tornarono, per le vie di Londra, i grandi mostri degli ultimi secoli, allampanati, scuri in viso, e si mescolavano ai re, alle regine, ai grandi poeti… Cominciò a cadere una pioggia di fango rossastro, pesante come piombo, e buona parte della popolazione era bendata. A Parigi, i grandi chansonnier rivivevano, davano spettacolo: in platea, miti, la regina decapitata, le duchesse in crinolina, accanto alle popolane, alle eroine. Dumas, un giorno, fece una piazzata: tutti e quattro i cavalieri di Parigi, con il ragazzo di Guascona avanti a tutti, attraversarono la città, diretti all’Étoile: volevano ridare al re il governo di Parigi.

I giornali erano pieni di titoli: presto, però, smisero di uscire. Ricomparvero bandi, sui muri, editti, che raccomandavano la calma e invitavano gli uomini a confidare in Dio.

[…]

Si pativa, e insieme c’era una grande quiete. […]

Il 29 di settembre, il sole apparve circondato da due aloni, uno verde, uno nero, trafitti da solo due o tre raggi, ma splendidissimi.

Il 30, non si alzò all’orizzonte più di un palmo, e tutto il giorno non fu che una lunga sera.

Il 1° di ottobre, ogni città vide il mare profilarsi all’orizzonte. La baldoria era finita, ora la terra si apriva.

Seguì un grande silenzio. Per due, tre giorni era sempre sera, e vasto infinito silenzio. Le piante si annerivano, e accartocciavano, come in un precoce inverno; gli uccelli tacevano.13

13 Ivi, p. 271.

163 Difficile non ricollegare questo passo, specie la prima parte, alla già indicata Apocalisse, annunciata anche dai celebri quattro cavalieri, qui portati in scena attraverso Dumas. E inoltre le figure mostruose che insieme a questi sopraggiungono, e la pioggia di fango rossastro, il clima allucinato e la confusione senza pari, sottolineano ulteriormente l’arrivo a una sorta di approdo terminale della vita.14 Una vita che tuttavia si ostina a

non avere fede, sottolinea Ortese, e che deve fare i conti, forse proprio per questo, anche con un bizzarro sconvolgimento solare. A tre fatidici giorni, infatti, ne seguono altrettanti tre di silenzio surreale, in cui la natura comincia ad estinguersi e il mondo pare fermarsi. Se nel racconto di Noè e dell’arca c’era una colomba che confermava la salvezza, qui al contrario «gli uccelli tacevano». Dio rimane muto di fronte agli uomini indifferenti; a Dio non sembra neppure interessare l’alleanza (già rinnovata?, ancora da rinnovare?) con loro.

Il motivo?

Gli uomini hanno spento finanche l’ultima fiammella di contatto col sacro, e dunque con la speranza e con la possibilità (filosofica e fisica, pratica e psicologica) dell’innocenza.

14 Leggiamo dai Vangeli, esattamente da Matteo 24: «29 Subito dopo la

tribolazione di quei giorni,

il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.

30 Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il

petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria».

Qui due cose possono interessarci: l’enfasi posta sul senso della fine, che accompagna il giudizio universale e ritroviamo anche nell’Alone grigio, naturalmente in termini più attenuati; e l’oscurazione del sole, che nella resa ortesiana diventa più sfumata e irreale, in perfetto abbinamento con lo stile del racconto, allo stesso tempo bellicoso e pacifico, tremendo e quieto.

164 L’inserimento del tema dei selvaggi serve dunque a ricalcare sempre questo aspetto. Attraverso John Fitzgerald Kennedy, splendida figura di mediazione fra la società e i selvaggi – quasi fra il male e il bene, la terra e il cielo –, Ortese vuole porre l’accento sulla purezza perduta dal genere umano, e spiritualmente e religiosamente. Il selvaggio serve di nuovo da monito ed esempio, è allo stesso tempo avviso e specchio di un’ispirazione.