Vale la pena di riprendere il discorso sopra accennato sulla semplicità, che costituirà per Anna Maria Ortese un vero e proprio punto di riferimento, un perno intorno al quale articolare la sua opera, e con questa la sua vita.
Ortese fa i conti con questa dimensione – la dimensione del semplice cioè del poco, anche materiale; del tremendamente essenziale; del povero – fin da subito. Nasce a Roma nel 1914 in una famiglia «di nessun rilievo sociale»6, numerosa (lei è quinta
di sette fratelli) e decisamente non agiata7. Per scampare alla
4 Ivi, p. 41. 5 Ibidem.
6 Cfr. Giancarlo Borri, Invito alla lettura di Anna Maria Ortese, Mursia, Milano 1988, p. 13.
7 «In casa nostra si viveva poveramente. Non avevamo nemmeno la vasca da bagno. Ci si lavava con l’acqua fredda del lavandino. Il riscaldamento, non se ne parlava nemmeno. Ci scaldavamo con i bracieri. In tutta la mia giovinezza ho avuto soltanto due vestiti. La carne da noi non si vedeva mai» (Anna Maria Ortese, in Dacia Maraini, E tu chi eri?…, cit., p. 31). E ancora: «[…] non ho mai avuto un giocattolo. Me li facevo da sola: una bambola, il teatrino… Mia nonna ci chiamava di nascosto, a turno, per darci un pezzo di pane. Non ce n’era sempre per tutti… Del resto, non sapevamo cosa fosse la carne, né, tanto meno, cosa fossero i dolci» (dichiarazione dell’autrice contenuta nell’articolo di Guido Arato, La mia Iguana è
47 miseria è costretta a peregrinare da una città all’altra: Potenza, Tripoli, Napoli, Firenze, Trieste, Venezia, Milano, solo per citarne qualcuna8. E sperimenterà per tutta la vita l’orrore dei
bisogni, anche dei più necessari, perfino della fame a cui spesso solo la carità degli amici poté porre rimedio. Infine, ultimi ma non meno importante fattori, fronteggiò sia la prima che la seconda guerra mondiale e combatté contro la perdita dei fratelli, Emanuele e Antonio: il primo morto nel ’33 in Martinica, dove lavorava come nocchiere scelto della Regia Marina; e il secondo, sotto tenente effettivo della Regia Guardia di Finanza, a pochi anni di distanza, nel ’37, in Albania9. Due lutti che la segneranno
profondamente, come persona e come scrittrice, e che la faranno scontrare contro un’assenza avvertita come trauma insolubile, vero e proprio sentimento della rottura, investigazione delle macerie, fisiche e psichiche10.
8 A queste città, in cui Ortese ha abitato per periodi più o meno lunghi, si aggiungano quelle, sia italiane che estere, visitate per conto dei giornali di cui era corrispondente, nel corso dei molti e spesso avventurosi viaggi di lavoro.
9 Bisogna anche segnalare la prematura morte del terzogenito Giuseppe, su cui Ortese mostrerà sempre un gran riserbo (cfr. Luca Clerici, Apparizione e visione.
Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano 2002, p. 23).
10 Un accento particolare deve essere posto sulla perdita di Antonio, che non era semplicemente un fratello bensì il gemello di Anna Maria Ortese. Alla sua morte, la scrittrice afferma di aver sperimento un’emozione differente rispetto a quella che caratterizzò la perdita di altri familiari: «ho provato un dolore “diverso”, come mi avessero tagliato un braccio» (dichiarazione dell’autrice contenuta in un articolo di Alfredo Barberis, È così difficile trovare a Milano il silenzio, «Il Giorno», 6 aprile 1996).
Si tenga poi presente che il legame tra i gemelli era rinsaldato anche dalla medesima inclinazione sviluppata da Antonio: la scrittura. Un particolare, forse, che non è affatto un particolare e provocherà un attaccamento feroce da parte di Ortese, alla stessa scrittura come alla memoria del fratello. Dalla sottrazione nascerà allora una fortissima adesione; dal sentimento, nuovamente rinnovato, della lacerazione e del tormento ad essa dovuto, e della coscienza di aver perduto il suo doppio, si svilupperà il trionfo tragico dell’unità, intesa sia come solitudine sia come protezione di quest’ultima. Protezione che puntualmente verrà vissuta con
48 Questo potrebbe in gran parte spiegare il perché del suo carattere: appartato e schivo, lontano dalla mondanità e poco accondiscende nei confronti del feroce occhio altrui. Un’inclinazione che tuttavia Ortese non matura negli anni, dopo le prime pubblicazioni o man mano che la sua fama s’impone in Italia. Forse non a sorpresa, rileviamo che la sua indole sia sempre stata quella di una creatura isolata da tutto, potremmo dire, fuorché da se stessa, dalla sua fantasia e al tempo stesso dalla sua capacità di astrazione.
Nell’introduzione abbiamo parlato di quanto questo senso dell’estraneità, del sentirsi straniera per gli altri e in certi in momenti pure per se stessa, dell’isolamento emozionale, della necessità di distanza e di distacco, sia per Ortese qualcosa di più di una semplice reazione alle tante prove dovute affrontare nella vita. Forse lo sarà all’inizio, e per una brevissima frazione di tempo; ben presto diventerà infatti un timbro dominante, acquistando l’essenza di un’identità tale da poterla addirittura rappresentare. «Zingara assorta in sogno»11, la definì una volta Elio Vittorini, e con molta acutezza, a sottolineare quel carattere ambiguità: odiata e amata, maledetta e ricercata, allontanata ma infine sempre ripresa.
L’essere straniera da parte di Anna Maria Ortese, il suo sentirsi estraniata ed estranea a qualcosa avvertito spesso come più grande della sua capacità di comprensione, ha dunque origini antiche, perfino prenatali: come se fosse un destino o un crisma bizzarro, un pegno da dover pagare per una certa sensibilità; lo stesso che, sommato alle successive perdite, non poteva che portare a un’esigenza di separazione, costante e intensissima, vissuta sia come fissazione nevrotica sia come missione artistica.
11 Ortese tuttavia contesterà questa definizione, non rinnegandola del tutto ma correggendola, dandole cioè una sfumatura che corrobora questo studio dedicato al suo vivere di tremendo isolamento, e insieme di corsa precipitosa verso una salvezza di difficile conquista. Dirà per questo di sentirsi «un profugo, o un ebreo perseguitato, o un prigioniero, o perfino uno schedato. Senza mai casa, né vitto sicuro» (da una lettera di Anna Maria Ortese a Cin Calabi, datata 5 marzo 1976, in Luca Clerici, Apparizione e visione…, cit., p. 487).
49 centrifugo e che non acconsentiva a lasciarsi afferrare, quel clima di sospensione presente nei suoi scritti così come nella sua presenza fisica, di persona geograficamente errante, impossibile da bloccare in perimetri precisi e addolorata, sempre, per il sentirsi preda di una determinata istituzione, cultura, casa, situazione storica e socioeconomica.
Questa sorta di resistenza al già dato, questa ribellione all’imposizione, di qualsiasi genere, la vediamo perfino nei primi anni di vita della scrittrice, e specie attraverso quel dovere iniziale a cui ogni fanciullo deve sottoporsi: la scuola.
Ortese frequenta già le elementari con molta difficoltà, imparando poco o nulla, e ripetendo addirittura per tre volte la terza classe. «Non mi ci trovavo bene»12, confesserà l’autrice nel corso di un’intervista.
C’era un orario pesante, dalle otto di mattina alle quattro del pomeriggio. L’impossibilità di muoversi, poi, era peggio di tutto. La giornata era passata in cose che mi apparivano inutili. […] Cucito, computisteria. Ci dicevano di comprare nuovi quaderni, nuovi pennini, nuovi libri. A casa mia soldi non ce n’erano. Un giorno poi l’insegnante, una certa Scotti di Milano, mi dette da disegnare delle targhette per i quaderni. Io le ritagliai una sull’altra, invece di disegnarle. Per dispetto, una volta rimproverata, mi ostinai ad affermare che tutte le targhette erano state disegnate. Questo freddamente e pubblicamente. Ancora me ne vergogno. Le detti un dispiacere e avvilii me stessa con una menzogna. Ma forse non era una menzogna: era una oscura e decisa ribellione. A scuola non tornai più.13
12 Anna Maria Ortese, in Dacia Maraini, E tu chi eri?..., cit., p. 30. 13 Ibidem.
50 Svetta nel finale di questa dichiarazione una delle parola- chiavi che caratterizzeranno la scrittrice, destinata ad avere grande peso nel suo futuro: «ribellione», la quale è sì «decisa» ma è ancor più «oscura»: altri due concetti fondanti della sua personalità allo stesso modo della sua scrittura.
Anna Maria Ortese arriva a una tale risoluzione poco dopo essere ritornare fra i banchi di scuola, a Napoli, ad appena tredici anni. E il dissenso agli ordini precostituiti, qualunque essi siano, qualsiasi fine e motivazione nascondano, è già parte integrante del suo mondo: mondo pratico e mondo poetico; mondo vissuto sempre iperbolicamente, pur nel silenzio di un’anima timidissima; mondo cruento che non ammette compromessi, e al quale Ortese risponde con altrettanta estremizzazione:
C’è stato un periodo che mio padre voleva rimandarmi a studiare. Ma io gli ho detto: “Se mi mandate a scuola, mi uccido”. Ero così tranquilla e decisa che da allora non hanno più insistito.14
Anna Maria Ortese accede dunque alla letteratura in maniera non mediata, senza un filtro che ne accompagni il rapporto, in tutto e per tutto diretta. Non avrà mai un’istruzione canonica e stenta a leggere testi di critica. Non ha dalla sua parte professori né tanto meno istituti scolastici. Imparare prendendo in considerazione altrui accorgimenti o linee guida, non sa cosa voglia dire.
Quello ortesiano è così un approccio ‘primitivo’ all’arte, e in generale alla vita, di chi si avvicina con le mani alla terra – la
14 Ibidem.
51 terra della creatività – e tenta di plasmarla senza foglietti illustrativi, senza messaggi che forniscano aiuti. Ciò ovviamente implica un certo margine di rischio, ma al tempo stesso consente di godere della verginità del fatto, fatto da poter poi declinare seguendo la propria soggettività.
Proprio come un animale Ortese usa l’istinto, tanto raffinato da sfiorare la saggezza; si affida ai cinque sensi interiori prima che a quelli fisici; fa della sua sensibilità un destino.
Il manuale su cui imparare sarà per lei l’esperienza diretta, o anche la mancanza d’esperienza supplita con la fantasia, chiamata spessissimo “sogno” nel suo vocabolario privato; fantasia anch’essa selvaggia e totalizzante, difficile da tenere a bada.
E l’obiettivo di tutto questo, pur negli arabeschi incredibili che la sua scrittura riuscirà a dipingere – scrittura che non è mai data da uno stile asciutto o poco dolce, ma al contrario gonfio, riccamente aggettivale, lirico – l’obiettivo, dicevamo, contenutisticamente parlando sarà lo schierarsi sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi, animali o uomini che siano, dalla parte della pochezza: che se da un lato identifica una penuria di mezzi, un’assenza orrenda di risorse economiche, d’altro canto significa pure grandezza, grandezza spirituale, sconfinata umiltà dell’anima e verità profonda dell’esistenza.
Poche cose, è vero, Tonio? ci differenziano quasi sempre gli uni dagli altri e quelle poche cose non ce le siamo certo create, ci vengono dalle origini involontarie, dai nostri genitori, nonni e via dicendo […] Quando uno non si è fatto da sé o per meglio dire non si è fatte da sé quelle tali qualità per cui risulta superiore agli altri, l’unica cosa che veramente possa essere sua,
52 questa cosa è l’umiltà, la semplicità del cuore, che è anche
chiarità estrema. Uno che sia capace di vedere il mondo senza enfasi né disgusto, senza spavento né ammirazione. In perfetta quiete d’animo, quello sì che vede il mondo; così come lo riflettono le superfici tranquille di certi tranquillissimi laghi, in mattine di primavera.15
Da questo passo, contenuto in una lettera indirizzata dall’autrice al pittore Antonio Franchini, emergono i capisaldi di una certa visione del mondo. Ciò che interessa ad Anna Maria Ortese, e qui è ben evidente, si configura nel poco se non addirittura pochissimo, che tuttavia spalanca allo straordinario, diversamente dall’ordinario che uccide ogni altro canale rivolto all’extra, all’altro, all’oltre.
La tragedia della mia vita […] fu dunque nello scoprire quasi subito che tutte le cose – anche persone, volti, libri – erano vuoto e apparenza, erano immagini, la cui materialità e libertà erano tutte illusorie. […] Ben presto, dunque, io mi trovai a dovermi battere per una cosa – la vita – che era un abisso e una perdita. Lo sapevo, ma ciò non toglieva che dovevo battermi. Dovevo scrivere – fermare continuamente il fluente e l’estatico – attraverso una parola che, rispetto all’arma regolare di uno scrittore anche comune, era una parola infantile. Infatti il mio vocabolario era povero, la conoscenza della grammatica e della sintassi quasi elementare; di geni espressivi ne conoscevo pochissimi – poeti, come il Poe –, incontrati ai mercatini dei libri usati. Una impresa disperata; e tuttavia non avevo scelta: o esprimermi, o tornare nel niente.16
15 Da una lettera di Anna Maria Ortese al pittore Antonio Franchini, in Luca Clerici, Apparizione e visione…, cit., p. 11.
53 La semplicità di cui stiamo parlando si arricchisce qui di una sfumatura ulteriore, e non secondaria per un’autrice come Anna Maria Ortese: il linguaggio. Anch’esso le viene dato in una maniera povera, poverissima; anche le origini delle sue parole, proprio come quelle di cui si parla nella lettera a Franchini, sono involontarie17.
Credo che qui Ortese, come fa spesso nei suoi libri, voglia porre l’accento sulla dimensione più pura del linguaggio, pur nella sua dichiarata scarsità di mezzi, anche rozzezza e selvatichezza.18
La dimensione aurorale di qualsiasi esperienza è da premiare, possiamo leggere questo in filigrana: saper cogliere ed apprezzare in ogni cosa (in questo caso l’uso di una lingua) il suo lato più onesto, innocente e irrimediabilmente vero.
Possiamo allora vedere come la preferenza, spirituale quanto artistica, venga ancora una volta accordata alla natura, cioè a quel cosmo magnifico di flora e fauna eletto a simbolo di sincerità estrema: tali caratteristiche dovrebbe possedere ugualmente il linguaggio, tanto più quello di Ortese, definito dalla stessa autrice
17 Questo aggettivo: involontario, avrà un ruolo fondamentale nell’opera di Anna Maria Ortese. Pensiamo solo al sesto racconto del Il mare non bagna Napoli, intitolato La città involontaria.
18 Ortese risponde qui, in parte, anche a un topos della letteratura di tutti i tempi, altrimenti conosciuto come “topos dell’inesprimibile”, che vorrebbe l’autore oltremodo umile, conscio della propria nullità, finanche abbattuto per i suoi miseri tentativi. La motivazione della scrittrice è tuttavia diversa da quella di Omero, che nel Catalogo delle Navi chiede assistenza alle Muse poiché non in grado di elencare la moltitudine degli Achei, neppure se avesse dieci lingue e dieci bocche (Iliade, 2, vv. 488-92). In Ortese, pur essendoci molta visionarietà, c’è pochissimo di fittizio, praticamente niente di artefatto. L’umiltà non è quella di Omero, e di altri grandi poeti e scrittori; non è un espediente retorico né tanto una captatio fine a se stessa. Anche questo passaggio, per l’autrice sarà dolorosamente sentito, elaborato e messo a frutto; più che gioco testuale è per lei un marchio di vita; più che un mezzo stilistico è un fine etico e poetico.
54 «infantile»: rilievo che da un lato vuol porsi come un’autocommiserazione, dall’altro innalza il suo significato di ebbrezza e autenticità, passione e limpidezza mistica.
Involontaria e semplice, sofisticatamente semplice: sembrano dunque essere queste le origini di Anna Maria Ortese; e ancora di più in questo studio, dedicato a un sentirsi e farsi estranea, a un essere – attraverso vari significati e varie modalità – straniera, acquistano un valore aggiunto.
Il deprezzamento, apparente, del definirsi involontaria nasconde in realtà un desiderio di vicinanza a ciò che sta più a cuore alla scrittrice: l’umiltà; mentre la nota sulla semplicità si ricollega alla matrice primaria della sua vita: la natura.
Due momenti che vanno di pari passo, accordati al medesimo movimento. Due dinamiche profonde, lo vedremo nelle prossime pagine, che costituiranno le assi portanti dell’opera ortesiana, attraverso le quali ogni altra condizione filtra e si ricompone: prima fra tutte la condizione, particolarissima, di straniera.