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In piena contestazione giovanile e studentesca, come fa notare Giacomo Borri, Anna Maria Ortese porta a termine un libro che non ha decisamente nulla di politico. Chiusa in sé stessa, all’interno di un momento non definibile semplicemente come crisi, la scrittrice si dedica a un progetto che ha qualcosa di assoluto e totalizzante, di intimissimo, di assai peculiare. I sommovimenti del mondo esterno, agitazioni giovanili e non, faranno solo da cassa di risonanza. Ad Anna Maria Ortese è il suo passato, soprattutto passato interiore, che interessa adesso; la sua giovinezza, dell’anima e dei sentimenti; il suo modo di essere nel mondo; il suo rapporto con gli altri e con l’altro, in primo luogo con la vocazione letteraria.10

Dando vita a una sorta di libro-prisma, libro-arcobaleno, libro- cristallo, dalle molte sfaccettature spirituali e che bada più alle luci emotive piuttosto che ai fatti, Ortese ripercorre il doloroso periodo italiano, dopo l’abbandono della Libia e il ritorno a Napoli, in un quartiere povero e popoloso, all’insegna delle più precarie condizioni di vita. Il riferimento alla città partenopea è del resto presente fin dal titolo, in quel nome di città che ci riporta a una delle vie principali di Napoli: via Toledo, che congiunge piazza Dante a piazza Trieste e Trento, fortemente voluta dal viceré Pedro Alvarez de Toledo nel 1536, ma che dal 1870 al 1980 fu chiamata via Roma, in onore della nuova capitale del Regno d’Italia.

Oltre a questa elemento di toponomastica, Borri ricorda una suggestione ulteriore, «un motivo di ispirazione diverso, più

191 sottile e particolare: nella città spagnola di Toledo, in San Tomè, è custodito un quadro del grande pittore El Greco, dal titolo

Sepoltura del conte d’Orgaz»11, che dovette colpire molto

l’immaginario della scrittrice, se proprio uno dei personaggi del romanzo, il direttore della «Libreria Gazeta», si chiama Giovanni Conra, conte d’Orgaz.

Il dipinto, suggestivo quanto imponente, raffigura allegoricamente i funerali del conte di Orgaz, ricco dignitario di Toledo, qui affiancato addirittura da Santo Stefano e Sant’Agostino, mentre il diacono guarda verso il cielo e il vescovo, all’estrema destra, legge dal Libro dei Morti per somministrargli l’estrema unzione. Tutt’intorno frati o cavalieri, e al centro della tela un angelo che trasporta in Paradiso l’anima del conte. Nella parte superiore del dipinto vediamo Cristo seduto sul trono, sulla vetta di un’ideale piramide, e davanti a lui la Vergine e il Battista. Presente inoltre san Pietro, riconoscibile dalle chiavi, insieme ad anime di beati e altri santi.

Non è certo un dipinto ordinario, soprattutto se il senso del quadro, come sottolinea Josetxo Beriain,

se lee de arriba abajo, es decir, la conexión de los tres ámbitos presentes, el mundo trascendente, el mundo cotidiano y el inframundo de las tinieblas y de la oscuridad, sólo es posible entenderla desde la metaobservación de Dios y su corte de ángeles. En el plano de la observación de segundo orden todos los enunciados devienen contingentes, toda observación puede ser confrontada con la cuestión de qué distinción emplea y qué

11 Ivi, p. 73.

192 es lo que, como consecuencia de ésta, permanece para aquella

invisible.12

13

12 Josetxo Beriain, La lucha de los dioses en la modernidad. Del monoteísmo

religioso al politeísmo cultural, Anthropos, Rubí 2000, p. 65.

13 El Greco, El entierro del conde de Orgaz, olio su tela, 480x360, Chiesa di San Tomé, Toledo.

193 Sono considerazioni, quelle che abbiamo appena citato, che rientrano perfettamente nel clima ortesiano, e specie ne Il porto

di Toledo, il cui eloquente sottotitolo è «Ricordi della vita

irreale»14. L’allegoria di morte e resurrezione del conte di Orgaz, che mischia mondo trascendente, mondo quotidiano e inframondo di tenebre e oscurità, diviene la giusta sineddoche attraverso cui riuscire a cogliere il tutto, il simbolo che permette di giungere a una considerazione dell’intento generale di Anna Maria Ortese. Il cosiddetto irreale, ovvero quella dimensione invisibile di cui parlava Beriain, sarà infatti onnipresente all’interno de Il porto di Toledo, e sarà direttamente correlato, non a caso, al più volte citato senso d’estraneità che accompagna l’autrice. Basta leggere l’incipit del romanzo per capire come non si possa fare a meno di questo riferimento:

Sono figlia di nessuno; nel senso che la società, quando io nacqui, non c’era, o non c’era per tutti i figli dell’uomo. E nascendo senza società, in un certo senso io non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno.15

Simili parole devono invitarci di nuovo a riflettere. Anna Maria Ortese le inserisce, e anche un po’ enfaticamente, all’interno del suo libro più intimo, e le fa ruotare intorno al

14 Il titolo del primissimo capitolo-rubrica sarà invece «Ricorda Rassa, D’Orgaz e altre apparizioni dei suoi anni marini». Il riferimento all’opera di El Greco è dunque esplicitato fin dall’inizio, e non si risolverà all’interno di un solo richiamo, limitandosi all’onomastica di un personaggio; al contrario sarà significativamente presente in tutto il romanzo, specie nei presupposti più intimi che ne hanno portato alla scrittura.

194 campo tematico della purezza creaturale, dietro la quale si cela sempre il paradigma dell’indiano d’America, contrapposto al mondo falsamente civilizzato.

Anna Maria Ortese si pone qui come rappresentante di quella società prima della vera e propria società, fatta d’innocenza e mistero, di ascolto e senso del dolore. L’autrice preferisce addirittura nascere in un secondo momento, ed essere figlia di nessuno: di un nessuno umano civilmente inteso, potremmo interpretare, rimandando così a una natura da cui ancora si può imparare, concreta e allo stesso tempo sfuggente, come un sogno, fisica ma irreale.

Non sto a dire perciò dove nacqui, e come vissi fino agli anni tredici, età a cui risalgono questi scritti e confuse composizioni. So che un certo giorno mi guardai intorno, e vidi che anche il mondo nasceva; nascevano montagne, acque, nuvole, livide figure.

Il luogo dove questo accadeva era la città di un Borbone. Il tempo, quello in cui un Borbone, forse ultimo, giaceva sommerso sotto il piede del giovane secolo attuale. Io nacqui dunque alla vita in questa strettoia: come popolo giallorosso, o figlia di popolo tale, mi trovavo sotto il peso di questo secolo che mi era, per natura, estraneo. Volevo dire la mia parola di popoluccio iberico, ma soffocavo (sotto questo secolo estraneo), e inoltre la lingua mancava, mancavano i mezzi più atti alla lingua: l’istruzione.16

Ortese ritorna quindi sulla sua biografia, connettendo inoltre l’assenza d’istruzione alla condizione dei nativi, ignoranti ma

16 Ibidem.

195 puri, innocenti perché distanti da un sapere metodico e canonizzato.

La scrittrice chiama poi in causa il «popoluccio iberico», attraverso un vezzeggiativo affettuoso dietro il quale si nasconde, ironicamente, la consapevolezza che proprio quel popoluccio ha dato il via alla più grande mattanza della storia. Ma il «popolo giallorosso» potrebbe anche contenere un riferimento rovesciato nei confronti degli indigeni, che dipingevano i loro corpi con vari colori, inclusi il giallo e il rosso presenti sulla bandiera spagnola. I nativi americani vengono presto chiamati in causa, qualche pagina dopo l’incipit, durante la descrizione che Anna Maria Ortese fa della sua casa trasfigurata:

Nella stanza attigua (d’Angolo), al di sopra di ceste e casse abbandonate – pendeva il soffitto qua e là sfondato, e perciò nessuno vi entrava mai – erano raccolti tutti i vari popoli d’America, Comanche, Appalchi, Piedi Neri, ecc., insieme ad altre apparizioni del Continente australe, tutti da me dipinti.17

È un’operazione da tatuatrice, quella di Anna Maria Ortese, che imprime su se stessa, ovvero sulla sua interiorità, e con la pittura così come con la scrittura, i simboli più significativi che costellano la sua vita.

[…] vi erano giorni che uscire, camminare, non mi andava tanto, o perché mi ero stancata troppo il giorno prima, o per qualche altra ragione banale, o perché nella testa qualcosa ferveva. Allora, anche di mattina, chiusa nella stanza d’Angolo, scrivevo o leggevo, talora umili giornaletti, o disegnavo, con matite

196 colorate, del tutto infantilmente, signori e contrade dell’antica

America.18

Ritorna così lo stesso clima visto in Pellerossa, e ritornano gli stessi personaggi che spesso affolleranno le storie di Anna Maria Ortese. Nella dinamica di totale trasfigurazione e abbagliamento a cui sono sottoposti, in quest’opera in particolare, essi cambiano significativamente nome. La protagonista si chiamerà Damasa, con vari ulteriori appellativi, mentre i genitori Apo e Apa. I fratelli, tutti legati al mondo del mare e della navigazione, saranno così Rassa, il marine morto in giovane età nell’isola ironicamente chiamata Esperancia (corrispondente a Martinica); l’inquieto Lee; il cordiale Albe Garcia; e il piccolo Frisco; ai quali è da aggiungere la pragmatica sorella Juana. Trasfigurati anche i nomi della gente che non fa direttamente parte del nucleo familiare degli Ortese: il già citato Giovanni Conra, conte d’Orgaz; la tunisina Cora, moglie abbandonata da Lee; l’affascinante Lemano, detto «il finlandese», con cui Damasa intrattiene rapporti letterari e per il quale arriverà a nutrire dei sentimenti amorosi, che naufragheranno tuttavia a causa della sua volubilità e fuggevolezza. E abbiamo inoltre Semana, sorella del finlandese; e Mr. Morgan, Jorge Adano, Cyprisso, Misa, e molti altri.

Sembra quasi di star di fronte a una tribù, timbrata tutta da onomastiche vivide e penetranti. Anna Maria Ortese cede volentieri al rito di ribattezzare persone che non sono semplicemente personaggi; le rinomina quasi rifondandone gusti e caratteri, percezioni e passioni. Ognuna di esse, possiamo

197 supporre, manterrà integri i connotati primari della propria identità, ma è innegabile che Ortese le riplasmi, come fosse un demiurgo, secondo quella dimensione di onirismo che costantemente aleggia nel testo, le riformuli e ripresenti attraverso la lente deformante, ma mai annullante, del trauma e del dolore del vivere, dell’arte e della sua forza rigenerante.

Ortese va inoltre incontro anche a un’operazione di riciclo, un riuso funzionale di cose pubblicate in passato che le servono per rafforzare quello che è il suo tema dominante. All’interno del terzo paragrafo del primo capitolo, ad esempio, sono presenti estratti del già detto Pellerossa, che rimandano esplicitamente a Cavallo Bianco e all’inno colombiano dedicato a Simón Bolívar. All’interno del paragrafo Ortese inserisce tuttavia una variazione. Si parte sempre da un invito al fratello-«fanciullo apasa» ad «ornare la stanza»19, al quale fa seguito un’ulteriore

domanda correlata a una riflessione sul tema americano.

«Che ne diresti di un Piel Roja al naturale, che io dipingessi, attaccandolo poi sulla branda? Pensa che impressione, entrando».

Ma non la vanità, giustifico, era il mio movente; che da alcuni mesi, per certa lettura di opuscoli missionari, il Cruzeiro principalmente, in cui si deplorava il decadimento della bella nazione americana tanto diletta a noi, io era rimasta impressionatissima: mangiavo di malavoglia, dormivo soprappensiero, e unica mia soddisfazione era una impetuosa discussione che aprivo giornalmente con gli Abitanti, sulla viltà dei Bianchi ed altre esagerazioni. Non mi si dava molto retta, né a me, del resto, importava, ché altre erano le mie ansie continuate, assillanti: si pensi, un libro! Lungo o breve romance,

198 – ma ben superiore alle infantiline avventure per studenti – in

cui badavo ad esporre la tragedia dell’ultimo Roja, un Comanche, superstite unico alla marea bianca del mondo, vilipeso, inseguito, dalle Guardie Civili assediato. Una cosa importante, ma in senso tutto superiore, s’intende, almeno per il fine cui miravo: la rivolta contro il Bianco oppressivo, la restituzione dell’America ai primitivi Abitanti. La sventura – o la disgrazia – era stata però duplice per El Roja: il quale, così tutto ferito e cosparso di sangue, chiamato da me nella York Nuova – dove stabilito l’ultimo assalto (sei milioni di armati contro un guerriero cadente, ma sorretto dagli Spiriti del Mattino!) causa soprattutto la difettosissima conoscenza topografica che io avevo della città, si era definitivamente smarrito. Finito nel fiume o in una foresta adiacente, chissà! Lasciavo allora il literario tentativo, cadendo nella più alta febbre de l’alma di cui possa ammalarsi apasino. El Roja! El Roja! Tutto il raffinato mondo intorno mi pareva, al confronto, un vegliardo assopito nella poltrona, che non si può immaginare cosa più deprimente. Ne ero oppressa come per nebbia che cali. Come fuggire, dove raggiungerlo, e per quali libere vie del mondo, l’ultimo Roja?20

Essendo spiritualmente a Toledo, la parola pellerossa si trasforma in piel roja, da Anna Maria Ortese accorciato in El Roja. Rimane tuttavia inalterato il contesto su cui la scrittrice modella la storia, anzi il cosiddetto «rendiconto», intitolato «PIEL ROJA E IL FANCIULLO APASA (COMANCHE)»21,

che è quasi del tutto identico a quello del racconto di Angelici

dolori. Cambia però il nome della nave: Maria Rosaria nel caso

di Pellerossa, e Maria Morales per Il porto di Toledo; e cambia il

20 Ivi, pp. 50-1.

199 finale di questa sorta di storia nella storia. «Forse il rendiconto era terminato», avvisa Anna Maria Ortese, «ma questo non sapevo, e ancora, per qualche rigo, incertamente, continuai»22.

E vengono operai, invece, e subito comincia grande lavoro per il rifacimento di questo porto, per il riempimento delle grandi acque verdi, là una formidabile stazione che nasconda l’azzurro, qua abbattere, rifare, mutare tutto.

Cose necessarie, s’intende, né io ne lamento il fatale progredire, l’ansito gioioso e prepotente. Cose necessarie, umane.

Ma intanto, come sperarla più, ora, una Maria Morales che si faccia strada tra queste acque basse, ingombre di rottami, e carica di bandierine allegre mi porti lontano, come teneramente aspettavo una volta, in lei sola fidando, salvezza innocente, liberazione bella?

Strano a dirsi – come in sogno continuavo – ed io non posso fare a meno di attenderla. Anzi, certe sere di tranquillità, mi sorprende sui vetri, battito soave, l’ala di questo uccello – veliero o Spirito di veliero –, ma con rumor dolce, appena sensibile, quasi non potesse, per spirituale sua sostanza, chiamare più forte. Ed io, pregando le reali cose e il lavoro che aspettino un poco, mi trovo a bordo della nave, la quale è vuota, e le sue sartìe cantano di felici speranze invocando le Terre d’Héroes. «Aspettateci, Terre grandiose! Luminose! Non allontanatevi, accostatevi Praterie del Cielo, dove l’Ovest non ha termine! Raccoglieteci, e sia per sempre, nella vostra luce rossa, Terre beate, e voi, Popoli dell’eterno, Appalchi, Comanche! Mandate, messaggeri, i vostri asciutti venti!»

Sorgono i venti occidentali da ogni parte della sera, al richiamo apasa. E la nave corre, vola sulle acque montuose, e in un istante è là! E io scendo, e intorno è un vivo tumulto! Mi

200 caracollano intorno, gloriosi, los Héroes che qui vennero, dove

la Civilitudine e il Nero Vero non li seguono, che qui cantano, con potenti bocche, gli himni della pace e la gioia ritrovata, fuggendo dietro essi, fra zampe e cappelli alti, la luce del tramonto senza fine.

S’intende, sogni.

Ma pur buono è questo tornare, anche di alcuni momenti, col libero piacere e a volte lacrime, a quelli che uno amò, Spiriti del Mattino, e Piel Roja e il fanciullo apasa, lo stesso Melinho e altri.23

Esattamente trentotto anni separano Angelici dolori da Il porto

di Toledo, ma in sostanza nulla pare essere cambiato; Anna

Maria Ortese anzi rafforza il fastidio contro la sua stessa società – trasformato in vera e propria «rivolta contro il Bianco oppressivo» – e acuisce la tenerezza e il desiderio di protezione, la stima, finanche la venerazione verso i popoli dei nativi americani.

In questo preciso estratto del Porto di Toledo, l’autrice si sofferma su ciò che probabilmente vedeva come l’unica liberazione per quei popoli, la sola dimensione che gli avrebbe permesso l’affrancamento dall’uomo bianco: la morte.

Quasi declinando personalmente le mitiche isole dei beati, dove secondo la letteratura classica veniva concessa agli eroi una vita senza più fatiche, fatta solo di quiete e bellezza, allo stesso modo le «Terre d’Héroes» di Anna Maria Ortese vogliono risarcire l’avventurosa quanto difficile vicenda dei nativi, i quali solo in una seconda vita dopo la vita umana, secondo la leggenda, recupereranno la libertà e la gioia perdute.

23 Ivi, pp. 60-1.