167 Nel periodo compreso tra gli anni ’48 e ’62, ma anche un po’
prima e anche un po’ dopo, mi accadde di prendere una quantità di treni, scendere in molte stazioni all’alba, e ripartire ancora di notte, barcollando per la stanchezza, senza sapere precisamente dovrei avrei riposato il giorno successivo. Qualche volta viaggiavo per un giornale, qualche volta no. […] Non saprei dire che animo avessi allora. Si tratta di tanto tempo fa. L’Italia era ancora molto povera, non offriva una vita facile. Tuttavia questa vita era un campo pieno di confuse, grandiose possibilità; e la speranza – e il rischio – bastavano.
Dico questo perché solo così posso spiegare la presenza, in questa raccolta di articoli e racconti di viaggio, di pagine, e occasioni della pagina […]. Particolarmente nelle pagine romane, mi trovai libera del tutto da impegni di giornali, e quindi da impegni di parte, e scrissi solo ciò che vedevo attraverso la Lente Scura di una giovinezza trascorsa nel confino di classe (c’era anche questo confino in tutto il Paese). E anzi, la Lente Scura, avrebbe potuto essere il titolo giusto per questa raccolta, se mi fosse stato consentito scrivere sempre per me, alle dipendenze di nessuno, cosa difficile quando chi paga, e rende possibile il vivere, predilige le Lenti Rosa, o di altro chiaro colore.1
1 Anna Maria Ortese, Prefazione, in La lente scura. Scritti di viaggio, Marcos y Marcos, Milano 1991, p. I-II.
168 Inizia così La lente scura, attraverso una prefazione- testimonianza della stessa Ortese che fa il punto sul suo passato, precario quanto avventuroso. L’autrice si sofferma sul titolo, ovvero su quello strumento che permette la vista – una lente, appunto – il quale non è tuttavia sinonimo di limpidezza e chiarore: è al contrario scuro, come la realtà complessa e stratificata, ambigua e crudele, che la scrittrice si trovò via via davanti.
Già dalla premessa si comprende come Anna Maria Ortese non accenni a scostarsi dall’immagine di solitaria intrepida, di donna outsider in un mondo ancora profondamente maschilista, quasi di animale mitologico: a rischio estinzione e per questo sempre in fuga.
La figura che torna in mente, ancora una volta, è quella del selvaggio, che tenta di sopravvivere con le armi della propria purezza e saggezza interiori, in un mondo ormai quasi totalmente monetizzato e avido. Ortese infatti non risparmia critiche a quei giornali che preferiscono pagare a chi guarda e scrive attraverso «le Lenti Rosa, o di altro chiaro colore», lenti attraverso cui leggere non solo la predilezione di un certo tipo di cronaca: rosa, d’amore, data dal semplice pettegolezzo, ma anche, anzi soprattutto, l’assenza di coraggio e d’innocenza, la mancanza del vero e quindi, automaticamente, di ciò che Ortese identificava col ‘selvaggio’.
Non è facile pensare alla libertà di questa scrittrice: al confine tra povertà estrema e grandi illusioni future, fra orrore e speranza, tra fame e sogno. Anna Maria Ortese, tuttavia, non fu mai attratta da eventuali, inimmaginabili guadagni editoriali, e quando parla di «confuse, grandiose possibilità», lo fa sempre premettendo la
169 condizione di rimanere fedele a se stessa, ovvero di raccontare ciò che più le sta a cuore e di farlo attraverso una scrittura che non perda la propria identità.
Già da un testo come Estivi terrori possiamo notare come Ortese non stacchi mai la presa dal tema dei nativi, e di conseguenza dalla percezione di una terra presente sotto i suoi piedi ma perduta, non propria. In questo scritto Ortese descrive la sua misera vita a Roma. La contessa N., una mattina, le dice che non può più vivere nella sua anticamera, e la rimprovera per non voler trovare un vero lavoro. Ortese non obietta2. Si sposta così
dalla signora Emma, la quale non aveva «raggiunto ancora l’attuale prosperità, viveva con una certa modestia, e mi accolse perciò umanamente»3.
La scrittrice afferma di essere andata a letto con una grave oppressione sul cuore, e di essersi coricata con tutte le luci accese. Poi, come se non bastasse, ripensa a un libro di Kierkegaard regalatole da un suo amico, che fungerà da vero e proprio volano di riflessione sui temi del dolore e della solitudine.
Il difetto di Kierkegaard applicato, per così dire, al Mediterraneo, o per lo meno all’Italia, stava nel dare a questa alienazione una radice cosmica, e soltanto cosmica, mentre era per buona parte amministrativa, e avrebbe potuto porvi rimedio un onesto contabile.
Vediamo, vediamo un po’, mi dicevo, prendiamo il nostro caso, prendiamo questo pezzetto di terra dove siamo nati. Abbiamo qui, se non sbaglio, un territorio di 301.249 chilometri
2 Cfr. Anna Maria Ortese, Estivi terrori, in La lente scura…, cit., p. 62. 3 Ibidem.
170 quadrati: quanti metri sono? Non lo so, non ho studiato, e poi
sono troppo emozionata per fare il conto a quest’ora, ma ugualmente si può procedere. Facciamo – solo per dire! – che siano trecento, milioni trecento di metri quadrati. Su questi trecento milioni, i nativi, o abitanti, sono cinquanta (milioni cinquanta): dunque (sempre per dire), sei metri quadrati è la quantità esatta di metri per ciascun abitante. Ciò significa esattamente che a ciascun abitante – pastore, manovale, e anche principe, non importa – toccherebbero di diritto, gratuitamente, metri quadrati sei, e su questi sei metri quadrati avrebbe diritto di costruire, se vuole, un locale. Può farlo? No, perché il territorio è dello Stato. Almeno, questa è la risposta, mentre la verità è che lo Stato possiede solo qualche sasso e pochi fili d’erba. Per il resto, montagna intere, regioni con boschi, con laghi, foreste bellissime attraversate da un fiume pieno di pesci, e contemporaneamente anche spiagge, e tonnellate di mare blu, e fette immense di cielo con inserite albe purissime – con ossigeno e canti di uccelli e gioia senza fine – appartengono esclusivamente alla signora Rossi con le due figliolette e il fratello fine letterato. Nella città lo stesso: sorgono quartieri di lusso, ville stupende, parchi magnifici vengono tagliati per favorire l’insediamento di condomini simili a sogni, e uno che passa (col sacco in spalla e i piedi pieni di polvere, ed è stanco) si mette a guardare, e dice: «ma chi gliel’ha data?» (tutta questa terra), e poi si accosta a fa: «per favore, questa terra era anche mia, ridatemi la mia parte». E loro ridono, e dicono: «ma noi si è comprata, con l’aria e tutto». Comprata da chi? chi è che ha venduto i miei sei – o seicento – metri quadri di terra, con l’alba di aprile, l’ossigeno, le farfalle e tutto? Chi ha venduto questa libertà (anche dei miei fratelli, dei miei amici poveri), chi ha venduto i nostri sei o seicento metri quadrati dove noi ce la saremmo costruita, anche in economia, una stanzuccia? Ed ecco, invece, perché non siamo forti, ci prendono i nostri verdi metri
171 quadri, e ridono: «via, via, a voi ne toccano solo due, di metri,
ecco il vostro diritto, e non è allegro – fra qualche tempo…»4
Questa lunga tirata ha inizio da un pensiero su Kierkegaard e l’angoscia, quasi come se le due cose fossero collegate l’una all’altra.
È angosciante dover constatare che perfino l’uomo è fondamentalmente uno schiavo; è angosciante rendersi conto che perfino la natura, perfino l’aria, è burocratizzata e geometricamente divisa, divisa ma non condivisa; è angosciante, e soprattutto per la sensibilità ortesiana, prendere atto dell’egoismo sempre operante dell’uomo, che pone confini finanche sull’aria, sull’ossigeno, su piante fiori e nuvole. Se ricordiamo le parole del capo Seattle, che suonavano non come una maledizione ma più come una profezia, noteremo lo stesso sconforto e la stessa incredulità, la sorpresa e l’amarezza, lo sconcerto e l’inganno.
[…] E se noi vi vendiamo le nostre terre voi dovrete guardarle in modo diverso, tenerle per sacre e considerarle un posto in cui anche l’uomo bianco possa andare a gustare il vento reso dolce dai fiori del prato. Considereremo l’offerta di acquistare le nostre terre.
Ma se decidiamo di accettare la proposta io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà rispettare le bestie che vivono su questa terra come se fossero suoi fratelli. Che cos’è l’uomo senza le bestie? Se tutte le bestie sparissero, l’uomo morirebbe di una grande solitudine nello spirito. Poiché ciò che accade alle bestie prima o poi accade anche all’uomo. Tutte le cose sono legate tra loro. Dovrete insegnare ai vostri figli che il suolo che
172 essi calpestano è fatto dalle ceneri dei nostri padri. Affinché i
vostri figli rispettino questa terra, dite loro che essa è arricchita dalle vite della nostra gente. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: la terra è la madre di tutti noi.5
È, questa, la parte finale dell’orazione del capo Seattle, il quale fino all’ultima parola condivide lo sdegno di Anna Maria Ortese. Sembra un curioso gioco di specchi, questo confronto tra passato e presente, fra il monito lanciato da Seattle a fine ‘800 e l’indifferenza constatata dalla scrittrice quasi un secolo dopo.
Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo, bensì è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto ciò che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non è l’uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a se stesso. C’è una cosa che noi sappiamo e che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. Voi forse pensate che adesso lo possedete come volete possedere le nostre terre ma non lo potete. Egli è il Dio dell’uomo e la sua pietà è uguale per tutti: tanto per l’uomo bianco quanto per l’uomo rosso. Questa terra per lui è preziosa.6
5 Capo Seattle, in Romano Toppan, Essere leader al tempo di Dio, cit., p. 36. 6 Ibidem.
173 Seattle aggiunge anche l’esperienza religiosa alla sua perorazione, azzerando ogni tipo di gerarchia e puntando nuovamente alla collaborazione, anziché alla sopraffazione.
E da dove, mi domandavo ancora, quelli che entrano in possesso di queste case prendono i soldi per pagare questi fitti altissimi?
Anche qui mistero, cioè Kierkegaard, cioè angoscia.
Una cosa, però, non era mistero, anzi era chiarissima: che il territorio italiano non era di tutti gli italiani, ma, praticamente, di un solo gruppetto, che l’aveva ricevuto in eredità dal nonno; e così milioni di persone vivevano in casa d’altri, e se prendevano il fresco era sotto l’albero di un altro.7
Per Ortese, dunque, i suoi connazionali sono quasi tutti sfollati, senzatetto che cercano di accamparsi in luoghi mai veramente sentiti come propri. L’immagine dell’indiano costretto a vivere in una riserva, letteralmente deportato dalla sua patria e obbligato e sviluppare un senso, quasi un dovere alla domesticità, deve avere molto agito nell’animo della scrittrice. Anche in quest’ultimo passo appena riportato, e tratto sempre da Estivi
terrori, è forte la sensazione dell’allontanamento (coatto, sempre)
dalla propria casa, dell’interesse economico visto come primo e unico idolo del mondo, delle necessità di un ritorno alla Legge, a Dio.
Altro punto d’intersezione fra il discorso del capo Seattle e l’altrettanto accorato sfogo di Ortese è da ritrovare, credo, in un riferimento che striscia di continuo nell’opera dell’autrice, a volte venendo inevitabilmente menzionato. Parliamo di San Francesco,
174 la figura per eccellenza amica della madre terra, rispettosa e devota del creato in senso ampio: un esempio che dovette lavorare molto, nell’opera e nella vita, di Anna Maria Ortese. In un contributo de Le Piccole Persone, il Santo di Assisi è messo in correlazione con due poeti.
Mi provo a cercare in tutta la letteratura italiana un momento di tenerezza e irrealtà di visione – diciamo di visione della realtà, quale dovrebbe essere la narrativa – e ne trovo riflessi in S. Francesco, in qualche momento del Purgatorio, e dopo alcuni secoli in qualche verso di Pascoli.8
Qui Ortese sembra tuttavia scontenta. Siamo all’interno di un discorso su «l’inimicizia» del «cuore italiano»9, collegata
ovviamente ai grandi temi della natura e degli animali. La scrittrice non pare essere soddisfatta da quei tre esempi, ma in un momento successivo ritorna sulla figura del grande Santo.
Anche gli animali, come le montagne, le terre, i fiumi, i libri, i monumenti, le donne, sono vita e, in quanto inseriti nel territorio di un paese, sono parte della vita di quel paese. I bisonti erano infatti l’America, come lo erano le sue tribù primitive e lo sono oggi le sue popolazioni. Gli uccelli sono la Germania, come lo era Goethe, come lo è il Reno. Animali di ogni genere, lo stesso lupo, in Italia, sono l’Italia, come lo era Francesco d’Assisi, e lo è, oggi, un bambino del povero Sud, o un qualunque onorevole. Dove è vita, entro un territorio, là è la vita di un territorio. Ed è tutta, come vita, unità biologica, psichica, e, a un certo punto, morale.10
8 Anna Maria Ortese, Piccolo e segreto, in Le Piccole Persone…, cit., p. 52. 9 Ivi, p. 51.
175 Anna Maria Ortese è anche colei che afferma che la moralità «è solo e sempre la solidarietà di tutta la vita con tutta la vita»11.
La scelta del corsivo sottolinea l’importanza riposta dalla scrittrice in questo pensiero, pensiero che si rivela quasi sconcertante nella sua semplicità e limpidezza.
Ortese parla di moralità, anzi del grado ultimo della moralità, ma non lo fa filosoficamente; piuttosto, inizia e conclude la sua sentenza attraverso il comandamento forse più conosciuto dagli uomini, dalla scrittrice esteso a tutta la vita, attraverso l’invito alla cooperazione e l’aiuto reciproci.
Soprattutto in questo pensiero, che ha qualcosa di profondamente aurorale, e insieme di totalmente terminale, è possibile leggere l’influenza, quasi ribaltata in scontro, di un autore come Giacomo Leopardi, specie del Leopardi che ragiona, ne La ginestra, sulla possibilità umana dell’unione anziché della disgregazione.
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo, e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole, ove fondata probità del volgo così star suole in piede
11 Anna Maria Ortese, Una sentenza della corte di cassazione, in Le Piccole
176 quale star può quel c’ha in error la sede.12
Ricorderemo come, nella Palinodia al marchese Gino
Capponi, Leopardi negasse ogni tipo di progresso, si ponesse
ovviamente contro l’ottimismo del suo tempo, che proponeva il mito di una nuova età dell’oro, e si mostrasse di conseguenza diffidente verso le riforme politiche e le conquiste tecnologiche, che per il poeta non generavano alcun tipo di felicità. Nella
Ginestra Leopardi continua a escludere la felicità, ma riabilita
tuttavia il concetto di progresso se questo può dar vita a una società migliore, fondata su rapporti più giusti fra l’uomo e i suoi simili.
La natura continua quindi a rimanere esclusa, la natura continua ad essere il nemico. Per Anna Maria Ortese, invece, non può esserci sviluppo e dunque progresso se non si passa dal dialogo con l’elemento naturale, dalla convinzione che l’uomo è solo piccolissima parte del creato, e che quest’ultimo richiede attenzione e allo stesso tempo rispetto.
Sono pochi quei luoghi in cui Ortese si sentirà, da questo punto di vista, al sicuro; pochi i momenti e poche le città, le passeggiate, le notti e le giornate che le daranno conforto. E anche là dove riesce ad afferrare un po’ di pace – placando il terrore dell’essere uomo con la dolcezza che pure esiste sul nostro pianeta, e che la natura, sia pur sempre più sfregiata e offesa, continua a serbare – anche lì Ortese avverte il ragno lancinante della solitudine, quella condizione d’estraneità che è per lei quasi un marchio, scintillante come una malattia e
12 Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, in Canti, a cura di Franco Gavazzeni, BUR, Milano 2016, pp. 603-4, vv. 145-157.
177 automatico come un trauma nascosto. Lo si vede bene da un passo de Le luci di Genova, contenuto sempre all’intero de La
lente scura. Anna Maria Ortese confessa di amare quel luogo, le
ispira perfino sicurezza, ma ciò nonostante non può rinunciare alla sua natura di straniera.
Malgrado ciò, malgrado mi sentissi così al sicuro, l’inquietudine non mi lasciava, e continuavo a preferire, per le mie passeggiate, i luoghi meno frequentati, dove mi sarebbe stato possibile, almeno lo speravo, riflettere intorno alle cause dello scontento, della malinconia che m’impedivano di sentirmi a mio agio nella società italiana, causando tanto isolamento.13
Non senza un certo sconcerto anche da parte di se stessa, Ortese indaga primariamente sui motivi che la distanziano così tanto dal suo Paese.
Qui, con la povertà e l’umile lavoro, vi era una semplicità e amabilità grandissima.
Si era soli, e nello stesso tempo non si era mai soli, almeno, al modo terribile di Milano e di Roma, dove l’altro, se non è tenuto in palmo di mano dalla società, se non brilla per cariche e denari, nemmeno lo vedono, e può gettarsi da solo nella spazzatura, se si ammala; qui, a Genova, l’altro, l’estraneo, era, come tra bambini, un animale caro, e al prestigio o ai denari non si badava. Non, almeno, tra la povera gente.14
Anna Maria Ortese evidenzia, ancora una volta tramite il corsivo, le parole chiave «altro» ed «estraneo», che serviranno
13 Anna Maria Ortese, Le luci di Genova, in La lente scura…, cit., p. 142. 14 Ivi, pp. 139-40.
178 ad accompagnare anche un pensiero parallelo, sempre all’interno delle Luci di Genova.
Io sentivo la mia piccolezza, la mia nullità. […]
Allora, io sentivo questa città come la città più cara, più mia, fra le tante che avevo conosciuto; e una nobiltà intensa, quella stessa la cui assenza mi faceva morire, circondarmi. Qui è nato Colombo, pensavo, di qui ebbe inizio il grande fantasticare di nuovi cammini nel mondo – vedevo Lisbona, il colloquio con la regina di Spagna, il grande aprirsi, infine, di quel mondo! – E mi pareva che tanto tempo non fosse passato, e fossimo ancora nel secolo quindicesimo, e ancora qualcuno si apprestasse a partire, da questa terra, in una notte senza luce, per gettarsi verso l’oceano, verso un avvenire improbabile, ma non meno amato.15
Il fine ultimo di questo ragionamento è sempre, come vediamo, il raggiungimento dell’archetipo dell’indiano d’America, qui visto attraverso gli occhi di chi gli è andato per la prima volta incontro: Colombo.
Non dimentichiamo che in questi scritti è l’Ortese viaggiatrice a parlare, la giornalista dinamica, l’attenta osservatrice che si muove tra l’Italia e l’Europa, e che così facendo è ancora più vicina all’immagine del grande navigatore.
Fino all’ultimo Ortese, pur agganciandosi a Kierkegaard, non è la strada dell’angoscia che segue, bensì quella della speranza, una disperata speranza che la porterà a cercare, in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa, una ‘terra promessa’ ancora possibile, da trovare e da abitare, un’America personale da sentire come casa e
15 Ivi, pp. 142-3.
179 nazione, demografica e spirituale, all’insegna della più profonda fratellanza.
In America però, e paradossalmente, Anna Maria Ortese non ci andò mai. Ciò potrebbe aver contribuito a rafforzare l’immaginario della scrittrice, via via modellando, irrobustendo e quasi pietrificando i suoi presupposti iniziali. Quella che si presentava all’inizio come una curiosa attrazione nei confronti di quella data, 1492, vediamo come si sia fatta strada nel cuore e nelle opere di Anna Maria Ortese, divenendo il punto di arrivo, filosofico e concreto, di un’intera vita.
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