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Sezione prima Documento

1. Il valore del documento fotografico per la scena teatrale e performativa

1.1.2 Fotografia e teatralità

Nel suo saggio The Performativity of the Performance Documentation, Philip Auslander rintraccia una distinzione teorica - già attestata da diversi studiosi - tra due categorie fotografiche relative alla Performance

art, compendiate nelle immagini Shoot di Chris Burden, del 1971, e Leap into the Void di Yves Klein, del 1960. Se la prima fotografia risulta

essere una registrazione diretta della performance, dunque uno scatto utile alla ricostruzione, per quanto frammentaria, dell’azione, la seconda, afferma Auslander, è una vera e propria messa in scena

85 Il primo esempio di autoritratto messo in scena attraverso la fotografia risale al

1840, solo un anno dopo la proclamazione dell’invenzione della daguerrotypie, ad opera del francese Hippolyte Bayard, considerato il quarto inventore della fotografia dopo Niépce, Daguerre e Talbot. L’immagine - che è realizzata attraverso un procedimento tecnico di stampa positiva su carta da lui stesso inventato - vede l’autore simulare il suo suicidio come annegato nel fiume Senna. Posando con il torso nudo mollemente deposto e gli occhi chiusi, Bayard intuisce pionieristicamente il potenziale della fotografia come palcoscenico virtuale in cui ricreare mondi fittizi, evidenziando una teatralità intrinseca al mezzo e “riscoperta” una ventina d’anni dopo con i tableux vivants del movimento pittorialista.

avvenuta con lo scopo di ottenere un’immagine, e non un evento autonomo preesistente allo scatto stesso. “The connection between performance and document is thus thought to be ontological, with the event preceding and authorizing its documentation”, precisa Auslander, mentre in quella che definisce ‘fotografia performata’ invidua lo spazio del documento “[…] thus becomes the only space in wich the performance occurs87.

Pur riconoscendo una distinzione di tipo ideologico tra ‘documento’ e ‘teatralità’, la sua linea tuttavia è quella della riunificazione concettuale delle due categorie, in quanto “both […] were staged for the camera” cioè di fatto gli eventi sono stati messi in scena “to be documented at least as much as to be seen by an audience”88.

Anche se le prime rappresentazioni fotografiche relative alla Body art, spiega Auslander, non erano concepite come vere e proprie performance e per questo ancora oggi vengono definite ‘documenti’ dell’avvenimento, gli artisti dell’epoca si sono resi conto molto presto che trattenere la memoria visiva del loro operato produceva potenzialmente un valore aggiunto all’opera, e dunque la messa in scena è diventata immediatamente e coscientemente ambivalente. L’evento si crea per il pubblico presente, e dunque si costruisce quel rapporto di interazione di cui si è detto più sopra, ma contemporaneamente l’artista ‘performa’ davanti alla macchina fotografica al fine di produrre un’immagine controllata e consapevole, capace di trasmettere l’essenza, per quanto virtuale, della sua arte, come suggerisce anche la O’Dell quando scrive che l’atto performativo in sostanza: “is the virtual equivalent to its representation”89.

87 Auslander P.,Performativity of the Performance Documentation, «A Journal of

Performance and Art PAJ», n. 84, 2006, p. 2.

88 Ivi, p. 3.

89 O’Dell K., Displacing the Haptic. Performance Art, the Photographic Document and

Il fotografo stesso, deduce infine Auslander, quando non corrisponde alla figura del performer, sta a sua volta producendo un’azione davanti al pubblico e dunque interagisce con esso.

Se per Auslander il carattere della fotografia è dunque essenzialmente performativo per via dell’atto che lo produce e per la sua destinazione finale - cioè la fruizione del pubblico - anche per la francese Josette Fèral la nozione di teatralità è attribuibile alla relazione con lo spettatore poiché

essa è soprattutto il risultato di una dinamica percettiva, quella dello sguardo che lega l’osservato […] e l’osservatore. […] La teatralità si presenta dunque come la compenetrazione di una finzione all’interno di una rappresentazione nello spazio di un’alterità, che mette uno di fronte all’altro l’osservatore e l’osservato90.

Come nota Cosimo Chiarelli, il problema del rapporto con il pubblico in relazione ad una nozione più generica di teatralità è riconducibile addirittura a Diderot, quando in una sua lettera del 1762 a Sophie Volland scriveva: “se, quando si dipinge un quadro si pensa agli spettatori, tutto è perduto”91, conferendo dunque al termine una

connotazione negativa anche in riferimento alla pittura.

Nel noto saggio di Micheal Fried, Absorption and Theatricality92 - stilato

nel 1980 sull’onda di quel pregiudizio antiteatrale che ha caratterizzato il dibattito sull’arte contemporanea in pieno postmodernismo93

90 Féral J., La théatralité. Recherche sur la spécificité du language théatral, «Poétique»,

n. 75, 1988, p. 358-359, (trad. italiana a cura di Cosimo Chiarelli), in Chiarelli C., Immagine/Corpo/Supporto. La fotografia alla luce della teatralità, Mei S., (a cura di), La terza avanguardia. Ortografie dell’ultima scena italiana, Op. cit., p. 213.

91 Diderot D., Lettre à Sophie Volland, vol. I, Gallimard, Paris 1938, p- 246, (trad.

italiana a cura di Cosimo Chiarelli), in Ivi, p. 211.

92 Cfr. Fried M., Absortion and theatricality. Painting and beholder in the age of Diderot,

University of Chicago Press, Chicago 1980.

93 Tra i testi più influenti in seno al dibattito definito pregiudizio antiteatrale, oltre a

quello di citato Micheal Fried, è importante menzionare almeno Carlson M., The Resistance to Theatricality, «SubStance», n. 2/3, XXXI, 2002, articolo in cui si indaga il concetto di teatralità in arte in relazione alla performance; Barish J., The Antitheatrical prejudice, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1981; Puchner M., Stage fright: Modernism, Anti-Theatricality and Drama, The Johns Hopkins University

l’autore considera supreme fiction quella pittura settecentesca in cui i soggetti sono raffigurati in modo autonomo e internamente coerente, assorbiti dalle loro attività al punto da non curarsi della presenza del pubblico. Al contrario, tutta la pittura che mira ad esaltare la partecipazione dello spettatore è teatrale, e dunque indegna di essere investita di un qualsivoglia valore artistico.

Del resto lo stesso Fried aveva già manifestato una sproporzionata avversione nei confronti del teatro, da lui definito “negazione dell’arte”, nel contestato testo di stampo greenberghiano e pro-modernismo intitolato Art and Objecthood. In questo saggio Fried - allievo di Clement Greenberg e come il suo maestro votato ambiziosamente all’esaltazione di un’estrema purezza formale del manufatto artistico - critica pesantemente l’arte minimale, accusata di possedere un eccesso di narrazione e soprattutto quell’imprescindibile proprietà che produce compresenza tra opera e fruitore, designata come qualità puramente teatrale, quindi enfatica.

Per potersi definire tale invece, l’arte deve essere dotata di un valore oggettuale, tipico del progetto modernista, che la rende autosufficiente e autoreferenziale, scevra da ogni intenzione ‘teatralizzante’. Scrive Fried:

By the same token, however, the imperative that modernist painting defeat or suspend its objecthood is at bottom the imperative that it defeat or suspend theater. And this means that there is war going on between theater and modernist painting, between the theatrical and pictorial - war that, despite the literalist explicit rejection of modernist painting and sculpture, is not basically a matter of program and ideology but of experience, conviction, sensibility. […] Literalist sensibility is, therefore, a response to the same developments that have

Press, Baltimore 2002; tra i contributi italiani si distingue l’interessante trattazione sull’argomento elaborata da Annalisa Sacchi, Il teatro come forma che pensa. Pregiudizio antiteatrale, materialità e abiezione nella scena postdrammatica, «Itinera», n. 5, 2013.

largely compelled modernist painting to undo its objecthood - more precisely, the same developments seen differently, that is, in theatrical terms, by a sensibility already (to say the worst) corrupted or perverted by theater. Similarly what has compelled modernist painting to defeat or suspend its own objecthood is not just developments internal to itself, but the same general, enveloping, infectious theatricality that corrupted literalist sensibility in the first place and in the grip of which the developments in question - and modernist painting in general - are seen as nothing more than an uncompelling and presenceless kind of theater94.

Il problema della teatralità è strettamente connesso con la natura stessa della rappresentazione scenica e dunque del teatro, la cui “degradata finzionalità [contaminerebbe] gli altri domini dell’arte”95, come nota

Annalisa Sacchi nel saggio Il teatro come forma che pensa. L’autrice tuttavia, pur riconoscendo una sorta di “decentramento contemporaneo del pregiudizio antiteatrale” rispetto ai tempi delle dichiarazioni di Fried, ne distingue un deciso superamento per merito di molti artisti e teorici che guardano al concetto in modo nuovo.

Il tratto peggiorativo del termine, ancora oggi legato all’artificiosità e all’eccesso, come nota ancora Chiarelli, è tuttavia mitigato dalla sua sostituzione con il vocabolo ‘performatività’, meno riprovevole in virtù della sua novità semantica ma soprattutto meno caratterizzato.

Se la natura etimologica di ‘teatralità’ “definisce di volta in volta il massimo dell’illusione, quindi dell’immedesimazione dello spettatore, oppure al contrario l’insieme degli artifici e delle convenzioni sceniche che servono a sottolineare la natura teatrale - e quindi artefatta - della messa in scena”96, allora il termine in sé non risulta in effetti

94 Fried M., Art and Objecthood, «Art Forum», n. 5, 1967, in Auslander P., Performance.

Critical Concepts in Literary and Cultural Studies, Vol. IV, Routledge, London 2003, p. 153. Il saggio originale di Fried è ora pubblicato in Fried M., Art and Objecthood: essays and reviews, University of Chicago Press, Chicago 1998.

95 Sacchi A., Il teatro come forma che pensa. Pregiudizio antiteatrale, materialità e

esclusivamente avverso all’arte, ma possiede una doppia connotazione che afferma “visioni e posizioni anche contrapposte”97.

La dicotomia segnalata da Chiarelli sembra essere molto vicina a quella emersa dalle riflessioni di Auslander secondo il quale, come evidenziato all’inizio del paragrafo, il carattere del testo fotografico, anche quando si parla di immagini documentative di una performance, è sempre e comunque teatrale, o meglio performativo.

Se si travasa questa ambivalenza di significati in campo fotografico, nota ancora Chiarelli, l’inclinazione alla teatralità assume infine un valore anche costruttivo, che permette di guardare indietro, alla storia della fotografia, con un atteggiamento più fresco e aggiornato: “Le prime attestazioni nella lingua inglese del termine theatricality e nel francese d i théâtralité, sono rispettivamente del 1837 e del 1848. Per la lingua italiana l’origine è più incerta ma, per i dizionari, comunque anteriore al 1869”, afferma Chiarelli ripercorrendo una prospettiva etimologica, e aggiunge:

Questa coincidenza cronologica con l’apparizione della fotografia fa riflettere sulla contiguità di questi due ambiti e sulla pervasività, nella cultura visiva del tempo, del paradigma teatrale, caratterizzato da uno specifico regime scopico in cui si fondono lo sguardo prospettico e fisso dell’apparato scenografico […] e quello instabile, parziale e mobile dell’attore. […] A questo modello teatrale di conoscenza del mondo la fotografia attinge le basi costitutive del suo linguaggio molto più che dalla tradizione pittorica98.

Sono diversi gli studiosi che recentemente avvicinano la fotografia delle origini al teatro, affrancandone le logiche estetiche dai codici e dagli stilemi connessi alla pittura, come si è sistematicamente sostenuto in

96 Davis T. C., Postlewait T., Theatricality, Cambridge University Press, Cambridge

2003, in Chiarelli C., Immagine/Corpo/Supporto. La fotografia alla luce della teatralità, Op. cit. p. 211.

97 Ibidem.

passato99. Claudio Marra ad esempio, in qualità di storico e teorico della

fotografia, sostiene che l’oggetto fotografico non è mai stato assimilabile al quadro pittorico, ma esige piuttosto un riconoscimento della sua profonda affinità con le arti performative in virtù della sua componente comportamentale e del valore del gesto fotografico in sé.

In merito alla fotografia contemporanea, emerge inoltre una rinnovata posizione critica che sposta l’attenzione dai principi documentaristici al dato concettuale. Se lo specifico fotografico sembra avere oltrepassato i tradizionali riferimenti come: “oggettività della visione, realismo della rappresentazione, dipendenza dal referente”, allora

[…] la visione pittorico-formalista […] oggi [è] quasi totalmente travalicata dalla dimensione esperienziale e performativa, […] che richiede un’elevata capacità di immedesimazione e di partecipazione da parte del fruitore, in quanto spettatore di una narrazione per immagini100.

Si torna dunque, ancora una volta, alle premesse auslanderiane che stabiliscono un nesso inossidabile tra fotografia-documento e fotografia performata, che il termine teatralità accoglie similmente sotto la sua egida: “The act of documenting an event as a performance is what

constitutes it as such” proclama ancora Auslander, e incalza:

Documentation does not simply generate images/statements that describe an autonomous performance and state that it occurred: it produces an event as a performance and […] the performer as artist101.

In altre parole, la teatralità o performatività della fotografia, comunque la si voglia chiamare, è sostanzialmente connaturata al mezzo stesso e l’atto del fotografare, che sia un’opera d’arte, una performance o il 99 Di questo argomento ne ha parlato anche chi scrive nell’articolo Photography as

theatre. La rivincita della teatralità nella fotografia contemporanea, «IUSVEducation», n. 2, dicembre 2013, https://issuu.com/iusve/docs/rivista_iusveducation_digitale_n2. 100 Ivi, pp. 84-85.

teatro, non produce mai pura e semplice testimonianza ma diviene esso stesso rappresentazione.

Inoltre, la percezione della fotografia da parte di un pubblico che assiste al gesto fotografico stesso, aggiorna il rapporto performance-spettatore perché cancella quella condizione di illusione e la relazione con la finzione a cui è sottoposto. E il guadagno della fotografia, in tutto questo, appare tutt’altro che secondario. L’emergente idea di una componente teatrale che detronizza secoli di paragoni con la pittura, evidenzia il carattere interdisciplinare della fotografia e invita ad una lettura più complessa che contiene vari livelli di significato.