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Sezione prima Documento

1. Il valore del documento fotografico per la scena teatrale e performativa

1.4 Due casi a confronto I fotografi e il teatro di ricerca 1 Guido Guidi e il Teatro Valdoca

1.5.1 Simposio Teatri da camera Lo spettacolo della

fotografia, Bologna,

La presente trascrizione del Simposio è stata eseguita integralmente da chi scrive su autorizzazione della curatrice Silvia Mei, in base ad una registrazione diretta di tutti gli interventi del pomeriggio. Si segnala che il testo riportato non è stato tuttavia revisionato, né ratificato da parte dei relatori e dalla curatrice del progetto363.

Silvia MEI

Buongiorno a tutti, presento questo Simposio su Teatro e fotografia che fa parte del progetto intitolato Teatri da Camera. Lo spettacolo della

fotografia, rassegna che ha visto susseguirsi diversi contributi nei giorni

precedenti364, ma che non si esaurisce tuttavia in questa tavola rotonda.

Proseguiamo infatti il progetto con la performance La memoria della

carne, che si terrà al LIV - sede di Instabili Vaganti - e con la mostra della

fotografa Luana Filippi intorno al progetto Migr-azioni, condiviso proprio con il medesimo gruppo. In seguito alla performance si terrà un incontro con la fotografa e la compagnia, che ci mostreranno il ciclo fotografico tratto da Stracci della Memoria, produzione internazionale

363 Il primo intervento al Simposio, tenuto dal chairman Marco De Marinis, è stato

pubblicato, riveduto e corretto, in Mei S., (a cura di), La terza avanguardia. Ortografie dell’ultima scena teatrale, «Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo», n. 24, Annale 2015, La Casa Usher. Qui si riporta la versione originale. 364 Il progetto Teatri da camera. Lo spettacolo della fotografia, curato da Silvia Mei e

svoltosi a Bologna dal 1 al 14 febbraio 2015, è statorealizzato con il sostegno di Regione Emilia-Romagna-Assessorato Cultura, sport, in collaborazione con Elastico Studio, Il Cassero LGBT Center, LIV-Centro di Ricerca e Formazione nelle Arti Performative e Spazio espositivo Adiacenze, e ha messo in campo diverse competenze. In apertura della rassegna due workshop, il primo tenuto dalla fotografa Futura Tittaferrante e l’altro dal regista Claudio Angelini, hanno fatto da contrappunto ad una serie di esposizioni e incontri sul tema fotografia e teatro, tra cui la mostra di Claudia Marini, Teatrini di carta, e la presentazione sotto forma di performance del libro d’artista Ahi, di Rita Vitali Rosati. Oltre all’ultima performance di Instabili vaganti a cui accenna la Mei nella presentazione, sono stati proposti The dead di Città Ebla, il 5 febbraio, e Anticamera di gruppo nanou, il 7 febbraio, entrambi messi in scena presso il Laboratorio delle Arti/Teatro a Bologna.

che ha coinvolto diversi fotografi, e le loro poetiche, in una direzione di documentazione del progetto stesso.

Il Simposio di oggi invece vuole in un certo senso funzionare da dinamo ad alcune sollecitazioni che gli appuntamenti dei giorni scorsi hanno prodotto. Come ho avuto modo di precisare in diverse occasioni e nel discorso di apertura intorno a questo progetto, Teatri da Camera vuole declinare il rapporto tra teatro e fotografia lungo una particolare direttrice, che non è quella più immediata e diretta, o meglio quella più riconoscibile, legata alla documentazione fotografica del teatro. Questa applicazione della fotografia al teatro pone inevitabilmente delle questioni inderogabili. Se si ammette che la documentazione per il teatro ha funzionato da sottotesto all’ideazione di questo progetto […], la direzione che volevo percorrere […] è relativa all’interpenetrazione dei linguaggi, alla condivisione linguistica che non è però di tipo illustrativo, né banalmente una giustapposizione multimediale. Il lavoro di Città di Ebla365 rende chiaro quello che intendo. Teatri da camera

quindi, intende tracimare la vicenda stessa della fotografia per toccare questioni che sono più intimamente legate all’immagine e più specificatamente ai dispositivi della visione. Dispositivi che attestano una divaricazione tra ciò che vediamo o pensiamo di vedere e la realtà a cui diamo presenza attraverso le nostre azioni di registrazione ottica. In particolare, pensando soprattutto alla produzione spettacolare e performativa degli ultimi dieci anni, il cuore della questione è quello che è stato nominato ‘crisi’ o ‘superamento della rappresentazione’. Con questa nozione si intende evidentemente un tipo di rappresentazione che non è illustrativa rispetto ad un’entità testuale data, ma non è neanche meramente performativa, e per performativa intendo sia la sua declinazione rituale che quella artistica. Sicuramente questa crisi della rappresentazione vuole comunque superare le istanze delle formule del 365 Del progetto teatrale The dead di Città di Ebla, che usa la fotografia in modo

innovativo in scena, ne parleranno in parte i relatori durante gli interventi. In questo lavoro di ricerca inoltre, The dead costituisce uno dei casi studio inseriti nella seconda parte della tesi.

grande teatro di regia, che ancora oggi espone, camuffa, mistifica le cornici della rappresentazione, ma rimane comunque chiuso nella scatola cinese della metateatralità.

Ma in quali modi si dà e si compie questo superamento? Come accennavo prima, torna in gioco la riflessione intorno all’ontologia dell’immagine e in modo particolare sui suoi supporti, di cui si parlerà anche nel corso degli interventi di oggi. Per supporti si intendono quei materiali, quelle superfici che permettono all’immagine, in potenza, di esistere, cambiando essi stessi la loro origine.

Il dibattito di questo pomeriggio alterna artisti che hanno riflettuto sullo statuto dell’immagine rispetto al teatro insieme a storici e teorici del teatro, e ha preso le mosse da una serie di stimoli - che sono stati forniti contestualmente a tutti i relatori - a partire dal noto saggio di Jacques Derrida su Antonin Artaud, Forsennare il soggettile. Non approfondisco ora il tema perché lascerò in seguito tale compito al coordinatore di sessione che seguirà i lavori, il Prof. De Marinis.

Vorrei invece concludere introducendo brevemente un montaggio di estratti di film, che ho realizzato insieme a Alfiano Razzi, e che ho pensato guardando alla nozione di dispositivi della visione e di patologia della visione. La fotografia sembra essere il ricettacolo più assorbente di queste infezioni della vista, come tanti altri strumenti ottici che l’hanno preceduta e che hanno continuato a vivere parallelamente a lei. Tuttavia nella selezione che ho compiuto, non è alla rappresentazione della fotografia nel cinema che ho pensato, perché per questo sono stati realizzati diversi studi affascinanti tra i quali quello di David Campany, Photography and cinema del 2008, che rappresenta un inventario molto ricco di tutte queste forme di relazione. La selezione che propongo potrà invece deludere, soprattutto in riferimento all’inserimento di alcuni film noti come Blow up, che qui invece lascia tracce meno rappresentative. La selezione, dicevo, ricade su alcuni film che apparentemente possono avere un altro tipo di relazione con la

fotografia, che può non essere così immediato e perspicuo ad una prima visione.

Per fornire qualche indicazione per la lettura del filmato, la struttura scorre lungo due direttrici che sono strettamente legate alla fotografia e alla pulsione dello sguardo, Eros e Thanatos. Nell’organizzare le varie occorrenze rispetto a queste due polarità, mi sono trovata però a percorrere una terza pista che faceva intrecciare l’erotismo e la morte, cioè la pista relativa ai regimi dello sguardo, ovvero al darsi della visione. In questo modo i diversi clip hanno trovato la loro successione in modo quasi automatico, per arrivare al punto caldo del montaggio, con la tripletta che vede succedersi La finestra sul cortile, I misteri del

giardino di Compton House e appunto Blow Up. […] Con l’unione di

questi tre film voglio cercare di orientare lo sguardo intorno alla polverizzazione del reale in tracce che a quella realtà non possono più rimandare completamente. L’Incipit è tratto da un film a me molto caro,

Ascensore per il patibolo di Luis Malle del 1957. Buona visione.

Marco DE MARINIS

Buongiorno a tutti, iniziamo la tavola rotonda di questo Simposio dopo questo bellissimo prologo, l’interessante montaggio di film che ci spinge forse in altre direzioni perché vorremmo continuare a vederne, continuare a parlarne, di questo straordinario rapporto tra cinema e fotografia. Ma stiamo invece sul titolo di questo incontro, Forsennare il

supporto!

Su questo titolo ho avuto una qualche responsabilità, e ci tornerò in conclusione del mio intervento introduttivo, in cui cercherò invece di dare parola, pariteticamente, a tutta una serie di artisti e studiosi che tratteranno l’argomento.

Da storico del teatro, vorrei cominciare con una serie di riflessioni preliminari che vedono la questione dal punto di vista della scena, visto che dopo ci saranno anche storici della fotografia Cosimo Chiarelli,

collegato con noi virtualmente366, e Claudio Marra, che svilupperanno

l’argomento dall’altro punto di vista. In seguito parleranno anche tre registi, Claudio Morganti che terrà una breve keynote, Pietro Babina e Claudio Angelini, che invece tratteranno e valuteranno la questione dal punto di vista del lavoro teatrale.

Fin dall’inizio il rapporto tra teatro e fotografia si è articolato su diversi piani, e ovviamente in un primo momento si è trattato soprattutto di un interesse della fotografia e dei fotografi nei confronti del teatro. Solo in un secondo momento è emerso l’interesse del teatro nei confronti dell’immagine. Inizialmente quindi le cose sono andate non troppo diversamente da quello che è successo tra teatro e cinema: prima è il nuovo mezzo espressivo che si interessa al vecchio e anzi in qualche modo parte da questo, e poi più tardi sarà il vecchio medium ad interessarsi al nuovo, ad utilizzarlo, a farsene influenzare a più livelli. E’ cosa nota che sia andata così per il cinema e, mutati mutandis, è andata cosi anche per la fotografia, la quale si rapporta al teatro fin dall’inizio sia come soggetto che come dispositivo, non diversamente da come aveva spesso fatto la pittura.

Sappiamo di come i pittori, Rembrandt più di tutti, ma anche Caravaggio e fino ad Egon Schiele, allestivano i loro soggetti con cura teatrale, come vere e proprie messe in scena, servendosi non di rado di attori e comunque usando modelli e di illuminazioni. E non dissimilmente fecero i fotografi tra Otto e Novecento. Si può parlare di messe in scena

fotografiche non diversamente da come si parla di messe in scena cinematografiche, e in entrambi i casi il modello è fornito dalla messa in

scena teatrale. Attraverso la scatola ottica del teatro all’italiana, la messa in scena teatrale aveva costruito nel tempo - a partire dal Seicento - un dispositivo per la rappresentazione visiva e per la visione. Della questione dell’allestimento teatrale in fotografia si è parlato 366 Cosimo Chiarelli non partecipa fisicamente al dibattito del Simposio perché

bloccato a Parigi in aeroporto. E il collegamento via Skype predisposto per un suo intervento a distanza in realtà registra diversi problemi di funzionamento, per cui il suo contributo viene purtroppo annullato.

spesso anche a proposito dell’attendibilità e la veridicità di certe foto famose, pensiamo ad esempio al miliziano di Robert Capa piuttosto che alla bambina vietnamita nuda che fugge dal villaggio bruciato dal Napalm.

Ma non voglio fermarmi ulteriormente su questo punto, mi basta averne accennato e casomai poi gli storici della fotografia, se credono, potranno ripartire da qui. Mi sposto invece decisamente dall’altra parte, quella del teatro.

La mia domanda di partenza è la seguente: come e in quanti modi si è manifestato l’interesse del teatro nei confronti della fotografia?

Ecco, direi che l’interesse si è manifestato almeno a tre diversi livelli: 1. come mezzo di documentazione e di auto-documentazione

2. come mezzo espressivo e materiale scenico

3. come dispositivo, come giustamente ha detto Mei all’inizio.

Questo terzo tipo di utilizzo si sviluppa soprattutto di recente, nel lavoro delle ultime generazioni del nuovo teatro di ricerca, come lo spettacolo The dead di Città di Ebla, che ci ha fornito un notevole esempio. E’ interessante notare come questo uso teatrale del dispositivo fotografico si sia intensificato e raffinato a seguito di una certa crisi del teatro multimediale classico, quello dell’uso del video, del film e più recentemente dei loro avatar digitali.

Ma su questo potranno intervenire con più competenza di me i registi a seguire e la curatrice.

Da storico voglio però soffermarmi brevemente sugli altri due tipi di utilizzazione teatrale della fotografia.

Sull’uso della fotografia come mezzo espressivo e come materiale scenico si potrebbe parlare per ore. C’è un intero secolo di teatro, a partire almeno dalle messe in scena sovietiche della Russia post- rivoluzionaria, per passare al teatro politico di Erwin Piscator e i suoi allestimenti, dove si usavano diapositive e fotografie ma anche filmati, fino ad arrivare all’esempio contemporaneo di Romeo Castellucci, che

recentemente ha aperto o chiuso due spettacoli recenti con una foto, ad esempio l’immagine di quel Nietzche che figurava sul sipario in apertura del Parsifal al Teatro comunale Bologna qualche giorno fa, o la foto di donna di Bellocq che chiude Four Season Restaurant, spettacolo che deve il titolo al pittore Marc Rothko. Il caso Castellucci è interessante perché ci svela un altro tipo di rapporto, più sottile e più profondo, che lega la scena contemporanea alla fotografia. Parlerei di fotografia come immaginario e fonte di ispirazione segreta, non esplicitata. Che la visionarietà di Castellucci si nutra profondamente di un immaginario fotografico e filmico è risaputo, meno noto è che il punto di partenza non dichiarato in opere recenti siano state proprio delle fotografie. Ad esempio Diane Arbus per il ciclo di spettacoli sul volto, compreso il contestatissimo Sul concetto di volto del figlio di dio, fino a Il velo nero

del pastore e infine Four Season a cui accennavamo poco fa. Il volto

umano è d’altro canto il soggetto fotografico per eccellenza come in precedenza era stato un soggetto pittorico.

Dirò qualcosa di più invece sul punto 1, cioè sulla foto intesa come documentazione, come promemoria storico. Sull’uso della foto come mezzo di auto-documentazione è utile ricordare che Brecht è stato uno tra i primi a servirsi della fotografia in questo modo. E l’ha fatto con i Libri di regia, i ModellBücher, con i quali all’inizio degli anni Cinquanta cerca di fissare le messe in scena allestite con la celebre compagnia del

Berliner Ensemble. E’ probabile che l’idea di comporre dei Libri Modello

per le sue regie sia nata proprio dalla considerazione delle potenzialità documentarie della fotografia.

Dell’esposizione del metodo di stesura del Modellbücher si dice esplicitamente soprattutto sul libro collettivo Theaterarbeit, la cui prima edizione è del 1952, poi uscito in Italia per Il saggiatore negli anni Sessanta. In questo testo si parla della possibilità di comporre modelli esatti, totalmente legata al perfezionamento tecnico della fotografia teatrale. Su questo scrive anche Ruth Berlau, la fotografa del Berliner

Ensemble che è anche la più stretta collaboratrice di Brecht ed eccellente fotografa. E’ infatti la stessa Berlau che dice come la fotografia teatrale, per essere efficace, deve captare il carattere dell’esecuzione scenica, il suo senso artistico, quindi non deve risultare necessariamente bella o tecnicamente perfetta.

Vediamo alcune foto del libro modello su Madre coraggio, in particolare le foto riguardanti un momento famoso dell’allestimento brechtiano, cioè l’urlo muto della madre sulla salma del figlio che poco prima ha rinnegato, cioè ha finto di non riconoscere in prigione. La protagonista è Helene Weigel, moglie di Brecht, protagonista di quasi tutte le sue opere di quel periodo.

Resterei Su Brecht e Madre coraggio anche per trattare brevemente l’aspetto di documentazione della fotografia a scopo critico-esegetico, più che artistico.

Rimangono insuperate le pagine che Barthes ha dedicato alle fotografie scattate da un famoso fotografo francese, Roger Pic, che con il suo teleobiettivo ha ripreso interamente lo spettacolo del 1957, la seconda volta che Brecht andava a Parigi. Barthes parla addirittura di film fotografico e le sue parole sono insuperate, sia per l’analisi critica dello spettacolo sulla base della documentazione fotografica, sia come riflessione sulle possibilità della documentazione fotografica in relazione al teatro. Scrive Barthes: “la fotografia rivela proprio ciò che sfugge durante la rappresentazione, il dettaglio. E il dettaglio è esattamente lo spazio in cui risiede il significato, ed è cosi importante proprio perché il teatro di Brecht è un teatro della significazione”367.

E ancora più chiaro è il secondo testo che Barthes dedica agli spettacoli brechtiani il secondo anno che arrivano a Parigi, si chiama Commentaire

a Mère Courage et ses fils. Qui torna su di un concetto già espresso nello

scritto precedente, e dice: “queste fotografie di Pic, sono fedeli ma non sono mai servili. Rivelano lo spettacolo mostrando alcuni particolari che 367 Barthes R., Sul teatro, Meltemi, Roma 2002, p. 225.

inevitabilmente non appaiono nel momento della rappresentazione ma che contribuiscono alla sua verità e hanno quindi una vera funzione critica. Non illustrano, aiutano a scoprire l’intento profondo della creazione”368. E poco più avanti: “Insomma queste fotografie isolano per

rivelare meglio. Nonostante siano letterali, infatti rifiutano sempre di interpretare i fatti esteticamente, prendono posizione. Scelgono dei significati. Aiutano a passare da un ordine fattuale ad uno intellettivo. Espongono, nel senso ambiguo e prezioso del termine, ovvero rappresentano e al tempo stesso insegnano […]”369.

Nella scena famosa dell’urlo muto di Helene Weigel, fotografata da Pic, Barthes evidenzia un altro dettaglio e dà un’altra lettura della scena. Tutti si soffermano sull’urlo - chi ha citato Guernica di Picasso, chi ha riportato che la Weigel si è ispirata ad una foto di una madre indiana accovacciata accanto al cadavere del figlio a Singapore - ma Barthes si sofferma invece sulla schiena del cappellano, che è il suo punctum, come avrebbe poi detto in un testo di vent’anni dopo, La camera chiara. Barthes si chiede qual è l’immagine più sconvolgente, e individua proprio la schiena del cappellano che si allontana per pudore, o per impotenza. “Questa schiena curva che si ritrae, raccoglie tutto il dolore della madre di per sé insignificante”370.

Importanti risultano anche le osservazioni di Barthes sul fatto che la fotografia evidenzi, esalti i ‘gesti citabili’ delle messe in scena brechtiane, cioè quei gesti di cui è fatto il teatro epico per Walter Benjamin, e mi riferisco al suo famoso saggio sul teatro epico di Brecht degli anni Trenta. Ma più in generale evidenzia il fatto che nel teatro brechtiano, come nella grande pittura realistica, è il quadro, il tableau, scrive Barthes, “l’elemento narrativo fondamentale”. E nota di di conseguenza che “la sua visualità, (quella brechtiana) è carica di intelligenza, significa solo per sé, al contrario di quello che accade di 368 Ivi, p. 246.

369 Ivi, p. 147.

solito nella visualità del teatro di regia”. Teatro di regia, scrive ancora Barthes, che ha una visualità abbastanza pleonastica, decorativa e spesso inutile. Alla fine l’autore arriva a dire che le fotografie di Mère

Courage “sono chiare, leggibili quanto la leggenda di Sant’Orsola narrata

da Carpaccio a Venezia”371.

Mi avvio alla conclusione di questo mio breve intervento con qualche considerazione sul titolo della giornata di studi: Forsennare il supporto. Per la precisione si tratta di una traduzione che io stesso feci a suo tempo, e che si trova nel mio libro La danza alla rovescia di Artaud ed è una sorta di traduzione da Jacques Derrida, il quale ha composto mettendo insieme due parole artaudiane separate: forsener le subjectil.

Forsennare il supporto, dunque, è una formula che si presta ad

enunciare/condensare il programma estetico dell’Artaud degli anni Quaranta, e del ‘dopo i manicomi’. Programma estetico che Artaud persegue con una determinazione feroce e lucida e che si basa sull’idea di stravolgere a più livelli il supporto, anzi i supporti usati, forzandoli oltre i loro limiti: che si tratti della piccola pagina dei famosi Cahiers, o della pagina dei grandi disegni; che si tratti della lingua stessa, sottoposta a radicali sollecitazioni grammaticali e lessicali fino a farla diventare espressamente una lingua straniera (come dice lui stesso) fino ad inventare un’altra lingua, apparentemente incomprensibile, quella delle Glossolalie; che si tratti della voce nelle performance orali - che sono forse la cosa più straordinaria degli ultimi anni di Artaud; oppure che si tratti del corpo, che è ovviamente il supporto più