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Vasco Ascolini al Teatro Valli di Reggio Emilia, tra documentazione e interpretazione

Sezione prima Documento

1. Il valore del documento fotografico per la scena teatrale e performativa

1.3 Il panorama italiano Prolegòmen

1.3.1 I fotografi del teatro istituzionale contemporaneo

1.3.1.2 Vasco Ascolini al Teatro Valli di Reggio Emilia, tra documentazione e interpretazione

Il ‘Romolo Valli’ di Reggio Emilia, classico teatro all’italiana costruito tra il 1852 e il 1857, è una struttura municipale che, sin dal principio, offre al suo pubblico un vasto repertorio di balletto, lirica e prosa. Negli anni in cui Vasco Ascolini ha frequentato l’istituzione, dalla stagione 1972/73 al 1990, le proposte sono state tuttavia molteplici e insolite, grazie ad una politica culturale che ha supportato sperimentazioni inedite. Sotto la direzione del sagace Guido Zannoni, negli anni Settanta e Ottanta il Valli ha dischiuso le porte della tradizione per rispettare le attenzioni di un pubblico più disponibile alle novità260: Martha Graham Dance

Company, il balletto giapponese Kabuki e il Teatro Nō, Marcel Marceau, Lindsay Kemp, Maurice Bejart ma anche Carmelo Bene e Living Theatre, sono solo alcuni esempi delle proposte presentate in quegli anni.

E’ in questo quadro peculiare così fervido che Ascolini forgia il suo sguardo e acquisisce suggestioni, costruendo gradualmente un linguaggio fotografico personale che si arricchisce, una stagione dopo l’altra, di esperienze umane e teatrali impareggiabili: “Molte persone”, 259 Ivi, p. 236.

260L’atmosfera che accoglieva il risvegliarsi di una crescente attenzione da parte

degli spettatori e dei cittadini in quegli anni, fu soprattutto “il risultato di un’interpretazione coraggiosa dei nuovi bisogni che le inquietudini del sessantotto avevano rivelato e della opzione decisa verso la produzione contemporanea”,Davoli S., De Michelis M., Lanzarini O., Reggio Emilia. Il teatro, i teatri, la città, Silvana Editore, Cinisello Balsamo (MI) 2008, p. 97.

racconta il fotografo, “quando si rendono conto che ho alcune migliaia di negativi del genere teatrale e leggono i nomi delle compagnie, pensano che abbia girato il mondo. Preciso sempre, che in quel periodo straordinario di una ventina d’anni, era piuttosto il ‘mondo del teatro’ che girava attorno a Reggio Emilia”. E altrove aggiunge:

[…] devo confessare che, almeno fino al 1987, fare fotografia di teatro era anche una bella esperienza dal punto di vista umano e culturale. Gli attori (e intendo tutti gli attori, da quelli della prosa, ai danzatori, ai mimi, agli orchestrali) erano molto disponibili, parlavano con te261.

Lo scambio esperienziale e intellettuale è stato e rimane una questione vitale per Ascolini, che trae linfa creativa dall’incontro con l’altro; in particolare, lui stesso evidenzia l’influenza decisiva del confronto fotografico prima con Mario Giacomelli, che lo orienta verso l’uso di un bianco e nero drammatico, ma soprattutto con Paolo Monti, il quale lo induce a riflettere su quello che sarebbe divenuto in seguito il tratto distintivo della sua cifra espressiva. La figura retorica della metonimìa e la sua inflessione nella sineddoche, di cui i due ragionano insieme, diventano per Ascolini il telaio per un teorema a cui riferisce tutta la sua poetica:

[…] nel mio lavoro di ricerca non ho mai fotografato tutto quello che stava sulla scena, […] preferisco parti, frammenti, pezzi, l’essenza […] una parte per il tutto262 ,

riconosce il fotografo, evidenziando come modello una pratica visiva che isola lacerti significativi e li reifica, rivelando nel contempo un tentativo di penetrazione nell’essenza del soggetto.

Nel suo caratteristico linguaggio fotografico, Ascolini,

261 Cfr. A futura memoria. Intervista a Vasco Ascolini riportata in questa tesi, p. 240-

241.

[…] rifiuta la veduta centrica, evita nei limiti del possibile i quadri d’insieme e si immerge invece nello spettacolo per segmentarlo, coglierne dei frammenti, delle tracce significanti”263, con le quali

riorganizza nuove immagini, che sono “storia dentro alla storia264.

Sconfessando quella concezione monoculare che induceva fotografi come Mulas a riprodurre la scena in modo pedissequo e funzionale allo spettacolo, Ascolini al contrario offre una sua personale interpretazione dell’evento scenico, trasformando il documento teatrale in sintesi concettuale, in segno iconico che porta con sé la traccia del referente ma che di fatto evoca un clima, più che descriverlo.

I mezzi toni, l’uniforme scabrosità della materia […] ottenuta esasperando la grana della pellicola ad alta sensibilità non convergono verso la descrizione analitica delle forme,

afferma Massimo Mussini, che sottolinea inoltre:

[Ascolini adotta] un tipo di fotografia a forte contrasto e a scarsa definizione che, per tali caratteristiche, diminuisce fortemente le proprie capacità informative265.

La sua attenzione al particolare amplificato, gli spazi indefiniti del nero che contrastano con i bianchi puri dei volti e dei corpi[fig. 32], l’aspetto minimalista ed enigmatico delle figure, aprono una dimensione psicologica dell’immagine che non si fa più strumento di conoscenza, ma piuttosto esperienza privata, come osserva anche Aaron Scharf:

263 Bonini G., Pose teatrali. Scritture fotografiche di Vasco Ascolini, catalogo

dell’omonima mostra tenuta alla Sala Piermarini del Teatro di Bibiena, novembre/dicembre 1982.

264 Zannier I., Fotografia e teatro per Vasco Ascolini, in AA VV. Vasco Ascolini. Le

fotografie per il teatro, Edizioni Analisi, Bologna 1989, p. 40.

265 Mussini M., Un teatro della memoria, in Il corpo in scena/visto da Vasco Ascolini,

Ascolini’s diligent attention to the most expressively significant fragments of face and body increases the psychological force of the staged event. The quintessential Ascolini image is evident where, with minimal means, only the puissant sign is presented. His images appear in an indefineable space with no evidence of props or set or other peripheral distraction. The concentration on the fragment is supreme266.

L’operazione fotografica di Ascolini è dunque tesa alla creazione di immagini indipendenti, svincolate dai consueti modelli e dall’evento teatrale in sé, con le quali inventa a posteriori una nuova forma narrativa, fatta di segni e di frammenti ‘potenti’ e ‘supremi’ [fig. 33]. Come testimonia il fotografo stesso, per raggiungere quel tipo di risultato, è stato necessario tuttavia progettare il lavoro fotografico su diversi piani. Inizialmente, a partire da un’osservazione generica della scena, Ascolini procede con la creazione di fotografie destinate all’archivio del teatro, realizzando una serie di scatti più tradizionalmente legati all’idea di documento, e perciò per lui poco interessanti. In seguito, una volta individuati i momenti fotograficamente salienti, ritorna in teatro per produrre scatti più vicini alla sua sensibilità e riservati questa volta al suo personale archivio. Infine, come ultimo step, la sessione di camera oscura garantisce una sapiente elaborazione dell’immagine fotografica per precisare e rifinire la sua costruzione visiva e terminare l’opera267.

“Dopo il ‘clic’ fotografico in situazione”, spiega Giuliano Soliani,

[…] nella fase del ripensamento compositivo in studio, [il fotografo] isola una circostanza, un dettaglio magari fatto di dettagli, una 266 Scharf A., The Theatre Photographs of Vasco Ascolini, in Vasco Ascolini. Le

fotografie per il teatro, Op. cit., p. 7.

267 Come spiega il fotografo, gli scatti realizzati su commissione al Teatro Valli erano

un “onesto” lavoro retribuito e senza velleità artistiche, mentre la seconda versione delle fotografie, quella personale, non aveva circuito né mercato, fino a quando Ascolini non decise di renderla pubblica inviando portfoli a musei ed istituzioni esteri, che ne decretarono progressivamente il successo. Cfr. A futura memoria. Intervista a Vasco Ascolini, Op. cit.

posizione emblematica resa fragrante dallo stesso sviluppo della foto, dal tipo di carta, dal pathos ottenuto attraverso vari tentativi di contrasto chiaroscurale, […] sicché la sensazione di colui che guarda è composta vuoi da un’impressione misteriosa che proviene dall’istinto geniale di uno scatto, vuoi dall’avvertimento di una cura formale e molto geometrica dell’immagine, che si presenta così ricca di impressioni compositive268.

L’esaltazione ossessiva di precisi schemi formali - diagonali, strutture triangolari, regola dei terzi[fig. 34] - espletati attraverso una ricerca dell’inquadratura semplice ma efficace, trasforma i corpi in tracciati di linee curve o spezzate, e i volti in maschere geometrizzate da una luce bianca, accecante, che svuota gli sguardi rendendoli funesti [fig. 35]. I tagli asimmetrici eseguiti da Ascolini in camera oscura inoltre, con la loro rigorosa precisione, contribuiscono ad accentuare quella “fissità scultorea di gusto acheo […] che rende la forma simile al marmo”269.

La qualità plastica delle figure di Ascolini è in effetti riconducibile ad una dimensione scultorea dell’immagine270, la cui tridimensionalità è

enfatizzata dalla tecnica low key, usata come cifra espressiva per monumentalizzare le forme.

La resa fotografica della presenza fisica del soggetto sembra coincidere con un principio di astrazione che rievoca quel “fecondo, […] libero gioco dell’immaginazione”271 lessinghiano, contrapposto al tragico,

arcaico e contestato principio dell’imitazione della natura.

Se infatti Ascolini evita la duplicazione in immagine delle pose attoriali nello spazio, per concentrarsi piuttosto sulla trascrizione critica di 268 Soliani G., Ipotesi didattica per una “lettura”, in Vasco Ascolini. Le fotografie per il

teatro, Op. cit., p. 58. 269 Ibidem.

270 Un altro tema molto frequentato fotograficamente da Ascolini è, non a caso, la

statuaria. In diverse occasioni al fotografo sono state commissionate indagini sulla scultura antica e contemporanea, come ad esempio il lavoro per il Musée Rodin e per la sezione dedicata all’antica grecia al Musée du Louvre di Parigi. Cfr. A futura memoria, Op. cit.

elementi tesi e modellati dalla luce, è perché il suo approccio è ben conscio dei rischi del lessico fotografico tradizionale:

La fotografia deve dare l’informazione sufficiente per smuovere il fantastico e l’immaginario, […] deve sollecitare il pensiero, chi guarda deve continuare a pensare a quello che c’è ma soprattutto a quello che non c’è. […] Una buona fotografia, di teatro ma non solo, ti dice quello che non è ancora successo. E’ questo che deve muovere un’immagine272.

Nella serie di fotografie scattate negli anni 1981 e 1983 al teatro Kabuki e alle danze giapponesi, il vocabolario di Ascolini si fa ancora più essenziale poiché “non si rivolge più alla memoria di cose già viste ma a quell’altra, insondabile memoria, che è l’inconscio personale e collettivo”273. Attraverso una progressiva sottrazione della materia

corporale, le figure vengono svuotate fino a divenire puro tratto grafico, muto e silenzioso per via dell’assenza della bocca, che in molte di queste fotografie viene appena accennata,[fig. 36] come se del volto dovesse rimanere solo la sostanza primaria, cioè lo sguardo. Gli occhi dei personaggi, in tutte queste fotografie, sono infatti sottolineati da neri profondi che solcano il candore dei visi, e talvolta si sdoppiano attraverso un’abile doppia esposizione del negativo[fig. 37] quasi a riconquistare quell’inquietudine surrealista che trasfigurava la realtà in sogno274.

La sensazione di immobilità e di lentezza che traspare da queste fotografie è in realtà una percezione trasposta dall’immaginario di Ascolini, influenzato più dalla lettura di un testo di Roland Barthes che 272 A futura memoria. Intervista a Vasco Ascolini, Op. cit., p. 250.

273 Mussini M., Un teatro della memoria, in Il corpo in scena/visto da Vasco Ascolini,

Op. cit.

274 Ascolini paragona questo esperimento di doppia esposizione con la famosa

fotografia di Man Ray realizzata alla Marchesa Luisa Casati, nella quale, a causa di un accentuato mosso, gli occhi nel volto della donna appaiono di dimensioni ingrandite, quasi raddoppiati, generando un curioso effetto allampanato. Cfr. A futura memoria. Intervista a Vasco Ascolini, Op. cit., p. 256.

dallo spettacolo vero e proprio. Spettacolo peraltro che, come lui stesso ammette nell’intervista realizzata per questo lavoro, si presenta oltremodo vivace, colorato, persino pacchiano:

[…] Quel tipo di teatro racconta storie chiassose, come le sceneggiate napoletane, o come delle telenovelas con intrecci di storie e personaggi, tant’è che quando arrivano in Europa vengono accorciate e alleggerite da quanto sono complesse275.

In seguito poi Ascolini, nella medesima intervista, delinea la sua idea, riconoscendo un’impossibilità soggettiva nel parafrasare questa spettacolarità che secondo lui necessita piuttosto di un principio teorico autoriale, capace di trasporre in immagine la componente mimica: “[…] allora ho letto il saggio di Roland Barthes L’impero dei Segni” ribadisce il fotografo,

e ho capito alcune cose di quel tipo di teatro. [Barthes] dice ad esempio che una cosa importante non è semplicemente il travestimento da uomo in donna, perché in origine il Kabuki era fatto solo da donne, anche se ora in scena sono solo uomini. Il punto è che non c’è solo il trucco, la maschera. Il punto è che in verità l’attore si trasforma, diventa donna e la significa. […] E’ questo che a me ha interessato ed è questo su cui si concentrano le mie foto, [...] questa trasformazione era come uno spettacolo nello spettacolo, era un sentimento, e io ho cercato di renderlo, da fotografo, attraverso una certa luce, un certo angolo di ripresa. Io faccio una mia lettura che ha a che fare con il significato di questo teatro, ma è un modo mio. […] Io cerco di metterci le emozioni che provo276.

275 Ivi, p. 242-243.

In un’altra sequenza del 1979 dedicata a Linsday Kemp277, il volto

vigoroso dell’attore emerge dal buio con tutta la sua forza espressiva. Gli occhi pesantemente truccati, bene aperti e visibili, la bocca spesso dischiusa in un gemito[fig. 38], trasfigurano il viso in una serie di maschere che rinviano ad un immaginario ancora una volta rapportabile a Lessing:

[…] Quanto più l’attore si avvicina alla natura, tanto più sensibilmente i nostri occhi e le nostre orecchie saranno offese; poiché è indiscutibile che in natura sono offesi quando percepiamo espressioni di dolore così forti e violente. [Pur] accettando i condizionamenti del dolore fisico, [lo scultore] lo dovette [...] mitigare; dovette ridurre le grida in sospiri; non perché il gridare tradisse un’anima volgare, ma perché stravolge il volto. […] Quando Laocoonte perciò sospira, l’immaginazione può sentirlo gridare; se invece grida essa da questa rappresentazione non può scendere né salire di grado senza nel contempo vederlo in una situazione più sopportabile e di conseguenza meno interessante. […] Se questo unico momento riceve grazie all’arte una durata invarialbile, esso non dovrà esprimere ciò che si può pensare come transitorio278.

Se nel volto del Laocoonte percepiamo intatto lo spasmo della sofferenza, pur senza trovarne conferma nel semplice grido a bocca spalancata, è perché, suggerisce Lessing, lo scultore ha saputo cogliere e rappresentare quel preciso istante che accende l’immaginario dello spettatore. Un fenomeno transitorio come il grido, concretamente formulabile ad esempio da parte di un attore in scena, non gode del privilegio di divenire eterno se non viene fissato dall’artista, il quale deve sapientemente restituire il momento pregnante e non la sua semplice descrizione.

277 Lo spettacolo ripreso da Ascolini sempre al Teatro Valli si intitola Flowers, ed è un

monologo di danza, teatro e mimo del 1969 liberamente tratto dal testo Nostra signora dei fiori di Jean Jenet.

Proprio come sul volto del Laocoonte si riconoscono le tracce del dolore fisico in virtù di questo lamento che, seppur accennato, risulta dotato di grande potenza narrativa, così le fotografie di Ascolini rivelano pariteticamente la forza del divenire dell’azione, più che il suo picco,

la celebrazione di un corpo che, senza quiete, offre molteplicità di mimesi, [che] si lascia intravedere non nella bellezza del suo essere ‘lì e ora’ ma nella possibilità successiva, che si annuncia ma che non è ancora accaduta279.

Il gesto e la mimica del volto nelle fotografie scattate a Lindsay Kemp, non sono mai definitivi e risolutivi, ma disegnano una tensione emotiva ridotta al silenzio e resa a-temporale dallo scatto al centesimo di secondo, quell’istante capace di lasciare libero spazio al pensiero e all’interpretazione dell’osservatore.

Il valore strutturale del segno, che risulta immutato nella sua funzione primaria, si sovraccarica così di significati aggiunti che, come nota Mussini, sono esplicitati proprio dal tempo fotografico, cioè il tempo della non rappresentazione:

Tradurre il teatro in immagini, per Ascolini, ha significato […] la decisione di abbandonare l’analogia con il tempo scenico per l’uso di un ritmo narrativo diverso, [che] dilata la vicenda oltre i limiti naturalidello spettacolo280,

proiettandolo in una dimensione di discontinuità paratattica ben distante dalla narrazione lineare scenica.

In linea con la filosofia orientale e con i riti magici e misteriosi a cui richiama quel teatro fotografato da Ascolini, - così ricco di spiritualità e di suggestioni formali, in uno scenario spesso laconico e muto ma non 279 Soliani G., Ipotesi didattica per una “lettura”, in Vasco Ascolini. Le fotografie per il

teatro, Op. cit., p. 58.

280 Mussini M., Vasco Ascolini. Le fotografie per il teatro, Edizioni Analisi, Bologna

per questo meno intenso - si avverte l’urgenza dell’autore di porre l’accento sulla trascendenza dalla realtà, sul desiderio di conservare uno spirito, un’emozione legata al vissuto più che al visto.

La fotografia di Ascolini infatti, non corrisponde neanche più più all’estrazione di uno still dal movimento, all’arresto di un istante che crea una sospensione, ma si pone piuttosto sul piano della ricerca di una fenditura, di uno strappo in cui introdurre una concettualità esclusiva e personale, fuori dagli schemi e profondamente legata ad una originale posizione interpretativa.

1.4 Due casi a confronto. I fotografi e il teatro di ricerca