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Sequenze instabili di un’indagine empirica 300 Le fotografie de Lo spazio della quiete.

Sezione prima Documento

1. Il valore del documento fotografico per la scena teatrale e performativa

1.4 Due casi a confronto I fotografi e il teatro di ricerca 1 Guido Guidi e il Teatro Valdoca

1.4.1.1 Sequenze instabili di un’indagine empirica 300 Le fotografie de Lo spazio della quiete.

Il lavoro fotografico realizzato da Guido Guidi per il Teatro Valdoca è composto da un centinaio di fotografie che traspongono in immagine sei diverse rappresentazioni, andate in scena tra Modena, Venezia e Cesena dal 1983 al 1988.

Sono immagini scattate in negativo, quasi tutte in formato 6x6, tranne nel caso del secondo spettacolo della trilogia, Le radici dell’amore, che debutta alla Biennale nel 1984, e viene fotografato a colori con il grande formato 20x25. Al primo spettacolo d’esordio, Lo spazio della quiete, a cui seguono Le radici dell’amore e Atlante dei misteri dolorosi del 1986, si aggiungono poi Ruvido Umano e infine Cantos del 1988, che chiude la collaborazione tra Guidi e la Valdoca e più in generale con l’esperienza del fotografo a teatro.

L’intero corpus di immagini prodotto dal fotografo, a parte qualche rara eccezione, è interamente costruito sull’organizzazione di un’unica inquadratura a campo totale, con un punto di vista centrale e rialzato che permette di restituire il palcoscenico nella sua globalità[fig. 39], senza distorsioni artificiose o approcci personali, come se il teatro fosse un “paesaggio […] visto nel suo insieme”301. Se questo impianto visivo è

riconducibile alla già citata prassi emblematica di Ugo Mulas, per Guidi diventa una necessità nel momento in cui il fotografo prende coscienza di una impossibilità di rappresentare fotograficamente il teatro.

Ne Lo spazio della quiete, “volevo fare un unico scatto che durasse tutta la rappresentazione”, svela Guidi,

ma un’ora di spettacolo mi dava un negativo nero e la scena bianca. […] Allora mi sono limitato a fare solo alcune scene, ma ho mantenuto 300 La frase è di Paolo Costantini e si trova nel testo L’immagine impura (Nota alle

fotografie di Guido Guidi), Teatro Valdoca, Lo spazio della quiete, S.I.L.A., Cesena 1983, p. 82.

l’idea del mosso. […] Ho fatto delle scelte precise, […] ho puntato sulla scena una pellicola 6x6, poco adatta e poco usata nel teatro. Poi ho scelto una pellicola con una sensibilità bassissima, il cavalletto e la chiusura massima del diaframma302.

Per mezzo di quelli che Paolo Costantini definisce “frammenti multipli […] ancora in attesa di significare”303, Guidi spacca visivamente lo

spettacolo in parti significative, che narrano situazioni distinte:

Una delle regole della fotografia di teatro è quella di fotografare un momento preciso, di solito il culmine dell’azione. E’ una questione anche tecnica, se un’attrice alza il braccio e c’è un istante in cui la mano si ferma un secondo, lì deve partire lo scatto del fotografo, altrimenti si percepisce il mosso, che in teatro non si usa. Io ho fatto il contrario proprio per contraddire questa regola, che era specificatamente richiesta dai teatranti304.

Contravvenendo alle convenzioni e scegliendo un tipo di rappresentazione anomala, caratterizzata da una singolare sequenza ripetuta stilisticamente invece del singolo accattivante scatto305, Guidi si

pone su di un piano distinto rispetto alla fotografia tradizionale di scena e prende liberamente decisioni inedite, che contribuiranno a differenziare il suo lavoro da quello degli altri fotografi306.

302 Non si può fotografare, il teatro! Intervista a Guido Guidi, Op. cit., p. 263-264.

303 Costantini P., L’immagine impura (Nota alle fotografie di Guido Guidi), Teatro

Valdoca, Lo spazio della quiete, Op. cit., p. 82.

304 Non si può fotografare, il teatro! Intervista Guido Guidi, Op. cit., p. 264.

305 Lo Stile documentaristico e la fotografia americana della prima metà del

Novecento, in particolare quella di Walker Evans - autore che peraltro Guidi cita spesso come riferimento poetico - hanno probabilmente avuto un forte influsso anche su questo esperimento di fotografia teatrale. Infatti negli anni di Evans la tendenza dei fotografi era quella di presentare il proprio progetto visivo sotto forma di serie coerenti e in chiara successione, in modo da costruire un’opera unica e indivisibile, in opposizione all’imperante e caleidoscopico approccio del fotogiornalista che tende a distillare il racconto in un’unica immagine. Nel testo di Kirstein che introduce Walker Evans nel volume American Photographs, si legge: “[…] Queste fotografie, anche se vengono inevitabilmente guardate una per una, non sono concepite come immagini isolate scattate da un apparecchio che si sposta qua e là senza un criterio. Esistono, nella loro intenzione e nel loro effetto, come una sequenza di affermazioni che rendono conto di un atteggiamento coerente. Guardate in successione sono irresistibili.”, in Lugon O., Lo stile documentaristico in fotografia, Op cit., pp. 280/281.

Inoltre, anche sul piano tecnico, effettua precise scelte: il diaframma chiuso che stabilisce la massima profondità di campo e mette a fuoco tutti i piani dello spazio; la pellicola a bassa sensibilità che restituisce una grande nitidezza del dettaglio; la scelta dello square format che in fotografia rappresenta l’alternativa radicale al classico taglio fotografico. Tutto ciò in realtà riconduce ad opzioni specifiche che evidenziano una forte consapevolezza espressiva, ben distante da quell’apparente e auto- decantata impersonalità fotografica.

Contrariamente a quanto egli stesso dichiara infatti, il suo modo di fotografare il teatro è invece estremamente legato a quel concetto di autorialità negata, in quanto la tensione all’esplorazione di un diverso metodo rompe i dettami della classica foto di scena, evidenziando nel contempo la ricerca di un’esclusività poetica:

La fotografia di teatro, […] sorta di peccato di hybris, […] non è una rappresentazione ma la sua ombra, più nei termini di una descrizione direi. Più la fotografia è semplice e più sta descrivendo307,

afferma ancora Guidi, scagionando aprioristicamente le sue decisioni da qualsiasi eventuale accusa critica. Il “tentativo di uscire dalla classicità”308, intesa come disposizione contro una fotografia sottomessa

ai codici reiterati e pretesi dalla stampa, ha portato Guidi a seguire il suo istinto di autore, capace persino di “scansionare un’intenzionalità, una concettualità”309.

Secondo l’opinione di Ronconi infatti, con queste fotografie Guidi sarebbe riuscito a mostrare simpateticamente quello che in scena non si 306 Come rimarca Ronconi nell’intervista, proprio a causa di queste singolarità, il

lavoro fotografico di Guidi per la Valdoca è da sempre difficilmente vendibile e di fatto non è mai stato comprato da nessun organo di stampa, a parte qualche rivista specializzata che ha usato le fotografie come illustrazioni al testo critico. Ma proprio in virtù di questo, Ronconi ne riconosce tuttavia la sua connaturata forza emancipatrice e la portata poetica, nonché il suo valore come progetto indipendente, Cfr. Gli spettri che abitano il teatro. Intervista a Cesare Ronconi, Op. cit.

307 Non si può fotografare, il teatro! Intervista a Guido Guidi, Op. cit., 269.

308 Ivi, p. 272.

vede, a dar forma reale ad un pensiero, a mostrare “gli spettri che abitano il teatro”310, evidenziando l’invisibile e l’incorporeo. Attraverso

un esperto e suggestivo gioco di mossi e permanenze, i corpi degli attori infatti, spesso si dissolvono nello spazio tra luce e buio circostante, quasi evaporando, fino a diventare sagome informi che si contrappongono con gli oggetti statici e inorganici.

N e Lo spazio della quiete, alcune fotografie evidenziano un originale effetto visivo determinato da un sasso appeso ad una corda che viene fatto girare vorticosamente, generando una curiosa forma conica tratteggiata[fig. 40] distinguibile solo attraverso la fotografia, come appunta Ronconi:

Lo spettacolo non era veramente così, o meglio lo era, ma solo nella mente. […] ii movimento del sasso ti lasciava un’idea intellettuale della traiettoria circolare, sentivi lo spazio circolare, ma è solo nella foto che lo vedi311.

Tutto Lo spazio della quiete è imperniato intorno all’indagine sulle istanze della visione, sulla questione delle coordinate visive e sulle traiettorie “a carattere ritmico-geometrico […] definite da interventi gestuali […] in cui la relazione tra corpi femminili viene assunta a unità di misura armonica dello spazio”312[fig. 41].

A Euclide sarebbe piaciuto? si chiede Ruggero Pierantoni313 nel testo

scritto per il libretto dedicato Lo spazio della quiete, e cita alcuni postulati euclidei:

310 Ivi, p. 294.

311 Ivi, p. 297.

312 Di Matteo P., Paesaggi artificiali e opere astratto-geometriche. Uno sguardo sulla

trilogia d’esordio del Teatro Valdoca, Op. cit., p., 24.

313 Cesare Ronconi racconta della presenza di Pierantoni durante il debutto, e della

sua volontà di vedere lo spettacolo più volte per poterne carpire i diversi livelli di significato. Lo scienziato infatti, cieco da un occhio, avrebbe visto la prima volta il piano dell’azione e nelle repliche successive avrebbe invece guardato il fondo della scena e le ombre. Cfr. Gli spettri che abitano il teatro.Intervista a Cesare Ronconi,Op. cit.

Sono viste solo le cose che cadono sotto un raggio dello sguardo. […] I raggi che emergono dagli occhi procedono indefinitivamente, divergendo. […] La figura contenuta da un insieme di raggi visivi è un cono il cui vertice è nell’occhio e la cui base è la superficie dell’oggetto osservato314.

Gli assunti che riporta Pierantoni hanno una forte attinenza con la concezione scenica, come sostiene Guidi, infatti l’influenza di questo fisiologo dell’occhio, che ha ispirato e condizionato il suo personale rapporto con la visione, avrebbe suggerito la matrice dello spettacolo stesso. Afferma Guidi: “Lo spazio della quiete parte […] dall’idea della freccia […] del dardo che esce dall’occhio di Apollo”315, che è in grado di

uccidere guardando.

Nel libro L’occhio e l’idea, dove si ripercorre la storia della fisiologia della visione, dibattuta tra scienziati, artisti e letterati, Pierantoni si sofferma sui miti arcaici della visione, e scrive:

Per Pitagora, e dopo di lui per il suo seguace Euclide, l’occhio emetteva un fascio di raggi che, viaggiando nello spazio, venivano ad urtare gli oggetti. L’urto tra il raggio visivo e la realtà suscitava la sensazione della visione. Esattamente come il cieco che avanza nel suo universo abbuiato toccando gli oggetti con la mano, divinandoli con l’estremità del bastone, così l’occhio va in giro ‘toccando’ la realtà. Così concepito l’occhio diviene il vertice di una specie di gabbia conica, e poi piramidale, di raggi tesa a catturare, avvolgere, acquisire gli oggetti316.

Alcuni passi di questo testo, scritto un paio di anni prima della messa in scena dello spettacolo, sembrano in effetti fornire un inequivocabile supporto al principio fondativo della scena, materializzato da una corda elastica tratteggiata che direziona lo sguardo delle attrici e del pubblico. 314 Pierantoni R., La quiete di Euclide, Teatro Valdoca, Lo spazio della quiete, Op. cit.,

p. 17.

315 Cfr. Non si può fotografare, il teatro! Intervista a Guido Guidi, Op cit., p. 262.

316 Pierantoni R., L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Bollati Boringhieri,

Sul palco Mariangela Gualtieri e Paola Trombin inizialmente indossano entrambe un paio di occhiali, ai quali è legato l’elastico che le unisce a livello degli occhi[fig. 42]. La linea tesa tra le due figure viene allungata, piegata ad angolo retto, incurvata, trasformata in figure regolari sempre diverse, lungo le quali le due attrici si guardano l’una con l’altra [fig. 43]. L’elastico incarna la forza generatrice della visione che si fa corpo attraverso una linea sottile e potente capace di edificare lo spazio e i sentimenti, e rappresenta

la riduzione simbolica […] di uno stile dell’amore, nella quiete dello spazio, […] lo sguardo e la funzione del guardare nella forma simbolica della sua rappresentazione geometrica 317.

La rarefazione visiva e la purezza segnica che disegnano il paesaggio artificiale dello spettacolo, sono ben visibili nelle fotografie di Guidi, che accentua intenzionalmente l’organizzazione in forme, l’elementarità del gesto e la tensione armonica [fig. 44].

Guidi stesso, nel suo percorso da fotografo, ha spesso individuato schemi formali che si relazionassero a strutture pure e a matrici vettoriali di base, come ad esempio la forma geometrica del triangolo o l’ossessione per il profilo del cono ottico, che evoca figurativamente l’atto del vedere.

Su questa scena teatrale la sua investigazione trova un fondamento estetico estremamente persuasivo, in grado di accreditare quel suo teorema visivo che vede le forme essenziali come un alfabeto che compone la realtà del mondo. L’accento posto sulla scena de Lo spazio

della quiete è dunque primariamente ancorato alla restituzione di un

tracciato geometrico delle forme, che ‘impagina’ uno spazio definito da coordinate euclidee, ma c’è un'altra qualità costitutiva che ne caratterizza i contenuti, la questione del tempo.

Nel tentativo di vanificare ogni riferimento spazio-temporale per trasformare la scena in un paesaggio astratto, lo spettacolo si offre come un luogo idealizzato in cui le esperienze sensoriali assumono una dimensione autarchica. Disgiunto da ogni relazione con l’esterno e con il reale, anche il tempo scorre diversamente. La lentezza ipnotica dei gesti, “la ripetizione e gli arresti”318, la precisione e l’accuratezza con cui

vengono eseguiti i movimenti, la generale sensazione di sospensione e la stasi silenziosa che avvolge quel microcosmo, riscoprono il valore dell’attimo contrapposto all’eternità, come in una memoria ancestrale. Come rimarca Carlo Infante:

ogni riflessione su Lo spazio della quiete non può che diventare una riflessione metafisica. Una meditazione sul tempo. […] Il tempo viene a perdere ogni durata obiettiva, qualsiasi valore assoluto, e scopriamo un nostro sentimento della durata. Scopriamo il valore dell’istante319.

Nelle fotografie di Guidi il tempo è il cardine su cui ruota l’intero lavoro: “La sua fotografia racconta il tempo e lo mette fuori gioco. Nella fotografia non c’è lo scorrimento del tempo. E’ un paradosso” afferma Ronconi, e chiarisce:

La fotografia raccoglie tutto il tempo presente, le dinamiche, i movimenti, le scie, e rimane tutto lì, incastrato, quello che c’è in quel momento, in quel giorno, in quell’anno. Invece il teatro scorre. Come scorre il corpo, invecchia, si trasforma, si purifica. Si irrobustisce e si indebolisce. Succede la vita320.

Il teatro è vita dunque, linfa che scorre insieme al tempo, mentre la fotografia ne immobilizza il flusso sezionando il tempo, per raccontarne un unico istante. Quel momento che diviene eterno, infinito, che sta nel 318 Di Matteo P., Paesaggi artificiali e opere astratto-geometriche. Uno sguardo sulla

trilogia d’esordio del Teatro Valdoca, Op. cit., p. 26.

319 Infante C., L’intuizione dell’istante, Teatro Valdoca, Lo spazio della quiete, Op. cit.,

p. 85.

passato, raccoglie però tutto quello che succede nel presente, ne conserva il ricordo, ne custodisce il segreto.

La fotografia che arresta radicalmente la continuità del movimento, che lo taglia a fette, nelle immagini di Guidi sembra invece ricomporlo in maniera decisa, attraverso quell’artificio congenito alla fotografia stessa che Philippe Dubois chiama vuoto di tempo. Se la temporalità della fotografia è “separata e simbolica” rispetto al tempo reale che Dubois qualifica come “cronico ed evolutivo”, allora quel tempo si svuota del suo significato effettivo per entrare in una dimensione di istantaneità perpetua, “infinita nell’immobilità totale, fissata nell’interminabile durata delle statue”321.

L’atto fotografico è dunque paragonabile allo sguardo paralizzante di Medusa poiché,

[…] effettuando il taglio, fa passare dall’altra parte: da un tempo evolutivo ad un tempo fisso, dall’istante alla perpetuazione, dal movimento all’immobilità, dal regno dei vivi al regno dei morti, dalla luce alle tenebre, dalla carne alla pietra322.

1.4.2 Maurizio Buscarino e la scena di ricerca