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Il fulgur e il timore di Dite sullo sfondo di Lucano e Lucrezio

II. DÈI, SIGNA E PROFEZIE ALLE SOGLIE DELLA GUERRA CIVILE IL BELLUM CIVILE

4. La folgore di Giove

4.4. Il fulgur e il timore di Dite sullo sfondo di Lucano e Lucrezio

Fin qui abbiamo messo a fuoco l’ambiguità del fulgur come segno inviato da Giove: si sta introducendo una riflessione sul potere del sommo dio attraverso una rappresentazione decisamente problematica del suo segno distintivo.

Già nelle Metamorfosi ovidiane, a proposito degli omina raccontanti nel XV libro, è operante una simile dinamica: la mancanza di qualsiasi signum da parte di Giove (fulmini, tuoni ecc.) va ascritta alla consapevolezza del sommo dio dell’impossibilità di intervenire sul corso degli eventi (vedi cap. I).

Sono però soprattutto alcune esternazioni lucanee che possono offrire uno sfondo su cui leggere fruttuosamente la sorprendente marginalità del Giove petroniano e della sua folgore. Si consideri la famosa tirata prima della battaglia di Farsalo in Pharsalia VII (vv. 445ss.):

Sunt nobis nulla profecto numina; cum caeco rapiantur saecula casu, mentimur regnare Iovem. Spectabit ab alto aethere Thessalicas, teneat cum fulmina, caedes! Scilicet ipse petet Pholoen, petet ignibus Oeten immeritaeque nemus Rhodopes pinusque Mimantis.

Il poeta, alle soglie dell’incombente catastrofe, lamenta che Giove sia rimasto immobile davanti a cotanto scelus e definisce come menzogna la stessa esistenza del suo regnum. Si tratta di uno dei passaggi-chiave del poema di Lucano e non è possibile esplorarlo qui in tutta la sua complessità145. Lo scardinamento del tradizionale apparato divino nella Pharsalia va messo strettamente in relazione a simili esternazioni del poeta e dei suoi personaggi (emblematica la figura di Nigidio Figulo nel primo libro), che sono indotti a interrogarsi circa il ruolo degli dèi nella storia, fornendo diverse (e peraltro incoerenti) spiegazioni: gli dèi non esistono; se esistono, sono malvagi o non si curano degli uomini; tutto appare in preda al caso; su tutto regna la Fortuna; certo è che il regnum del Giove tradizionale va considerato come pura illusione. Interessante è la messa in discussione della figura di Giove che passa attraverso una radicale problematizzazione del simbolo della sua autorità, la folgore. In Lucano vi è una denuncia esplicita e diretta dell’assenza / dell’impotenza del sommo dio. Nel Bellum civile il tono è del tutto cambiato: qualsiasi polemica nei confronti degli dèi è rimossa e anzi Eumolpo pare allinearsi appieno ai piani dei suoi dèi (vd. infra par. 5). La folgore non viene dunque connessa, come in Lucano, alla sua supposta funzione di strumento della giustizia divina, ma è evidente che il passo petroniano solleva nel lettore analoghi dubbi sul ruolo di Giove alle soglie della guerra civile e serve ad instillare l’impressione che il suo regnum sia illusorio e che egli abbia un

145 Cfr. Lanzarone ad loc.; della vasta bibliografia vd. almeno Ambühl 2015, 233ss. (con la consueta

completezza bibliografica); Narducci 2002, 59ss. (con paralleli dalle tragedie di Seneca, in cui è pure molto stretto il legame fra messa in discussione del fulgur e della provvidenza di Giove e dominio della Fortuna); Feeney 1991, 281; Friedrich 2010, 370ss. e 406ss.

ruolo del tutto subalterno alla Fortuna. Al dubbio lucaneo, come spesso nel Bellum petroniano, viene data plastica rappresentazione nell’apparato divino. È interessante che, con modi e soluzioni diverse, Stazio attuerà una simile operazione nell’undicesimo libro della Tebaide: il suo Giove, ormai ridotto all’impotenza, decide di ritirarsi e invita gli altri dèi a fare altrettanto146.

Com’è stato notato, la tirata lucanea riecheggia le argomentazioni dell’epicureismo lucreziano (pur senza comportare una qualche forma di adesione a questa filosofia, naturalmente): proprio Lucrezio, in effetti, aveva provveduto a decostruire il potere di Giove, anche per mezzo della lunga spiegazione sul funzionamento dei fulmini147. Lucano riprende in particolare l’argomento lucreziano contro il fulmine come strumento della giustizia divina. Ora, l’obiettivo di Lucrezio è quello di eliminare la paura che coglie l’uomo davanti a questi fenomeni naturali e che lo induce a postulare l’azione degli dèi dietro di essi148. Io credo che la scena petroniana vada letta non solo sullo sfondo lucaneo (esplicitamente dedicato al ruolo di Giove e della folgore alle soglie della guerra civile), ma anche tenendo presente la tematica lucreziana del rapporto fra fulgur e timor, una tematica, peraltro, ben presente a Petronio, come dimostra un famoso carme frammentario a lui attribuibile con una certa sicurezza (fr. 28 Müller vv. 1-3)149. Nella descrizione della folgore vv. 122-3 non vi è alcuna menzione esplicita di Giove, al contrario di quanto accade in simili contesti ominosi150: si tratta, per così dire, di una descrizione oggettiva del fenomeno celeste, che riecheggia peraltro la terminologia lucreziana151. L’idea che dietro questo fenomeno ci sia Giove arriva solo dopo (ai vv. 124-5)152: è un pensiero che nasce dal pavor di Dite, secondo un procedimento mentale su cui si era concentrato Lucrezio nella sua lotta contro le vacue angosce degli uomini. Un ulteriore paradosso della scena riguarda proprio questa umanizzazione del dio dei morti: Dite, rivolgendosi a Fortuna e apostrofandola come onnipotente, sembra ignorare il regnum di Giove, ma basta una folgore e si ritrova a temere il dio, secondo un processo psicologico “umano, troppo umano”. Se si considera la scena su

146 Con acume Ganiban 2011, 340ss. interpreta il discorso di Giove in Stat. Theb. 11, 119ss. come risposta al

citato passo lucaneo: «Statius’ Jupiter displays not lack of concern, but impotence».

147 Cfr. ancora Narducci 2002, 62-63 e, specificatamente su Lucano e Lucrezio, Esposito 1996.

148 Cfr. ad es. Lucr. 5, 1218ss. Praeterea cui non animus formidine divum / contrahitur, cui non correpunt

membra pavore, / fulminis horribili cum plaga torrida tellus / contremit et magnum percurrunt murmura caelum? Il passo è ripreso da Virgilio nella lamentela di Iarba contro Giove (Aen. 4, 208-210): an te, genitor, cum fulmina torques / nequiquam horremus, caecique in nubibus ignes / terrificant animos et inania murmura miscent?

149 Primus in orbe deos fecit timor, ardua caelo / fulmina cum caderent discussaque Maenala flammis / atque

ictus flagraret Athos […]. Analisi del carme e del suo rapporto con la dottrina teologica epicureo-lucreziana in

Sommariva 2004, 19ss.

150 Si ricordino per es. Verg. Aen. 7, 141ss. hic pater omnipotens ter caelo clarus ab alto / intonuit e 9, 630ss.

audiit et caeli genitor de parte serena / intonuit laevom. Cfr. sopra per l’analisi della topica.

151 Lucr. 2, 214-5 abrupti nubibus ignes / concursant, una formulazione ripresa da Virgilio (Verg. Aen. 3, 199

ingeminant abruptis nubibus ignes) e variata da Ovidio (Ovid. Met. 6, 696 exsiliantque cavis elisi nubibus ignes; 8, 339 fertur ut excussis elisi nubibus ignes), da cui Petronio prende elisus.

152 Può essere interessante un confronto con il fulmine che abbatte il Capaneo staziano. Giove, seppur

rappresentato nel concilium celeste, non viene ritratto nell’atto di scagliare il fulmine: il sommo dio non

interviene, mentre il processo di formazione del fulmine viene descritto come fenomeno spontaneo, con una

terminologia “scientifica”, ricca di reminiscenze del De rerum natura. Come fa notare Reitz 2017, questo “fulmine lucreziano” rappresenta una punizione appropriata per un eroe che, come Capaneo, presenta marcati tratti epicurei – proprio in bocca a Capaneo, peraltro, ritroviamo l’emistichio petroniano primus in orbe deos

uno sfondo epicureo-lucreziano, le conseguenze sono radicali: non ne esce degradato solo Dite, ma anche il fulgur, che, alla fin fine, solo il timor di Dite ci dice essere stato mandato da Giove. Ammesso che, come pensa il dio dei morti, ci sia Giove dietro al fulgur, resta il fatto che non vengono date indicazioni precise ed esplicite di nessun tipo sul suo significato. Certo il testo stimola diverse chiavi di lettura (le ipotesi che abbiamo ventilato sopra: il fulgur come invito al dio dei morti a rientrare nel suo regno, come consacrazione del foedus fra Dite e Fortuna, come signum dell’incombente guerra civile ecc.), ma la carica ambigua e dissacrante della scena sta proprio nella reticenza, nell’opacità, nella riduzione di Giove a fulgur, senza ulteriori specificazioni, senza approfondimenti, senza poter appurare con certezza quale autorità, quale messaggio, quale disegno vi sia dietro di esso o addirittura se ve ne siano153. Christiane Reitz mi suggerisce una singolare metafora per descrivere la presenza-assenza di Giove nel Bellum petroniano: del sommo dio sembra essere rimasto solo un Pappkamerad (una sagoma di cartone, un facile bersaglio).