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I. DÈI, SIGNA E PROFEZIE ALLE SOGLIE DELLA GUERRA CIVILE DA CICERONE A

5. Lucano (Pharsalia I-II)

L’elenco di omina nel primo libro della Pharsalia di Lucano (vv. 522ss.) e le riflessioni ad esso connesse sul ruolo delle forze divine alle soglie della guerra civile intrattengono un rapporto complesso con la tradizione precedente. Non solo ci troviamo davanti al più lungo

41 Come suggerisce Murgatroyd nella sua nota di commento, è probabile che l’autore abbia lasciato il tutto

volutamente nel vago.

catalogo di prodigi a nostra disposizione, che ingloba ed espande qualsiasi trattazione precedente43. Un dato fondamentale è la collocazione di esso: viene posto da Lucano dopo la fuga da Roma – ovvero dopo l’aggressione alla patria da parte di Cesare. Lucano si appoggia senz’altro a una fonte storica: in una posizione del tutto analoga della narrazione Appiano presenta una lista di portenti; Dione “ritarda” il racconto dei prodigi fino all’arrivo di Pompeo a Durazzo per evidenti ragioni narrative, ma afferisce senz’altro alla medesima tradizione44. D’altra parte, la presenza di un catalogo poetico di omina in relazione alla guerra civile comporta necessariamente un confronto con Virgilio e Ovidio, con la loro valutazione degli eventi e del ruolo degli dèi45.

A proposito della collocazione del catalogo, Roche, nella sua introduzione al passo, richiama rapidamente i due precursori di Lucano e osserva:

The ‘correction’ is polemical: the destruction of the dictator is replaced by the destruction of the republic and the implication is clearly that the greater perversion of natural order was Caesar’s invasion of his fatherland rather than his assassination.

Questa osservazione sulla valenza polemica, anticesariana, di tale “correzione”, rintracciabile in diversi studi su Lucano46, è certo sensata, ma rischia di risultare generica e finanche fuorviante, in quanto non tiene in conto le fondamentali differenze fra Virgilio e Ovidio che ho cercato di delineare. Prima di tutto, la morte di Cesare riceve una trattazione e un’enfasi ben diversa nelle Georgiche e nelle Metamorfosi. Lucano sembrerebbe rispondere più alle Metamorfosi che al Virgilio di Georgiche I, nella misura in cui in Ovidio più smaccati sono i motivi encomiastici concernenti la dipartita del dittatore (vd. l’apoteosi) e una prospettiva ottimistica/consolatoria alle soglie della guerra civile47. Se s’individuano proprio gli aspetti più scopertamente filoaugustei di Met. XV come riferimento polemico di Lucano, si potrebbe ipotizzare che la “correzione lucanea” vada letta più precisamente come risposta alla “correzione ovidiana”: in altre parole, Lucano potrebbe ribattere a quella ridislocazione del catalogo di prodigi che Ovidio aveva messo in atto per aumentare il pathos in occasione della morte di Cesare, quasi questa fosse l’unico evento lacrimevole nella concatenazione che porta all’affermazione di Augusto. Ovviamente sarebbe limitante spiegare il riposizionamento degli omina unicamente in virtù della contrapposizione con Ovidio e sminuire il rapporto con Virgilio: il ribaltamento della lettura degli eventi ovidiana, inevitabilmente, stimola il confronto anche con il finale di Georgiche I, ove il successo di

43 Wiener 2006, 148.

44 Su questo tema è da lamentare una certa imprecisione, soprattutto negli studi su Lucano: il recente

commento di Roche 42 (ma cfr. anche Hoover 1995, 93), senza citare né Appiano né Dione, considera l’elenco di prodigi una invenzione tutta lucanea; la testimonianza di Dione, debitamente valorizzata da Radicke 2004, 194 n. 161, è generalmente trascurata (Fantham 2011, 548 n. 37 cita Appiano, ma sostiene che i prodigi «are not found in Dio»).

45 Importanti anche i prodigi prima di Farsalo: 7, 151-2 non tamen abstinuit venturos prodere casus / per

varias Fortuna notas; vv. 205-6 o summos hominum, quorum Fortuna per orbem / signa dedit, quorum fatis caelum omne vacavit! dubium, monstrisne deum, nimione pavore / crediderint.

46 Cfr. Connors 1989, 100; Feeney 1991, 271; Narducci 2002, 58ss.

47 In Lucano si ha una precisa sovversione degli accenti ottimistici della profezia ovidiana: ciò che sta per

arrivare (il dominio di Cesare, il principato) non è auspicabile e il prezzo pagato per arrivarci (la guerra civile) è catastrofico.

Ottaviano era auspicato ma non certo48. Sicuramente va riscontrata un’analoga dinamica fra umano e divino, che distingue Lucano da Ovidio e lo avvicina a Virgilio: i prodigi avvengono in seguito a un atto umano, di fatto il “primo atto di guerra” – l’uccisione di Cesare nelle Georgiche, il passaggio del Rubicone e la conseguente fuga da Roma in Lucano. La scelta di un diverso evento della biografia cesariana – come è stato suggerito – può certo costituire una forma di risposta a Virgilio, ma è bene ribadire che nel passo virgiliano l’elemento prettamente encomiastico nei confronti di Giulio Cesare non trova spazio significativo – o, perlomeno, non ha un’adeguata esplicitazione: come afferma Jal, «ces présages [delle Georgiche] […] n’annonçaient pas, en effet, comme on le déclare trop souvent, la “mort” du dictateur» (così è, di fatto, in Ovidio) «mais bien le recommencement de la guerre civile»49. Sia nella Pharsalia che nelle Georgiche i prodigi fungono soprattutto da terribile annuncio dell’incombente scontro fratricida50. Lucano, pertanto, propone un catalogo di portenti ai veri e propri albori del conflitto, sottolineando una pregnante specularità fra i diversi momenti delle guerre civili – una specularità che in effetti si trova, in nuce, nelle stesse Georgiche51.

La discussione della dislocazione della serie di presagi va strettamente connessa alla presentazione dell’apparato divino fornita da Lucano, un argomento di grande interesse e molto dibattuto. Il poeta, pur non fornendo una rappresentazione “tradizionale” degli dèi, si esprime ripetutamente a proposito degli avvenimenti sovrannaturali che marcano l’inizio della guerra civile. Per mezzo dei prodigi si manifesta minacciosamente l’ira dei superi, spargendo il terrore fra gli uomini, i quali possono solo limitarsi a constatare l’imminenza della clades52. Se è vero che i prodigi rivelano la collera divina e la punizione che incombe

48 Nelle Georgiche si spera che Ottaviano rappresenti la fine del conflitto causato dalla morte di Cesare e

aperto dai portenti; in Lucano, dopo che l’assalto di Cesare alla patria scatena le ostilità, i prodigi sono rivelatori delle guerre civili che porteranno all’ineluttabile avvento di un dominus e alla fine della res publica.

49 Jal 1963, 242; così anche Donié 1996, 27 e Fèvrier 2006, 426. 50 Wiener 2006, 151.

51 Hoover 1995, 93. Il fatto che nel catalogo lucaneo siano inclusi alcuni portenti più caratteristici del 44 a.C.

(vd. oscuramento del sole ed eruzione dell’Etna) sottolinea questa corrispondenza. Sull’idea di Filippi come replica di Farsalo, presente già nelle Georgiche, cfr. Excursus 3.

52 Cfr., a riguardo, le fortunate formule di Narducci, “catastrofe annunciata” e “provvidenza crudele”

(Narducci 2002, 52ss.,107ss.). Gli snodi concettuali più importanti sono i seguenti:

- versi introduttivi sugli dèi minacciosi e sul timore degli uomini: 1, 523-5 tum ne qua futuri / spes saltem

trepidas mentes levet, addita fati / peioris manifesta fides, superique minaces / prodigiis terras inplerunt, aethera, pontum;

- divinazione di Arrunte e Nigidio Figulo: 1, 617 (Arrunte) iram superum raptis quaesivit in extis; 630ss. His

ubi concepit magnorum fata malorum, / exclamat: “Vix fas, superi, quaecumque movetis, / prodere me populis; nec enim tibi, summe, litavi,/Iuppiter, hoc sacrum; caesique in pectora tauri/inferni venere dei. Non fanda timemus, / sed venient maiora metu. Di visa secundent, / et fibris sit nulla fides, sed conditor artis/finxerit ista Tages.” Flexa sic omina Tuscus/involvens multaque tegens ambage canebat; 642ss. (Nigidio) “Aut hic errat,” ait “nulla cum lege per aevum/mundus et incerto discurrunt sidera motu,/aut, si fata movent, Vrbi generique paratur/humano matura lues”; 649-651 Quod cladis genus, o superi, qua peste paratis / saevitiam? Extremi multorum tempus in unum / convenere dies; 666ss. inminet armorum rabies ferrique potestas / confundet ius omne manu scelerique nefando/ nomen erit virtus multosque exibit in annos / hic furor. Et superos quid prodest poscere finem? / Cum domino pax ista venit. Duc, Roma, malorum / continuam seriem clademque in tempora multa / extrahe civili tantum iam libera bello”;

- terrore del popolo: vv. 673-4: terruerant satis haec pavidam praesagia plebem; / sed maiora premunt (segue la profezia della matrona);

- riflessione dell’autore che apre il secondo libro (i versi 2, 1-4, riecheggiando l’inizio degli omina a 1, 523-5, fungono da “chiusura” del catalogo): 2, 1ss. Iamque irae patuere deum, manifestaque belli / signa dedit

su Roma, gli studi sul tema a mio parere più lucidi hanno giustamente rilevato come in Lucano i moventi dell’ira degli dèi, il loro intento punitivo nei confronti degli uomini e, conseguentemente, le colpe umane non vengano mai definitivamente “chiariti”: Lucano presenta Cesare, l’assassino della libertas, come protetto dagli dèi e destinato a trionfare; il poeta illustra le colpe dei Romani – i publica semina belli e il loro furor; il fratricidio originario e continuo –, ma l’invettiva contro gli dèi, il fato e la Fortuna, ingiusti e crudeli, ha decisamente il sopravvento, in modo non dissimile dal passo delle Georgiche I53. Se il poeta presenta i portenti come espressione dell’ira deum, tale elemento va dunque calato nella complessa questione della rimozione dell’apparato divino tradizionale nella Pharsalia. In questo senso, con acume e arguzia Feeney 1991, 273 commenta il verso iniziale del secondo libro, che chiude il catalogo di fenomeni sovrannaturali narrati nel libro precedente:

Hence the finely judged anti-climax that opens the second book: iamque irae patuere deum (‘And now the anger of the gods was obvious to see’). ‘Obvious’ is the last thing the anger of the gods is here.

Ora, un dettagliato raffronto fra la complessa concezione del divino di Lucano e quella dei suoi predecessori poetici è difficilmente sintetizzabile in breve. Ritorna costante l’idea che i tremendi portenti non fungano da avvertimento per stornare una catastrofe, bensì accompagnino un tragico, ineluttabile corso degli eventi. L’interpretazione lucanea dei presagi come crudele ira deum, pur con tutte le sue ambiguità e contraddizioni, porta al ribaltamento della prospettiva augustea che emergeva in Ovidio. Certo sul rapporto con Ovidio (un argomento poco studiato in generale e per questo caso particolare) ci sarebbe ancora molto da riflettere, proprio nella misura in cui l’apparente “teleologia ovidiana” contiene le notevoli ambivalenze che abbiamo delineato. Con i suoi dèi e omina impotenti alle soglie della guerra civile, il poeta di Sulmona ha decisamente “smascherato” il tradizionale ruolo del divino, gettando le basi di una problematizzazione che Lucano porta tibi, rector Olympi, / sollicitis visum mortalibus addere curam, / noscant venturas ut dira per omina clades? / Sive parens rerum, cum primum informia regna/materiamque rudem flamma cedente recepit, / fixit in aeternum causas qua cuncta coercet, / se quoque lege tenens, et saecula iussa ferentem/fatorum immoto divisit limite mundum; / sive nihil positum est, sed fors incerta vagatur, / fertque refertque vices, et habet mortalia casus: / sit subitum quodcumque paras; sit caeca futuri / mens hominum fati; liceat sperare timenti;

- terrore nel popolo: 2, 16ss. ergo ubi concipiunt quantis sit cladibus orbi / constatura fides superum, ferale

per urbem / iustitium, latuit plebeio tectus amictu / omnis honos, nullos comitata est purpura faces.

53 Fondamentale Feeney 1991, 272-285 (in part. 272-3 sui portenti). Cfr. Fantham 2011, 449, 556: «Yet neither

in Lucan nor Tacitus are we told what Roman deeds the civil wars are sent to punish. […] What mattered in the civil war was victory, the index of divine intent, but in declaring the gods’ partisanship for Caesar and the Caesars the poet never brings this defeat of liberty together with a clear acknowledgement of Roman guilt: he thus continues angry with gods whose anger against Rome he seems neither to understand nor to forgive». Merita di essere riportato il passo di Tacito (ispirato al famoso Lucan. 4, 807-9 felix Roma quidem civisque

habitura beatos, / si libertatis superis tam cura placeret, / quam vindicta placet): Tac. Hist. 1, 3, 2 praeter multiplices rerum humanarum casus caelo terraque prodigia et fulminum monitus et futurorum praesagia, laeta tristia, ambigua manifesta; nec enim umquam atrocioribus populi Romani cladibus magisve iustis indiciis adprobatum est non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem. Se al narratore e dunque al

lettore restano precluse rappresentazione e comprensione dei moventi divini nel riprovevole corso degli eventi, proprio questa preclusione induce la voce narrante a riflettere sulla teodicea: la diffusa denuncia dell’ingiustizia “sanzionata” dagli dèi sfocia talvolta nell’ipotesi di un mondo retto dal caso e di divinità impotenti o incuranti del destino degli uomini. Sulle “incoerenze” dell’invettiva lucanea contro gli dèi cfr. Bartsch 2012.

alle estreme conseguenze, un processo in cui la divinizzazione di Cesare (e dei Cesari) ha un ruolo importante (come ha ben osservato Feeney, Ovidio dimostra come le divinità tradizionali siano “creature del princeps”)54. Le affinità più evidenti sono ancora una volta con le Georgiche, ove però il tema della miseratio degli dèi, sviluppato da Ovidio e assente nella Pharsalia, trovava un suo piccolo, seppur ambiguo, spazio (Georg. 1, 466). Lucano mette in primo piano, per contro, l’elemento – nemmeno troppo implicito nelle Georgiche – dell’ira dei superi intesa come accanimento crudele, le cui motivazioni rimangono precluse alla prospettiva umana e al narratore.

Nella Pharsalia, ove una spinta ideologica fondamentale è la messa in discussione della πρόνοια degli Stoici, della sua identificazione nella figura di Giove e delle ottimistiche istanze augustee, il poeta riprende ed estremizza le argomentazioni contro la tesi stoica dell’utilità della divinazione55, raccogliendo, in questo, l’eredità di un percorso poetico, da Virgilio a Ovidio, in cui si intrecciano degradazione dell’apparato divino e inutilità della prescienza alle soglie della guerra civile.

Conclusione

In questo capitolo abbiamo inquadrato il problema della rappresentazione poetica degli dèi alle soglie della guerra civile, su cui si soffermano diversi poeti latini prima di Petronio: Cicerone nel De consulatu suo, Virgilio nel finale di Georgiche I, Ovidio nel finale delle Metamorfosi. Il giudizio sugli dèi e sul loro potere è strettamente legato alla possibilità di evitare il conflitto fratricida, un tema legato alla divinazione, all’interpretazione dei signa, alla profezia. Nel frammento di Cicerone viene presentata la concezione stoica della divinità e della divinazione, che permette al console di sventare la congiura di Catilina – un quadro ottimistico messo decisamente in discussione dai poeti che tratteranno le guerre civili che segneranno la fine della repubblica (già il contesto del De divinatione, in cui il frammento ciceroniano viene citato, fornisce spunti importanti in questo senso). Nel finale di Georgiche I Virgilio rappresenta gli omina dopo la morte di Cesare e l’ineluttabile ripresa del conflitto fratricida, chiedendosi perché gli dèi permettano tali spargimenti di sangue. Nel finale delle Metamorfosi, Ovidio pone gli omina prima della morte di Cesare e rappresenta un Götterapparat impotente davanti a quanto stabilito dai fata, fornendo di fatto una risposta all’interrogativo virgiliano. Lucano rimuove l’apparato divino tradizionale, profondendosi in accese invettive contro la crudeltà delle oscure forze divine che macchinano la rovina di Roma (la Fortuna ha un ruolo di primo piano). Nel primo libro della Pharsalia rappresenta omina che annunciano una catastrofe che non può essere stornata. Il poeta si riallaccia al finale di Georgiche I e, con ogni probabilità, reagisce all’impotente apparato divino ovidiano, sfruttandone i sottintesi sovversivi nei confronti dell’imperatore e della teleologia eneadica. Su questo sfondo cercheremo di inquadrare i deorum ministeria petroniani.

54 Feeney 1991, 294: « […] there emerges another vantage-point for considering Lucan’s disavowal of the

gods of his epic tradition. As Ovid had already seen, from any viewpoint which was unsympathetic to what the emperors had done to the res publica, the divine characters of Naevius, Ennius, and Vergil were no longer available as a vehicle for communal meaning, since they had become the creatures of the princeps».

II. Dèi, signa e profezie alle soglie della guerra civile.