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Il poeta epico, i suoi dèi, il suo Cesare

II. DÈI, SIGNA E PROFEZIE ALLE SOGLIE DELLA GUERRA CIVILE IL BELLUM CIVILE

5. Il poeta epico, i suoi dèi, il suo Cesare

Se gli dèi di Eumolpo possono considerarsi rappresentazione esplicita della teologia implicita della Pharsalia, ben diversa appare però la posizione del poeta nei loro riguardi. Ora, in questa sede non si può tentare una rassegna nemmeno per sommi capi sul rapporto fra dèi e poeta nella Pharsalia154. Nel poema lucaneo l’assenza di deorum ministeria rappresenta un punto di rottura fondamentale e rivoluzionario fra la voce narrante del poeta epico e la materia narrata: nel corso della narrazione degli eventi, il poeta dimostra più volte di considerare nefas il destino che attende Roma (la fine della repubblica, il trionfo di Cesare e l’avvento dei Cesari) e si oppone al disegno divino sotteso a tale nefas. Per certi versi, l’assenza di una rappresentazione esplicita dei tradizionali agenti divini appare necessario presupposto perché il poeta possa esprimere questa sua opposizione.

Cosa accade nel Bellum civile del Satyricon quando gli dèi rientrano in scena? Le divinità petroniane sono divinità sanguinarie, egoiste, degradate – le uniche che possano “spiegare” lo scatenarsi della guerra fratricida (questo, come detto, sembra essere un punto d’incontro importante con la “teologia in negativo” di Lucano). Se però la rimozione dei deorum ministeria costituiva in Lucano un importante presupposto per la dissociazione fra disegno divino e voce del poeta, nel Bellum civile petroniano, dopo che gli dèi sono rientrati in gioco, sembra che la voce del poeta epico si ritrovi ad essere irrimediabilmente compromessa con gli dèi che essa stessa rappresenta. In particolare, l’affinità fra la tirata moralistica iniziale e il discorso di Dite e Fortuna rivela un evidente allineamento del narratore alla prospettiva catastrofica espressa dall’apparato divino155. Il moralismo di Dite, interpretato da molta bibliografia come diretto contro la domus aurea, va letto soprattutto nei suoi risvolti ironici. Dite viene presentato come un moderno declamatore; oggetto

153 Si tratta della medesima opacità che investe tutto il catalogo di omina petroniani, che non ci dice nulla di

preciso su qualsivoglia prospettiva olimpica (cfr. supra).

154 Il tema è stato toccato nel cap. I, a cui rimando anche per la bibliografia. 155 Su questo tema cfr. in generale Fucecchi 2013.

dell’ironia petroniana sono le forme e i modi del discorso moralistico, che passano dalla bocca di un ipocrita Eumolpo (vd. il magmatico incipit) a quella del dio dei morti – una figura, come abbiamo visto, altrettanto ipocrita e degradata156. Si crea così un’evidente forma di rispecchiamento fra il poeta-Eumolpo e i suoi dèi157. Il poetastro sembra condividere appieno le mire distruttrici delle divinità e rappresenta con entusiasmo il loro realizzarsi. Nel poemetto petroniano non riceve particolare enfasi, da parte del narratore, il carattere di nefas della guerra civile. Anche questo rappresenta, evidentemente, un punto critico importante del Bellum petroniano, che apre una riflessione non banale sul rapporto fra voce del poeta epico e piano divino. Al poeta/narratore Lucano resta precluso il livello degli dèi, il che gli permette di non essere compromesso con la prospettiva che tali dèi sembrano caldeggiare; in Petronio, invece, il poeta epico rappresenta dèi (degradati, molto “lucanei”) e si ritrova, inevitabilmente, a condividere la loro prospettiva.

Grazie a questa chiave di lettura, si potrebbe riconsiderare in termini più oggettivi, almeno credo, una delle maggiori croci interpretative del poemetto, quella del supposto filocesarismo del Bellum petroniano (e di Petronio stesso) e della possibile polemica politica con Lucano158. Il Cesare petroniano è stato spesso considerato una figura sostanzialmente positiva, una vera e propria risposta a Lucano e al suo Cesare “demoniaco”. Il personaggio di Eumolpo, in effetti, è l’unico protagonista umano del poemetto e senz’altro viene presentato con tratti eroici ed accenti elogiativi: l’ingrata Roma del v. 64159, il suo discorso

156 Cfr. anche il cap. III. Accanto a possibili riferimenti “impegnati” all’attualità neroniana (vd. note di

commento ai vv. 87-9 per la bibliografia), va tenuto presente l’evidente divertissement con forme e modi della cultura declamatoria e del moralismo, rappresentati da Lucano e Seneca in primis (Murgatroyd 2013, 253-4 con bibl.; Rudich 1997). In questo senso, nel doppio passaggio moralistico (incipit e discorso di Dite) non bisogna necessariamente ravvisare una stanca riproposizione di medesimi temi (così Luck 1972, 138), bensì un esempio di virtuosistica “variazione sul tema”. Particolarmente importante è il cuore di questa variatio: la tirata viene attribuita, con gusto tutto declamatorio dell’inaspettato, a un re dei morti preoccupato del proprio reame – un Plutone, appunto, che arriva paradossalmente a rassomigliare i moderni declamatori (Grenade 1948, Stärk 1995, 82-3; Fucecchi 2013). Agganciare tale discorso moralistico non a una prospettiva etico- filosofica “seria”, bensì a un’egoistica difesa del reame del tremendo e sanguinario Dite rappresenta una distorsione notevole del medesimo discorso, certamente non scevra di ironia. Tutto ciò intacca la figura stessa del moralista e le forme del moralismo con l’arma dell’ironia, piuttosto che solo (sic et simpliciter) gli oggetti della vituperatio, ammesso e non concesso che fra questi rientrino Nerone e la sua domus aurea.

157 Al di là del parallelismo fra tirata moralistica iniziale del poeta e discorso di Dite, si sarebbe tentati di

tracciare alcuni paralleli fra gli dèi “furenti” di Eumolpo e la caratterizzazione del poetastro come poeta

vesanus che emerge da 118. Questa strada è stata percorsa parzialmente da Connors 1998. Il legame a mio

parere più significativo non è però segnalato dalla studiosa. Si tratta del possibile rispecchiamento fra la presentazione di Eumolpo come poeta furens e il Furor “scatenato” da lui ritratto: 118, 6 praecipitandus est

liber spiritus, ut potius furentis animi vaticinatio appareat; vv. 258-60 quas inter Furor, abruptis ceu liber habenis, / sanguineum late tollit caput oraque mille / vulneribus confossa cruenta casside velat. Il parallelismo

sembra quasi suggerire che il Furor sia la “Musa ispiratrice di Eumolpo”. Da questo punto di vista, si potrebbe valorizzare anche la valenza metapoetica della clausola oraque mille: mille va certo con vulneribus, ma suggestivo è il possibile richiamo al topos delle “cento bocche del poeta” (Verg. Georg. 2, 43 = Aen. 6, 252

non, mihi si linguae centum sint oraque centum), come giustamente segnalato da Rudoni 2014. Su Eumolpo

come poeta furens cfr. almeno Labate 1995; Conte 2007, 62ss.; Hardie 2009, 225-7; Carmignani 2013.

158 Questa idea, già presente in Mössler e Kindt 1892, è stata rilanciata da Sullivan in diversi suoi studi (1968,

165ss.; 1968a; 1982; 1985) e soprattutto da Doniè 1996, 138-149, che si sofferma proprio sul Bellum petroniano nel suo studio d’insieme sul Caesarbild in der römischen Kaiserzeit. Riprendo qui alcuni spunti degli studi di Zeitlin 1971, Häußler 1978, 134-136 e Connors 1989, passim, che, con buone ragioni, sottolineano gli elementi di ambiguità nella rappresentazione del Cesare petroniano. Non è però mia intenzione fornire un’analisi dettagliata della figura di Cesare nel Bellum, bensì solamente illustrare l’importanza di una valorizzazione del piano divino del Bellum per la sua interpretazione.

apologetico, il comportamento da vero eroe nell’attraversamento delle Alpi e, infine, la similitudine con Ercole e Giove che chiude l’episodio sono tutti elementi che concorrono a una sua presentazione favorevole. Se però si considera la figura di Cesare sullo sfondo dei deorum ministeria, il quadro diventa decisamente più complesso. Fra i sostenitori di una lettura filocesariana del Bellum, solo Doniè 1996, 147ss. si è preoccupato di analizzare il rapporto fra Cesare e gli dèi nel poemetto petroniano (corsivo mio):

Selbst die nicht zu leugnenden verwerflichen Taten Caesars im Bürgerkrieg sind demnach durch die unmittelbare Aufforderung einer göttlichen Instanz, und wenn es auch nur Discordia ist, legitimiert.

Difficilmente si può considerare questa forma di legittimazione divina del tutto priva di ambiguità. Cesare funge da mero strumento delle forze infernali e della Fortuna, mettendo in atto la catastrofe da loro pianificata – una catastrofe che la voce narrante sembra certo condividere. Peraltro tali divinità appaiono interessate unicamente alla distruzione di Roma e, al contrario degli dèi tradizionali dell’epos (vd. sopra), non manifestano alcun interesse per il destino di Cesare né forme di attaccamento o protezione nei suoi confronti160. La presentazione del generale è intrinsecamente ambigua e paradossale: se si vuole, il Cesare petroniano è, al più, “positivo nella sua negatività”. Diversi elementi del poemetto collaborano a suggerire questo statuto ambiguo. In prima linea c’è proprio la scena che lo vede protagonista, quella della traversata delle Alpi: Cesare riceve il sostegno degli dèi con gli omina dopo il suo discorso, ma viene subito ostacolato da una violenta tempesta dagli evidenti risvolti simbolici, quasi fosse un nuovo Annibale che sta valicando un limite sacro e sta per portare la “tempesta della guerra” in Italia161. Inoltre, particolarmente sconcertante risulta proprio l’elemento a cui fa riferimento Doniè, ovvero le parole di Discordia: è a quest’ultima che viene demandato il compito di sancire profeticamente la divinizzazione di Cesare (vedi la pregnante apostrofe “dive” al v. 290). Insomma, anche la supposta “positività” della figura di Cesare nel Bellum civile petroniano appare inestricabilmente legata alla complessa questione della rappresentazione del piano divino e, insieme, del ruolo della voce narrante del poeta epico, che si ritrova a condividere la prospettiva dei suoi dèi. Come anticipato, è possibile che, in queste dinamiche, ci sia dell’ironia da parte dell’“autore nascosto”. Qui come altrove, tuttavia, dietro la componente ironica si possono individuare spunti di riflessione importanti: è probabile che Petronio voglia richiamare l’attenzione sull’instabilità della forma epica dopo la rivoluzione lucanea, sulla difficoltà di ricomporre la voce del poeta con gli dèi dell’epos.

160 Torneremo su questo aspetto nel cap. III.2.3.

161 Anche da questo punto di vista sarebbe importante una dettagliata analisi intertestuale dell’episodio. Punto

di partenza, finora stranamente non valorizzato, è senz’altro la tempesta che coglie il Cesare lucaneo durante la traversata del mar Adriatico (Lucan. 5, 504-677), un’altra scena ambigua dal punto di vista “teologico” (anche qui si ha un apparente momento di crisi per un personaggio che normalmente gode della protezione degli dèi). Sull’episodio di Lucano cfr. almeno Narducci 2002, 247-258 e Day 2013, 143-155.

Conclusione

Il conciliabolo fra Dite e Fortuna e il successivo catalogo di omina che troviamo nel Bellum petroniano vanno adeguatamente contestualizzati nel quadro delle complesse dinamiche messe in luce nel precedente capitolo: Petronio ha come referenti immediati una serie di testi (finale di Georgiche I, finale di Metamorfosi XV e Lucano) che aveva trattato il tema degli dèi, degli omina delle profezie alle soglie della guerra civile. Come dimostra un’attenta analisi della sofisticata stratificazione intertestuale, senz’altro Petronio rielabora diversi elementi di questi testi, potenziando in modo parossistico le componenti antistoiche ed eliminando qualsivoglia accento ottimistico/augusteo. Il Bellum civile petroniano si presenta innanzitutto come tentativo di dare un volto alle invisibili forze divine della Pharsalia e in primis alla Fortuna lucanea. In questa operazione Petronio ha senz’altro presente il peculiare rapporto che lega il finale di Georgiche I e il finale delle Metamorfosi (Ovidio dà un volto a quegli dèi che Virgilio aveva invocato nelle Georgiche). La problematizzazione del ruolo dell’apparato divino alle soglie della guerra civile, presente in diversi modi e misure nei modelli, appare coerente con la scelta petroniana di figure al di fuori del tradizionale Götterapparat olimpico, figure che possano adeguatamente “spiegare” lo scoppio del conflitto fratricida (in particolare la scelta di Fortuna, come detto, si pone in decisa continuità con la Pharsalia). Nella scena deliberativa e nel catalogo di signa del Bellum, insomma, le convenzioni epiche vengono messe in crisi – in un modo non dissimile da Lucano, ma per una via diversa.

L’analisi dell’elemento profetico corrobora questa interpretazione. Petronio, riprendendo la Stimmung che pervade le profezie lucanee, mette in discussione l’idea di un qualsiasi telos ottimistico per il conflitto fratricida (la Fortuna preannuncia una catastrofe fine a se stessa). L’inversione della teleologia di stampo eneadico è particolarmente evidente nei richiami sovversivi allo scudo di Enea contenuti nella breve profezia della Fortuna: i demoni infernali, presentati rapidamente nell’ekphrasis sulla battaglia di Azio, ricevono in Petronio un ruolo centrale, diventano protagonisti a discapito delle divinità olimpiche e raccontano la guerra civile dal loro punto di vista.

L’egoistica “sete di sangue” delle divinità infernali diventa dunque motivo centrale e cifra caratterizzante del singolare Götterapparat. Dietro a questo aspetto c’è la particolare evoluzione che tocca al personaggio della Furia nella poesia latina, da Alletto fino alla Furia senecana: questo processo porta a una progressiva indipendenza dell’ambito infero e, al contempo, a un’enfasi sulla componente malvagia e sanguinaria. A livello intertestuale si riconosce una coerente rete di allusioni al finale di Georg. I, alla rappresentazione del Furor impius nella profezia di Giove e alla similitudine fra Turno e un lupo; spunti interessanti arrivano anche dal sanguinario Ottaviano a Filippi ritratto nei Fasti di Ovidio. Nel contempo, contribuiscono in maniera decisiva alla caratterizzazione del personaggio anche le forze infernali ritratte da Lucano (si veda soprattutto l’episodio di Eritto) come sostenitrici della strage fratricida. La terminologia culinaria con cui è descritta la “sete di sangue” richiama il discorso del Pitagora ovidiano; un simile lessico ricorre, pregnantemente, nella Cena e nell’episodio di Crotone, in cui si intrecciano il tema del cannibalismo e del conflitto civile.

La valutazione della figura di Giove all’interno di un siffatto apparato divino è legata all’interpretazione della folgore che chiude la scena fra Fortuna e Dite, provocando la fuga di quest’ultimo. La funzione del fulgur è ambigua: sembra essere segno favorevole del patto stretto fra Dite e Fortuna, omen della ventura guerra civile, ma provoca una ritirata del dio dei morti, che si trova al di fuori dei limiti del suo regno. Tale tributo ai tradizionali rapporti di forza è venato da ulteriori ambiguità, proprio perché il sommo dio si ritrova a interagire con divinità non convenzionali: egli di fatto non ha alcun ruolo nella decisione di Dite e dell’onnipotente Fortuna. La critica dell’arma-simbolo di Giove è tematica lucanea che Petronio riprende, dando plastica rappresentazione, nel suo singolare apparato divino, alla crisi del regnum di Giove. Un doppio fondo pregnante per questi versi viene offerto anche da Lucrezio e dalle sue considerazioni sul rapporto fra il fenomeno meteorologico del fulgur e il vacuo pavor degli uomini nei confronti del potere di Giove: se considerato su questo sfondo l’apparato divino petroniano ne esce ulteriormente degradato.

Interessante è il rapporto fra il poeta epico e i suoi dèi. Nella Pharsalia la rimozione degli dèi permette al poeta-Lucano di dissociarsi da un disegno divino che lui considera nefas. Nel Bellum petroniano, in cui gli dèi vengono reintrodotti, si può riscontrare un pieno accordo, a tratti un vero e proprio rispecchiamento, fra il poeta e le sue grottesche divinità. Su questo sfondo si può cogliere anche l’intrinseca ambiguità del Cesare petroniano, spesso considerato come risposta al Cesare demoniaco di Lucano. Se non si possono negare diversi aspetti positivi nella sua presentazione, non bisogna però mancare di notare che il personaggio è presentato come attuatore dei piani di forze demoniache. Tale ambiguità nella valutazione di Cesare emerge da diversi elementi (per esempio dalla traversata delle Alpi e dall’apostrofe dive che gli rivolge la Discordia). Nel complesso, dietro questo peculiare rapporto fra la voce del poeta epico, i suoi dèi e il suo eroe, Petronio sembra voler metter in rilievo la difficoltà di ricostituire la forma epica tradizionale dopo Lucano.

III. Il patto infernale, la degradazione del concilium deorum e