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I. DÈI, SIGNA E PROFEZIE ALLE SOGLIE DELLA GUERRA CIVILE DA CICERONE A

3. Ovidio (il finale delle Metamorfosi)

Nel finale delle Metamorfosi ovidiane (15, 761ss.), nell’imminenza dell’assassinio di Cesare, Venere non riesce a trattenere la propria costernazione17. I superi partecipano al suo dolore e mandano signa, che però – insiste l’autore – non possono vincere quanto deciso dalle Parche e dal fato18. Interviene dunque Giove a puntualizzare che le leggi del destino non possono essere mutate e a confortare Venere con quanto ha visto sui tabularia del fato: la prossima divinizzazione di Cesare (di cui pure la dea sembra avere contezza!)19 e l’avvento di Augusto, che vendicherà la sua morte e porrà termine alle guerre civili.

Ora, la scena ovidiana in generale e la funzione dei signa in particolare sono estremamente complesse: mi limito ad alcuni punti salienti della rilettura ovidiana della morte di Cesare, specialmente laddove essa pare “rispondere” al passo delle Georgiche. Dal confronto con le Georgiche emerge prima di tutto la diversa dislocazione dei signa, che in Ovidio avvengono prima della morte di Cesare. È rischioso ridurre, come fanno alcuni20, l’anticipazione ovidiana a una volontà di ripristinare la realtà storica – o, meglio, l’accordo con le fonti storiche. Questo non solo perché si possono rilevare significative convergenze fra Virgilio e la tradizione storica (vedi quanto detto sopra), ma anche perché, come ben osserva Bömer, gli omina narrati dalle testimonianze storiografiche hanno una natura diversa da quelli riportati da Ovidio, al di là di qualche sporadica coincidenza. Il catalogo dei signa ovidiano mostra lampanti affinità soprattutto con quello delle Georgiche, di cui il poeta di Sulmona fornisce una vera e propria rilettura. Non la guerra civile, bensì l’imminente dipartita di Cesare è la tragedia che i signa preannunciano, con una ridistribuzione di enfasi notevole rispetto a Virgilio21. Ciò pare coerente con l’esplicitazione del futuro successo di Augusto, nelle Georgiche presentato come incerto. Se la morte di Cesare, la sua divinizzazione, la vendetta per il suo assassinio, tutte le guerre civili che ne conseguono rappresentano una catena di eventi necessari per la piena affermazione del “figlio di Cesare”, l’unico evento meritevole di enfasi patetica non può che essere proprio il primo anello di questa catena, la morte del “padre di Augusto”22.

17 Vv. 760-765 ne foret hic igitur mortali semine cretus, / ille deus faciendus erat; quod ut aurea vidit / Aeneae

genetrix, vidit quoque triste parari / pontifici letum et coniurata arma moveri. / Palluit et cunctis, ut cuique erat obvia, divis [...] dicebat […].

18 Vv. 779-782 talia nequiquam toto Venus anxia caelo / verba iacit superosque movet; qui rumpere

quamquam / ferrea non possunt veterum decreta sororum, / signa tamen luctus dant haud incerta futuri; vv.

799-801 non tamen insidias venturaque vincere fata / praemonitus potuere deum, strictique feruntur / in

templum gladii.

19 In effetti, il doppio vidit (vv. 761ss. quod ut […] vidit […] vidit quoque) sembra sottolineare che Venere è

perfettamente consapevole non solo del fatto che Cesare stia per morire, ma anche del fatto che stia per essere divinizzato (così Wheeler 2000, 141). Credo che questa piccola notazione meriterebbe adeguata riflessione: l’azione divina ne verrebbe ancor più minata, rivelando tutta la sua vacuità e la sua inutile melodrammaticità.

20 Insistono su questa correzione a favore della “verità storica” Schmitzer 1990, 86 e Urban 2005, 146. 21 Cfr. Hardie a Ovid. Met. 15, 782. Certo nelle Georgiche l’assassinio di Cesare è presentato come causa

scatenante del disordine cosmico, ma i signa riguardano soprattutto le inevitabili, tragiche conseguenze di esso (nel paragrafo su Lucano ritorneremo su questo punto delicato).

22 Se si può concordare che il tema della guerra civile passi in secondo piano, mi pare un po’ semplicistico

affermare che in Virgilio, al contrario che in Ovidio, «Augustus konnte als die Lichtgestalt beschrieben werden, die diesem Wahnsinn ein Ende setzte und den Römern Frieden schenkte» (Urban 2005, 147); cfr. anche Schmitzer 1990, 285-6 e Hardie a Ovid. Met. 15, 782.

L’apparato divino in cui tali signa sono inseriti merita adeguato approfondimento, proprio nella misura in cui costituisce una possibile reazione al ruolo dei superi nel Virgilio georgico. Ovidio rappresenta gli eventi cui allude Virgilio proprio dal punto di vista degli dèi: questo pezzo, pertanto, vuole essere letto come riposta a una domanda che il Mantovano lasciava aperta, non senza ambiguità e inquietudini. Se l’anticipazione degli omina appare legata a stretto giro alla patina augustea del pezzo, vero è che questa operazione permette di ritrarre le premesse divine della morte di Cesare e dell’incombente conflitto. Alcune caratteristiche sono comuni ai due poeti: gli dèi ovidiani mandano segni per manifestare la propria miseratio nei confronti di Cesare, come il sol delle Georgiche nei confronti di Roma23, ma, come in Virgilio, la catastrofe non può essere stornata né gioca alcun ruolo l’incapacità degli uomini di interpretare tali signa24. Ovidio offre una chiave interpretativa per la comprensione della funzione degli dèi introducendo una netta dissociazione fra i decreta del fato e le divinità olimpiche: queste mandano i loro praemonitus nella speranza di insidias venturaque vincere fata, ma non possono influire sul corso degli eventi e, di fatto, si limitano ad accompagnarlo. Questa singolare caratterizzazione dissipa ogni ombra circa la responsabilità dei superi per le disgrazie stabilite dal fato, ma implica anche una loro sostanziale impotenza (vedi il ritornello non possunt, non potuere). Inseriti in un apparato divino del genere, dèi e signa rivelano un certo grado di “inutilità”: gli dèi possono anche avere pietà per il genere umano e cercare di avvertire gli uomini, ma sono vani tutti i loro sforzi contro le catastrofi stabilite dal fato25.

Il Giove ovidiano interviene a sanzionare tale inutilità. La differenza fra lui e gli altri dèi pare essere limitata alla diretta conoscenza dei fata vergati sui tabularia delle Parche e alla piena consapevolezza che vano è resistervi26. Un qualche tentativo di resistenza, in effetti, è stato tentato con i signa, ma è assai significativo che il sommo dio si guardi bene dal lanciare la propria folgore, consapevole che i tabularia delle Parche neque concussum caeli neque fulminis iram […] metuunt (vv. 811-2)27. Tutto ciò ha conseguenze di un certo rilievo sull’elemento teleologico della profezia di Giove. Questa singolare rappresentazione dell’unità di divinità e di εἱµαρµένη (Giove conosce i disegni del fato) non è scevra di ambiguità e tratti paradossali: fra i due poli dell’unità stoica si apre una significativa “distanza” 28. Ciò che la divinità ovidiana profetizza non fa parte di un suo proprio piano ordinatore: la teleologia che viene proposta è evidentemente qualcosa di posticcio, un’interpretazione di un disegno su cui il dio non esercita giurisdizione. Se, come è stato osservato, il discorso di Pitagora all’inizio del libro XV mette sottilmente in crisi l’idea di qualsivoglia disegno teleologico che porta all’affermazione di Roma, la profezia del Giove

23 Su tale “personalizzazione” (dall’intera Roma al singolo Cesare) insiste, da un punto di vista diverso, Feeney

1991, 213ss.

24 Hardie a Ovid. Met. 15, 782: «I presagi sono insieme anticipazioni dei lamentabili eventi in arrivo ed

espressione del dolore degli dèi».

25 Sulla “Hilflosigkeit” di Venere e degli altri dèi ovidiani cfr. Urban 2005, 146.

26 Il tema era emerso chiaramente già nel discorso di Giove a Met. 9, 429ss., una vera e propria «confessione di

impotenza» (Galasso 2002, 130; cfr. Kenney ad loc.), ma assume qui una valenza attuale e ben più scopertamente “politica”.

27 In effetti, è interessante che la superiore scientia di Giove e la sua acquiescenza ai disegni del fato si

palesino anche in questo piccolo ma assai pregnante dettaglio, finora passato inosservato, del catalogo di

signa: la mancanza di fulmini e saette, elemento di prammatica in questi contesti.

ovidiano a conclusione dello stesso libro (e delle Metamorfosi) ha senz’altro un valore parimenti sovversivo, soprattutto se letta sullo sfondo della profezia di Giove a Venere all’inizio dell’Eneide, suo evidente modello, che fornisce una schema interpretativo per il lettore fin dall’inizio del poema e in cui il rapporto fra Giove e il fato appare particolarmente stretto29. Quando i fata, dopo una sostanziale assenza nelle Metamorfosi, entrano finalmente in gioco a pieno titolo, è troppo tardi per costruire una teleologia e resta il sospetto che, al di là della “lettura” dei fata proposta da Giove, Roma, con Augusto e i suoi successori, non sia il fine della Storia30.

Nell’analisi di questa dinamica può essere istruttivo qualche minimo confronto dal De divinatione ciceroniano31. Nel comportamento velleitario di Venere – cui Giove dice: sola insuperabile fatum, / nata, movere paras (cfr. vv. 807-8) –, e degli altri dèi che la assecondano inviando signa, si delinea una concezione della divinità come priva di qualsivoglia ruolo decisionale su quanto sta per accadere – una caratterizzazione cui spesso allude Cicerone32. Per comprendere appieno la caratterizzazione di Giove, invece, è utile rivolgersi a uno dei principali modelli di Ovidio per questa scena celeste: il dibattito fra Zeus ed Era che precede la morte di Sarpedonte in Iliade XVI33. Qui il sommo dio, pur potendo salvare il figlio, si lascia convincere da Era a non cambiare la sua sorte e manda una pioggia di sangue per onorarlo (v. 460 παῖδα φίλον τιµῶν). In div. 2, 25, Cicerone sostiene che la divinazione è inutile se il fato non può essere in alcun modo cambiato, nemmeno dagli dèi; questo, a suo parere, sarebbe il concetto del passo di Il. XVI34 (si tratta di una lettura tendenziosa del luogo omerico: Zeus potrebbe intervenire sul destino di Sarpedonte, ma alla fine viene convinto dalla moglie)35. Interessante che, nella ripresa virgiliana dell’episodio omerico, pure presupposta da Ovidio, davanti alla tristezza di Ercole per l’imminente morte di Pallante, viene ricomposta qualsiasi «contraddizione fra pronoia e heimarmene» e «Giove può solo parlare il linguaggio del fato», nel senso che il sommo dio e il fato appaiono due entità sostanzialmente coincidenti (in questo passo, così come nell’incontro con Venere di Aen. I)36. Il Giove ovidiano certo conosce i disegni del fato (vi

29 Naturalmente anche nel poema virgiliano sul ruolo di Giove gravano diverse ambiguità (cfr. almeno Ahl

2012), ambiguità che Ovidio potrebbe riprendere e potenziare; qui importa, tuttavia, che nel corrispettivo passo di Aen. I l’unità fra Giove e fato sia particolarmente evidente, al contrario di quanto accade in Ovidio.

30 Mi baso principalmente su Rosati 2001, 42ss.; sul legame (problematico ed ambiguo) con Eneide I cfr.

anche Tissol 1997, 189ss., Feldherr 2010, 69ss. e Gladhill 2012. Ritorneremo più sotto sull’analisi dell’elemento profetico.

31 Mentre per il passo virgiliano e quello lucaneo sono stati proposti confronti con le dottrine stoiche e

specificatamente con il De divinatione, non ho trovato studi che mettessero adeguatamente in rilievo possibili elementi anti-stoici nel luogo ovidiano (naturalmente l’allontanamento da qualsivoglia caratterizzazione stoica del sommo dio è concetto che emerge dall’opera ovidiana nel suo insieme e trova nel finale quasi una sanzione definitiva).

32 Cfr. gli assunti stoici criticati da Cicerone in 2, 105 (sequitur porro, nihil deos ignorare, quod omnia sint ab

iis constituta. hic vero quanta pugna est doctissumorum hominum negantium esse haec a dis inmortalibus constituta!). La divinità ovidiana crede anzi di poter cambiare ciò che è inevitabile proprio perché non conosce

a fondo il disegno del fato, al contrario di Giove.

33 Cfr. la nota di Hardie a Met. 15, 807-42.

34 Si enim nihil fit extra fatum, nihil levari re divina potest. hoc sentit Homerus, cum querentem Iovem inducit,

quod Sarpedonem filium a morte contra fatum eripere non posset.

35 Cfr. Timpanaro ad loc. e Barchiesi 1984, 22; sull’interpretazione ciceroniana, ben testimoniata nelle fonti

antiche cfr. Pease ad loc.

si allinea, non vi resiste), ma Ovidio appare ben lungi dal postulare una coincidenza anche solo lontanamente paragonabile.

Dal De divinatione emerge anche, più precisamente, una riflessione sulla morte di Cesare e sul suo rapporto con la divinità. Fra i più interessanti riferimenti al tema vi è un’affermazione di Quinto (1, 119): quae quidem illi (Cesare) portendebantur a dis inmortalibus, ut videret interitum, non ut caveret. Timpanaro commenta acutamente:

Una frase cupamente anticesariana (gli dèi volevano la morte, non la salvezza di Cesare […]), la quale, però, conferma l’inutilità della divinazione per l’uomo.

Questa osservazione sui portenti precedenti la morte di Cesare comporta una lettura anticesariana del corso degli eventi, oltreché un’evidente, sottile obiezione all’utilità dei signa: Cesare non badò a questi signa perché gli dèi avevano già stabilito irrevocabilmente la sua morte37. Ovidio s’inserisce nella tradizione sull’inutilità della divinazione prima della morte del dittatore e, nel contempo, dissimula (non elimina!) gli elementi più scopertamente anticesariani38. Al di là del fatto che la noncuranza di Cesare venga sottaciuta (non senza una dose di ironia: gli omina sono rivolti soprattutto a lui), da rilevare è soprattutto uno sforzo ostentato di ricostituire un rapporto armonico fra Cesare e gli dèi contro il disegno del destino che pretende la sua morte39, un tentativo che si risolve però in una messa in crisi dell’apparato divino dell’epica a favore del dominio dei fata. La morte e la divinizzazione di Cesare e, più in generale, l’istituzione di “nuovi dèi” (i futuri Cesari) sembrano avere dei costi ben precisi nella cornice del genere epico, ridefinendo in maniera radicale ruolo e funzione del tradizionale Götterapparat. Nel finale delle Metamorfosi viene messa in rilievo con grande evidenza la natura vacua e posticcia (artificiale, verrebbe da dire) degli dèi epici e del loro punto di vista, meri osservatori ed interpreti di una storia già scritta e fuori dal loro controllo: Ovidio sembra voler mettere a fuoco i paradossi che investono la forma epica nel momento in cui è il princeps a “(ri)scrivere” la storia e l’apparato divino40.

37 Si confrontino le diverse “sfumature” delle fonti a questo proposito: Vell. Pat. 2, 57 incautus ab ingratis

occupatus est, cum quidem plurima ei praesagia atque indicia dii immortales futuri obtulissent periculi. […] sed profecto ineluctabilis fatorum vis, cuiuscum<que> fortunam mutare constituit, consilia, corrumpit; Plut. Caes. 63, 1 (con n. di Pelling) ἀλλ᾽ ἔοικεν οὐχ οὕτως ἀπροσδόκητον ὡς ἀφύλακτον εἶναι τὸ πεπρωµένον, ἐπεὶ

καὶ σηµεῖα θαυµαστὰ καὶ φάσµατα φανῆναι λέγουσι; App. B.C. 2, 16, 116 οὐδενὸς οὐδ᾽ ὣς καλλιερουµένου, τὴν βουλὴν βραδύνουσαν αἰδούµενος καὶ ὑπὸ τῶν ἐχθρῶν ὡς φίλων ἐπειγόµενος ἐσῄει τῶν ἱερῶν καταφρονήσας· χρῆν γὰρ ἃ ἐχρῆν Καίσαρι γενέσθαι. Sul tema cfr. Santangelo 2013, 236ss. Pease ad loc. fa giustamente notare che questa affermazione in bocca allo “stoico” Quinto – un’affermazione assai controproducente e affine a tante obiezioni che gli muoverà il fratello nel secondo libro – sarà un’aggiunta ciceroniana alle fonti stoiche seguite per la costruzione del discorso di Quinto.

38 Joseph 2008, 29, n. 10 (con bibliografia) si sofferma specificatamente sui signa prima della morte di Cesare

e sul fatto che essa sia stabilita dal fato (con buona pace degli dèi), sottolineando la carica cinica e sovversiva di una siffatta rappresentazione.

39 Ovidio, cioè, non si accontenta di una soluzione come quella del Pallante virgiliano (Giove rappresenta, è il

fato, che ha stabilito irrevocabilmente la morte dell’eroe). Nelle Met. Giove e il fato sono due entità distinte e ad esigere la morte del dittatore è il secondo, non il primo.