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Salerno MENZIONE D’ONORE

E alla fine la libertà

Le giornate passavano lentamente, il giorno dava il cambio alla notte e la notte dava il cambio al giorno, con la stessa cadenza con cui le sentinelle si davano il cambio sulle torrette di guardia.

Mi ricordo che eravamo in quaranta nella baracca numero 11, bran-dine di legno e una grande stufa al centro. Ognuno di noi teneva il conto del tempo, ma ognuno si trovava in un giorno diverso.

La notte era il periodo peggiore e passate le prime ore di sonno, quando non avevo incubi, passavo ore ed ore con gli occhi sbarrati, il rumore del treno sui binari che mi rimbombava nelle orecchie e la puzza della piscia e degli escrementi in quel vagone chiuso e sigillato che mi tornava nel naso. Non ricordo il tempo di quel viaggio: un giorno, un mese, un’eternità senza vedere mai un raggio di luce e poi l’arrivo al campo tra mitra e filo spinato.

La mia fortuna fu la mia esperienza da ragazzo nei ristoranti e nei bar del paese e la mia passione per la cucina. Nei primi giorni di prigio-nia un soldato venne a chiederci, in un italiano duro, se qualcuno di noi fosse bravo in cucina. Io alzai subito la mano e fui l’unico. Mi fu detto di tenermi pronto nei giorni successivi.

Dopo due giorni due soldati, nessuno dei due parlava italiano, in te-desco e a gesti mi fecero capire che avrei dovuto seguirli.

Mentre attraversavo il cortile tra i due soldati impettiti sentivo su di me gli sguardi degli altri deportati nelle altre baracche, non cono-scendo il motivo molti mi guardavano con commiserazione e notai che qualcuno al mio passaggio accennava un timido segno di croce.

Entrai nell’alloggio del comandante del campo con le gambe che mi

Premio Accademico Internazionale di Letteratura Contemporanea L. A. Seneca – IV edizione 2020

liano metallico mi chiese se sapevo cucinare e alla mia risposta af-fermativa mi scrutò ancora per un tempo, che a me sembrò intermi-nabile. Poi mi disse che tra una settimana aveva degli ospiti a pranzo e non poteva fare brutta figura, per cui mi avrebbe dato una settima-na di tempo per potergli dimostrare la mia preparazione e poi mi mi-nacciò dicendo che se si fosse accorto che la mia era solo una scusa, me ne sarei amaramente pentito. Avrei iniziato il giorno dopo.

I due soldati mi riaccompagnarono nella mia baracca, dove trovai gli occhi interrogativi di tutti i miei compagni. Raccontai brevemente l’accaduto e mi andai a stendere sulla brandina. Nella mente i pensie-ri si pensie-rincorrevano veloci e le immagini scorrevano come in un film davanti agli occhi. Vedevo me bambino e mia mamma china a soffia-re nella fornacella della vecchia cucina di pietra e sopra il pentolone a bollire. Cercavo di ricordare le gesta e i commenti che faceva men-tre io come ipnotizzato guardavo tutto perché cucinare mi divertiva e mi piaceva già da allora. Poi a dodici anni andai a lavorare al bar in piazza e imparai a portare i bicchieri sul vassoio. Dopo un anno an-dai a lavorare alla locanda giù al paese, all’incrocio con la strada memorizzare tutti i segreti del signor Domenico, don Mimì come lo chiamavano tutti, e devo, dire la verità, il titolare mi aveva preso in una tale simpatia che mi spiegava tutti i segreti e le ricette che cuci-nava. E in quella notte, che precedeva la mia prova alla mensa del comandante, cercai di ricordare e soprattutto memorizzare tutto quel-lo che avevo appreso in quei quattro anni.

La mattina dopo vennero a prendermi presto e mi portarono nella cu-cina al piano terra del fabbricato, destinato ai militari.

Mi aprirono una credenza piena di tutto l’immaginabile e devo con-fessare che a quel vedere il mio stomaco fece un brontolio che non potei fermare. Lo sentirono anche i miei due accompagnatori che si guardarono, mi guardarono e si misero a ridere. Si sedettero al tavolo e a gesti mi fecero capire che potevo iniziare a cucinare.

Premio Accademico Internazionale di Letteratura Contemporanea L. A. Seneca – IV edizione 2020

Iniziai timidamente a tagliuzzare, friggere, cuocere, mescolare men-tre nella mente scorrevano lentamente tutte le preghiere che cono-scevo. Il profumo prometteva bene, ma dovevo ancora passare l’esame più difficile, il palato del comandante.

Ricordo che l’orologio a muro nella sala da pranzo privata del co-mandante segnava l’una. Da quel momento cambiò la mia vita nel campo, infatti non so se le preghiere, la mia abilità culinaria, la for-tuna o tutto insieme ma le mie pietanze furono di gradimento e così iniziò la mia attività di cuoco privato del comandante del campo.

Era passato ormai un mese da quando giornalmente cucinavo per il comandante. Una sera, mentre stavo aspettando le guardie che mi dovevano riaccompagnare, il comandante entrò nella cucina e mi dis-se, indicando un pezzo di pane abbastanza grande sul tavolo:

– Può capitare che di notte può venirti fame. Prendilo e portatelo alla baracca, però nascondilo perché è solo per te. – Lo guardai tra l’incredulo e il riconoscente e mi uscì un flebile “dank.”

Nel cortile sentivo la pressione della pagnotta sul corpo e avevo una strana sensazione di piacere mentre in punta di labbra recitavo un

“Padre nostro” di ringraziamento.

Non ero mai stato un assiduo praticante, certo avevo fatto il chieri-chetto e frequentato il catechismo ma da quando avevo iniziato a la-vorare evitavo spesso e volentieri la messa domenicale. Ma da quan-do ero arrivato al campo e durante tutto il viaggio la preghiera mi era stata molto di compagnia, mentre vedevo tra molti miei compagni un profondo sconforto e un allontanamento dalla fede.

Arrivato nella baracca, come ogni sera mi si fecero tutti incontro per sentire il racconto della giornata che ogni sera facevo al rientro e cosi dissi loro anche della pagnotta di pane e che non era tantissimo ma sicuramente un boccone a testa avrebbe alleggerito un po’ la fame.

E mentre tiravo fuori il prezioso regalo da sotto la camicia li convinsi a recitare tutti insieme una preghiera prima di dividere il pane.

E questo rito si è ripetuto ogni volta che il comandante mi dava il

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per tutta la guarnigione. Non ricordo quante centinaia di patate furo-no sbucciate, cosi come anche altre volte e mi accorsi che le bucce delle patate venivano ammucchiate in un angolo del campo.

Così quella sera natalizia mi balenò un’idea. Non posso dire se fosse ragionata o incosciente, ma durante il percorso dalla cucina alla ba-racca scrutai bene il campo e il posto dove erano state depositate le bucce delle patate. E così, quando tutte le luci si spensero, mi legai i pantaloni sotto e la camicia a strisce sotto la pancia, e, dopo una pre-ghiera veloce, mi avventurai nel buio del campo.

Avevo contato il tempo tra un fascio di luce e quello successivo cosi, a poche decine di metri alla volta, in un tempo che mi sembrava in-terminabile e con la fortuna dalla mia, riuscii ad arrivare allo scarico delle bucce. Iniziai velocemente a riempire giacca e pantaloni fino a farli esplodere. Sembravo una botte di vino gigante. Quando non ci fu spazio neanche per una buccia più, con la stessa cautela iniziai il percorso del ritorno. Arrivato alla porta non fu necessario bussare, i miei compagni, con l’orecchio incollato all’uscio, sentirono il mio arrivo e mi aprirono. Appena dentro svuotai giacca e pantaloni e quella preziosa refurtiva fu lì davanti agli occhi di tutti.

Riscaldammo le bucce al fuoco della stufa e quello fu per noi il più bel pranzo di Natale.

I mesi passavano e le stagioni si alternavano: estate, autunno, inverno e primavera e ancora estate, autunno, inverno e primavera.

La nostra patria sembrava lontanissima ed ognuno di noi aspettava solo il giorno in cui non si sarebbe più alzato dalla brandina, perché il cuore si era fermato ed era finito il supplizio.

Quanti compagni abbiamo pianto in tutto quel tempo.

Ma una mattina ci svegliammo toccandoci uno con l’altro e ci guar-dammo meravigliati. Dall’esterno nessun rumore, nessun ordine pe-rentorio in tedesco, nessun abbaiare di cani. Dopo qualche minuto di smarrimento e di sguardi interrogativi, decidemmo timidamente di aprire la porta. Fui io a mettere per primo la testa fuori e quello che vidi mi meravigliò ulteriormente: il cortile era completamente vuoto.

Non c’erano più sidecar, auto e camion, le torrette erano senza senti-nelle e il cancello, quel maledetto cancello era aperto anzi spalanca-to. Iniziammo a camminare avanti e indietro come fantasmi e nel

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frattempo anche gli altri iniziarono ad uscire dalle loro baracche.

Nessuno di noi parlava e il silenzio era irreale, poi da lontano s’iniziarono a sentire dei rumori, un rombo di motori che si avvicina-va e si faceavvicina-va sempre più forte.

Ci accalcammo avanti al cancello timorosi, poi vedemmo un polve-rone da lontano e tanti mezzi che si avvicinavano.

Sul primo mezzo sventolava una bandiera con dei colori diversi da quella issata sul pennone del campo fino al giorno prima: era la ban-diera degli alleati.

Ci abbracciammo e ci baciammo, ballammo e cantammo e, dopo tan-ti stentan-ti e sofferenze, giunse inaspettata “Finalmente la libertà.”

Premio Accademico Internazionale di Letteratura Contemporanea

Ieri sera mi sono innamorata. Niente di speciale per carità, capelli ra-di, occhi castani, credo. C’era piuttosto buio in birreria. Mi è piaciuto a prima vista. Un colpo di fulmine.

Vieni via con me, mi ha detto. Come Paolo Conte.

Sono salita sulla sua auto e siamo andati verso la collina. Abbiamo fatto l’amore sulla lastra di marmo che ricopriva una tomba di fami-glia, era un cimitero di campagna. Siamo al sicuro qui, non avere paura, mi ha detto. Ha steso un panno a ricoprire nomi dorati di pa-renti, quattro cadaveri là sotto e una citazione in latino.

Mi chiamo William. Piacere.

Durante la notte l’ho sognato, ho capito subito che era un buon se-gno. Se mi capita di innamorarmi non la tengo troppo lunga, ho sem-pre un po’ paura che possa cambiare idea.

Non ho mai conosciuto i miei genitori, mi hanno detto che mia ma-dre mi ha partorita in una toilette di un autogrill sull’A1, nei pressi di Piacenza. Doveva avere piuttosto fretta perché mi ha lasciata lì, sul fasciatoio, era l’83, una giornata qualsiasi di luglio non troppo calda, la gente viaggiava verso il mare. Mi hanno trovata col cordone om-belicale strappato con i denti, come fanno i gatti. Sanguinavo.

Elìa

Ho la pelle ambrata e gli occhi verdi, sono bellissimo. Le donne si innamorano di me, io non credo di innamorarmi di loro.

A volte mi sembra di non poter fare a meno dell’amore, ma poi pas-sa, le donne mi annoiano presto. Solo una ragazza mi ha fatto perdere la testa per un po’. L’ho lasciata ieri. Non amo le dipendenze, voglio essere una persona libera io, e lei mi aveva rubato già troppo tempo.

Quando vedo che le cose cominciano a complicarsi, mi allontano.

Non voglio affezionarmi.