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3.2 La produzione scritta in spagnolo

3.2.1 La poesia in spagnolo

3.2.1.3 La Generación de la Amistad Saharaui

Negli anni ’90, il testimone passa a una nuova “generazione” di giovani saharawi che maturano la propria sensibilità poetica a cavallo tra gli spazi dell’esilio e della diaspora. All’esodo in territorio algerino seguirà, per molti di loro, “l’esilio cubano” di oltre una decina d’anni, il complesso ritorno ai campi di rifugiati e la diaspora del “terzo tempo d’esilio” (Gómez Martín, 2011, 2013 e 2016) trascorso tra l’Europa ─ la maggior parte risiede in Spagna ─ e il Sud America. Il poeta saharawi contemporaneo è pertanto vittima del sincretismo identitario imposto dalla “schizofrenia dell’esilio” (Segarra, 1997) e cerca di autoaffermarsi e ritrovarsi nello spazio testuale. Le “scritture dell’esilio” si presentano quindi come: “el «reverso obstinado del asesinato» al que han sido condenados los autores que producen escritura en situación de exilio. Así colocados, estos escritores tienen un único lugar donde afirmarse: «quien habla» es de fundamental importancia porque sólo allí encuentra un espacio” (Bocchino, 2006: 2-3).

La futura Generación de la Amistad Saharaui, costituitasi ufficialmente nel luglio del 2005, come o forse più delle precedenti “generazioni poetiche” è caratterizzata da

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un’evidente eterogeneità nella composizione. Se l’intenzione di diffondere e promuovere la causa e la letteratura saharawi in spagnolo è comune a tutti i membri, a livello cronologico e, di conseguenza, esperienziale è possibile identificare più d’un sottogruppo. In primis, la generazione dei “più anziani”: Mohamed Ali Ali Salem, Mohammidi Fakal- la e Bachir Ahmed, già inclusi nella Generación del exilio. Seguono, per età, Larosi Haidar, Bahía Awah, Mohamed Salem Abelfatah (Ebnu) e Zahra El Hasnaui. Altro sottogruppo è composto da Limam Boisha, Ali Salem Iselmu, Chejdan Mahmud Yazid, Luali Lehsan, Saleh Abdalahi (i Cubanos, nati tra il 1970 e il 1973). Recentemente, poi, della generazione sono entrate a far parte la giornalista Sukina Aali-Taleb e l’attivista Salka Embarek.

Nell’ottica di proporre un’etichetta più ampia che permetta di includere l’insieme degli scrittori saharawi in spagnolo, evitando suddivisioni generazionali forzate che non agevolano il lavoro di analisi, di seguito tratteremo le dinamiche generali condivise dai membri (o da buona parte di essi) della generación saharawi, ripercorrendo le tappe dell’esilio in terra algerina, la relazione con il contesto caraibico e il processo di adattamento allo spazio geografico della diaspora.

Le esperienze degli autori saharawi contemporanei e la produzione letteraria degli ultimi vent’anni sono scandite da “tre tempi dell’esilio” (Gómez Martín, 2011, 2013 e 2016). La nozione di esilio alla quale facciamo riferimento, non è il processo ─ con conseguenze fisiche e simboliche ─ concluso nello spostamento puntuale imposto in un preciso momento storico da ragioni (geo)politiche, quanto piuttosto un processo in fieri, prolungato in molteplici spostamenti posteriori, motivati da ragioni di natura diversa. In tal senso, la storia dell’esilio del popolo saharawi è caratterizzata da più temporalità alle quali corrispondono forme di mobilità distinte, adattate alle realtà e necessità proprie dei differenti momenti storici. Comprensibile, pertanto, che l’esodo sia inteso dagli stessi Saharawi come insieme di “múltiples exilios” al plurale e che lo sradicamento assurga a condizione esistenziale, propria anche di chi non è ancora nato: “el desarraigo está inscrito en el porvenir […] se inculca y se aprende, pues su presencia es fundamental para el mantenimiento de la memoria colectiva en cuanto al trauma primigenio” (Gómez Martín, 2016: 106-107).

I tre momenti dell’esilio saharawi si indentificano pertanto con: l’esilio vero e proprio, ovvero la rottura con la terra d’origine;214 il trasferimento all’estero per motivi di studio

214 Gómez Martín distingue tra la quotidianità dell’esilio intesa come resistenza o come reinvenzione. Nel

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─ nella fattispecie, a Cuba ─ a partire dalla fine degli anni ’70; la migrazione economica verso la Spagna nella seconda metà degli anni ’90 e la conseguente relazione con l’attualità del contesto socioeconomico spagnolo.215 Queste ultime due tappe, esperienze

“collaterali” o “trasversali” all’esperienza dell’esilio propriamente detta non diluiscono né banalizzano il significato del confino in terra altra: sono piuttosto una risposta alla situazione di impasse, una strategia di sopravvivenza (Gómez, ibid.: 111).

A rendere peculiare la nozione di esilio nel caso specifico del popolo saharawi è, in prima istanza, l’assenza di una reale terra d’origine, quindi la complessa natura dello spazio da cui si emigra, ovvero lo spazio dei campi di rifugiati, intermedio ed effimero, ancorato a una transitorietà perpetua. Infine, l’ambiguità della relazione con lo spazio verso il quale si emigra e ci si stabilisce, la Spagna, perché corrisponde alla geografia di un Paese che, pur essendo l’ex madrepatria, riserva ai Saharawi lo stesso trattamento di qualsiasi altro immigrato, ignorando il vincolo storico esistente con il Sahara Occidentale. Altro elemento che problematizza la condizione dell’esiliato saharawi è la triplice ascrizione identitaria: saharawi, cubana ed europea (Gómez Martín, 2013: 233).

In merito all’esilio in terra algerina, è uno dei ricordi che accomuna i Saharawi nati e/o cresciuti tra la fine degli anni ’50 e i primissimi anni ’70: la guerra in corso, i bombardamenti, le lezioni impartite ─ come nel caso di Larosi Haidar negli anni tra il 1981-1982 ─ o ricevute presso l’internado “9 de Junio”, in condizioni precarie e lontano dalle famiglie le cui visite sono previste solo il venerdì.216 A tal proposito, riferisce Luali Lehsan:

Recuerdo el éxodo: ver a la gente caminando, en burros...Yo tuve la suerte de poder conseguir un camión gracias a mi padre. Recuerdo a la gente escondiéndose en los bunkers buscando amparo de los bombardeos de fósforo. Recuerdo haber llegado a Güelta Zemmur,el primer asentamiento del Frente POLISARIO. Los campamentos se encontraban entre las odiernas wilayas de Rabuni y Tinduf, en Sarti. Mis recuerdos en general son positivos, era un niño y no me enteraba de muchas cosas. Mi familia se sedentarizó en 1970, con lo cual la vida que llevábamos era muy parecida a la de los campamentos, igual de “rara” de “no convencional”, por eso supimos adaptarnos sin muchos problemas.

futuro nei campi di rifugiati sono concepiti nei termini di una ricerca di soluzioni volte a migliorare le condizioni di vita nel contesto dell’esilio, in bilico tra la rassegnazione e la necessità di nuovi spazi di indipendenza, di risposta alla politica assistenziale. La migrazione economica è pertanto funzionale al processo stesso di reinvenzione (2016: 112-113).

215 Gómez Martín fa riferimento a una quarta temporalità propria degli anni dal 2008 a oggi, caratterizzata

dalla crisi economica e dal nuovo concetto di transnazionalità e libertà di movimento, fluidità dei flussi migratori al di là delle restrizioni della politica migratoria europea. Tuttavia, questo quarto tempo non coinvolge le esperienze degli autori analizzati (ibid: 110-111).

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Empecé a estudiar en las jaimas. De aquellos años recuerdo que me pidieron que me dejara entrevistar por un periodista y dramatizara el discurso de los refugiados y exagerara al contar el éxodo. Seguí estudiando en el “9 de Junio” (1979-1983), en construcción en aquel entonces. El recuerdo más vivo es el hecho de añorar a mi familia, pues solo nos visitaban los viernes, recuerdo el miedo y el hambre. Ya de pequeño trabajaba en la radio de la escuela. Recuerdo cuando vimos las películas del cine por primera vez (Charlie Chaplin, “El tiburón”). Recuerdo que éramos más de 1000 niños, que nos duchábamos una vez a la semana y que desde pequeñitos teníamos cierta aficción a los libros.217

Limam Boisha, dal canto suo, racconta dell’ingenuità infantile con cui i bambini saharawi vivono la serietà e tragicità degli eventi bellici:

Aquellos primeros años eran como un juego en el que unos tenían que esconderse y escapar, otros intentaban encontrarlos… Unos eran los invasores y otros los invadidos. Los primeros venían con sus tanques y aviones. Los segundos solo teníamos la astucia y el instinto de supervivencia bien desarrollado. Cuando alguien escuchaba el sonido de un avión, te decían, tenías que quedar parado en el lugar donde estabas, y debías extender las manos en forma de cruz, para que el piloto al ver esa imagen le podía parecer un árbol, una acacia, dos o un campo entero, quedar quieto y en silencio, para que no le soltara su mortífera munición. Los niños a pesar de sentir y vivir el horror de la invasión, nuestros juegos imitaban los roles de la guerra. En los primeros años del exilio muchos niños murieron de hambre, de sed, de cólera, de enfermedades curables. Como nuestros padres, también nos sentíamos solos, desamparados en medio de la Hamada. Una nube oscura envolvía todo el paisaje donde nos habíamos instalado cerca de Tinduf.218

Riflette poi circa la consapevolezza dell’esilio che sopraggiunge durante i primi anni di scuola e di privazioni:

Luego fuimos al intenado “9 de Junio” porque en los campamentos todavía no había escuelas. Llegó la separación de las familias, porque los hombres se fueron a la guerra y las mujeres estaban enfrascadas en levantar del barro, guarderías, ambulatorios, y dispensarios. Otra huerfandad se abatió sobre nosotros. Cuando llegamos al internado todo parecía gris, triste, muy triste. Esa imagen de tristeza duraría mucho tiempo en mi mente. En el internado la mayoría dormía con mantas encima del suelo; en el comedor tampoco había mesas ni sillas, lo que nunca mejoró desde el primer día que llegamos hasta irnos de aquella escuela del exilio fue la comida. Era escasa y de pésima calidad. Pasabamos mucha hambre y extrañáamos demasiado a nuestras familias. Las tormentas eran abundantes y terribles. Nos habían desterrado al mismísimo infierno.219

Chejdan Mahmud, dal canto suo, arriverà ai campi di rifugiati nel 1977 e farà riferimento all’infanzia come “marcada por el fusil y la bala”.220

Saleh Abdalahi, cercherà invece di fare chiarezza tra le immagini offuscate degli ultimi anni trascorsi nel Sahara Coloniale e i primi anni in territorio algerino:

217 Cfr. nota 166. 218 Ibid.

219 Ibid. 220 Ibid.

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Recuerdo vagamente mi casa en El Aaiún su grande patio donde jugaba con mis hermanos en un columpio que nos hizo nuestro padre colgando de una talha (acacia).

A mi perra y mis juguetes.

Recuerdo el éxodo hacia el exilio pero no entendía nada.

En los campamentos de refugiados recuerdo la escasez de todo, comida, ropa, un techo.

Jugar y confeccionar mis juguetes de la basura.

Recuerdo la larga ausencia de mi padre y la poca presencia de los hombres en los campamentos.

Recuerdo la mi primera escuela, fue un internado donde faltaba de todo salvo los piojos.221

Ali Salem Iselmu, insiste nel passaggio dalla condizione di “bambino” a quella di “bambino rifugiato”:

Los primeros recuerdos que tengo, es nuestra huida desde Dajla primero, luego llegamos al norte de Mauritania, y atravesamos todo el desierto bajo la amenaza de la aviación, hasta que llegamos al campamento de Dajla en Argelia. Desde ese momento me convertí, en un niño refugiado que tuvo que luchar en unas condiciones duras para sobrevivir en una clima extremo y en una situación de guerra.222

In un secondo momento, tutti i membri della Generación, eccetto Bachir Ahmed, Mohamed Ali Ali Salem, Larosi Haidar e Zahra El Hasnaui, in due momenti diversi, condivideranno l’esperienza cubana: già nel 1977, Cuba accoglieva 22 studenti saharawi e nel 1980 riconosceva la Repubblica Araba Saharawi Democratica.223

Della prima generazione di “saharauis becados en Cuba” fanno parte Mohammidi Fakal- la e Bahía Awah. Il soggiorno cubano, a differenza della seconda generazione, è inteso più come una tappa fine a sé stessa, utile all’apprendimento di strumenti ─ il primo si laurea in Giornalismo, il secondo in Scienze della Comunicazione ─ da impiegare in patria a beneficio del popolo saharawi. Il ritorno ai campi di rifugiati, nonostante i dodici anni di assenza, a detta di entrambi, non implica alcun tipo di shock culturale o difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale. D’altro canto, resta la gratitudine nei confronti dell’isola e della popolazione cubana e degli ideali rivoluzionari promossi e difesi parallelamente alla “causa saharawi”, come esplicitatone “El caimán barbudo” di Bahía Awah:

[…] Cuba,

linda como aprendí de tus gentes.

221 Ibid. 222 Ibid.

223 Tra il 1980 e il 1999 circa 800 giovani saharawi viaggeranno verso Cuba annualmente per formarsi in

ambiti diversi, trascorrendo sull’isola tra i 12 e i 15 anni. Tra il 2000 e il 2002, la cifra si riduce a 200 (Gómez Martín, Correa Álvarez, 2014: 87).

125 Cuba hermosa,

Cuba alegre que danza y me besa, recostada en la otra orilla

tomando a sorbos su delicia, la Mar Caribe […] (2007: 56)

La seconda generazione di giovani studenti saharawi, invece, vivrà con maggior coinvolgimento “il tempo cubano”, tanto da esser a tutt’oggi identificati come Cubarauis224 o Cubanos, negli stessi campi di rifugiati. Circa 500 bambini fra i 9 e i 14 anni, partiti tra il 1978 e il 1982 da Orano, trascorreranno sull’isola all’incirca 15 anni, per poi fare ritorno alla terra natale, con la quale, da quel momento in poi, manterranno una relazione ambigua nell’incapacità di decidersi tra l’identificazione e l’estraneità al contesto saharawi.

Tra i componenti di questa seconda generazione figurano gli autori Mohamed Salem Abdelfatah (Ebnu), Limam Boisha, Luali Lehsan, Chejdan Mahmud, Ali Salem Iselmu225 e Saleh Abdalahi.

Lehsan ha ricordi nitidi circa la traversata, le prime impressioni e i primi anni sull’isola caraibica:

El viaje a Cuba lo recuerdo como una odisea. Llegamos a Orán desplazándonos ahora en camiones militares, ahora en autobuses. De pronto, apareció el mar. El barco era como una ciudad, éramos 400 niños y la travesía fue muy agradable, entretenida.

Cuba era impresionante, recuerdo estar como borracho. De la Habana llegamos a la Isla de la Juventud. El cole estaba rodeado de plantaciones de toronjas (pomelos): los niños estábamos encantados de la vida: nos ensuciamos las camisetas por gula. El primer año apenas fuimos al cole: pasábamos semanas perdidos por los bosques, sin embargo conseguí aprobar ese año. Con el tiempo nos acostumbramos a todo aquello y empezó la transformación, empezamos a ser conscientes de nuestra situación. La Isla de la Juventud era como África al completo. Cada País tenía asignado un cole.226

Sempre in merito all’arrivo a Cuba, riferisce Boisha:

Después de horas ¿o años? un camión me lleva kilómetros y otros y cientos y miles hacia el norte, hacia ciudades que nunca he visto, hacia el mar blanco, el mar cielo, el mar medio, y hasta más allá del océano. ¡Todo el monte es una cabellera afro-verde! Todos los montes lo son en este apacible hogar, también lo es la tierra, el horizonte; mis ojos se tornan plantas, ríos, saben a frutas mis manos.

224 Precisa Boisha: “Hoy en día es una palabra que se usa para designar a un colectivo muy variopinto, de

al menos dos generaciones de saharauis que han estudiado en Cuba. Por sí sola una palabra no puede definir una realidad ya de por sí difícil de precisar, pero capta su espíritu. Ser cubaraui es una suerte y un mérito. Suerte por la oportunidad de estudiar en un país como Cuba; mérito por resistir tantos años sin ver a nuestras familias. Más que un mérito, diría que es una proeza que todos hemos sobrellevado con entereza” (2016: 185).

225 Ali Salem Iselmu dedica a Cuba la monografia in prosa Un beduino en el Caribe (2011), insieme di

brevi racconti sulle vicissitudini cubane e la relazione con il contesto sahariano nel post-ritorno, edita in lingua basca con il titolo di Beduino Bat Karibe Aldean (2015).

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La brisa es suave, acaricia mi rostro y sonrío. Mis ojos descubren dónde empieza y termina la palabra verde. Me adentro en el vientre del bosque, es una inesperada aventura: todo es nuevo, colosal y luminoso y es oscuro y es una colonia infinita, enredadera empapada de rocío. Guarda su reserva de misterio y desasosiego, el agua es diáfana y sabe a helechos, algas, y troncos. Saboreo su infinita carta comestible y florezco y me llevo para siempre sus raíces, su espíritu de isla en isla, de ciudad en ciudad, me esfuerzo y comparto y la curiosidad es un cultivo que abrazo, y sonrío y me impaciento, y me enamoro y pierdo y gano y paso hambre y caigo y me levanto.227

I primi anni cubani sono anni di stupore diffuso e privazioni tollerate perché condivise con la popolazione autoctona: “Nos integramos muy bien entre los cubanos: compartíamos carencias durante el que ellos llaman «el periodo especial»”.228

Boisha insiste sul senso di quanto potremmo definire un sentimento di “appartenenza transitiva”:

A Cuba me atrevería a definirla con una frase y que es el título de mi nuevo libro:

Arroz con suerte. Arroz, porque era algo tan presente en nuestras vidas y en la

cultura culinaria cubana, que lo comíamos todos los días y dos veces: en el almuerzo y en la cena. Y suerte porque Cuba fue un buen destino, una excelente oportunidad, no solo para estudiar, sino para vivir una experiencia única en un país singular, por su historia, por su situación geoestratégica y por todo lo que representó desde el triunfo de la revolución […] Suerte, digo, porque el país caribeño nos abrió las puertas de par en par y nos hizo sentirnos como si hubiéramos nacido allí. Nos enseñó a ser mejores personas y a ver la vida desde muchas perspectivas, a seguir luchando aún en las peores adversidades.229

Mahmud, dal canto suo, ricorda un diffuso sentimento di con-fusione con il contesto di arrivo, con odori, colori e sapori sconosciuti:

Era el mes de octubre de 1982 y, mi inquieta curiosidad volaba y tanto que se me difuminaba casi por completo: qué soy; de dónde vengo; por qué vengo; a donde voy etc. tantas cosas que marcan y marcarían para siempre mi vida. En esos momentos se abría para mí un mundo nuevo, una vida en la que me sumerjo profundamente en todos los sentidos y maneras. No tenía lugar en mi mente otro fin, que explorar el lugar donde estoy, aquellos frutos grandes y amarillos que colgaban de los árboles y que se veían por todas partes en cantidades infinitas, hacían latir aún más fuerte mi curiosidad y mi apetito, que sin saber todavía qué era aquella fruta o especie vegetal, ya la deseaba y, no tuve que esperar tanto, justo al bajar de las guaguas corrimos en desbandada a los árboles y el griterío de todos y advertencias de otros no tenían cabida en ningún corazón en aquel intenso instante.230

Riferisce, altresì, circa l’innocenza e le difficoltà nel gestire una crescita obbligatoriamente accelerata: 227 Cfr. http://bib.cervantesvirtual.com/FichaObra.html?Ref=44140&portal=376. 228 Ibid. 229 Cfr. nota 166. 230 Cfr.: http://chejdan.blogspot.it/p/relatos.html.

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Éramos demasiado pequeños: de edad y físicamente, unos niñatas. Pensaba que me reuniría con mi familia allí [...] Fue una infancia muy dura, pero aprendí a ser hombre y a valorar la amistad”; vivíamos en un internado y nos enfrentábamos a problemas vinculados a la gestión de las tareas “domésticas”: coser, planchar... Pasábamos hambre: la comida era escasa, estaba mal hecha. Trabajábamos en el campo, en las toronjas por la mañana o por la tarde, dependiendo de los cursos.231

Il contatto con il Sahara si limita a poche foto e video recapitati dai rappresentanti del POLISARIO, come ricorda Lehsan:“de los 15 años que estuve en Cuba, recibí 15 cartas de mi familia. De los estudiantes se encargaba el Delegado Cultural de la R.A.S.D.: grababan vídeos de nosotros para mandárselos a nuestras familias y hacían lo mismo en los campamentos”.232 A tal proposito riferisce Mohamed Salem Abdelfatah: “El contacto

con la familia era bastante poco. Desde finales de 1976 que salí de los campamentos hasta 1994, que regresé de forma definitiva. Sólo estuve dos veranos. Cerca de cuatro meses durante dieciocho años. De vez en cuando recibíamos cartas, algunas fotos y poco más”.233

I bambini da rimpatriare in estate superavano il migliaio e i fondi a disposizione della R.A.S.D. spesso non rendevano possibile il viaggio, facendo scoppiare così “proteste informali”:

Recuerdo un educador que se llamaba Bachir que esta ahora en Asturias de delegado del POLISARIO que nos dijo: “Mira, no hay dinero para pagarles el