comporre rivisti dall’autore nell’esemplare ferrarese CL i 90 cit., p. 63.
100. Per operare onestamente, e ottenere così onore e gloria, «è convenevole che in ogni età la magnanimità ci inviti a lodevoli azioni» ma è altresì necessaria anche la «vergogna, perché ella ci corregga […] e ci richiami, col freno della temperanza, al diritto camino» (G.B. Giraldi Cinzio, Secondo dialogo della vita civile, vol. II, p. 1088) perché solo i savi e i virtuosi sono felici (ivi, 1120).
101. G. Botero, Detti memorabili di personaggi illustri, Tarino, Torino 1608, p. 522. Anche Aristotele nella Politica (libro iv) aveva individuato della prudenza uno strumento fonda- mentale di conservazione politica.
102. Per la fortuna medievale di tali prescrizioni si veda ora F. Rico, Se non casti, cauti, in Id., Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Antenore, Padova 2012, pp. 63-72. Nella vergini- tà, nella vedovanza e nel matrimonio erano i tre gradi di compimento della virtù (su que- sto paradigma si veda I. Maclean, The Renaissance Notion of Woman. A Study in the Fortunes
of Scholasticism and Medical Science in European Intellectual Life, Cambridge University Press,
65 Tra narrazione e trattato morale la questione dell’onore negli Ecatommiti di Giraldi Cinzio
piuttosto figura emblematica dell’uomo di corte, su cui si abbattono ingratitudine e invidia e che tuttavia attraverso prudenza e onestà saprà riconquistare il suo posto d’onore: non sarà un caso che nel Terzo dialogo della vita civile si giunga a una definizione di questo ideale: «quando l’uomo fa quan- to far bisogna e quando il tempo il chiede e nel modo che si conviene e per coloro che si conviene, per cagione convene- vole e onesta», in questo caso le azioni saranno sempre lon- tane dagli estremi e congiunte alla virtù103. In quel medesimo dialogo, la prudenza era inoltre indicata come virtù deputata alla elezione, e per questo «è detta l’occhio dell’animo e da’ platonici è chiamata scienza del bene e del male»104.
In bilico tra due epoche, Giraldi sceglie con gli Ecatom- miti il versante pedagogico, come per altro dichiarava già nel 1557 in una lettera a Bernardo Tasso: «la poesia non è altro che una prima filosofia, la quale quasi occulta maestra di vita, sotto velame poetico, ci propone la imagine di una civile e lodevole vita, tratta dal fonte di essa filosofia; alla qual vita, quasi a proposito segno, abbiamo a drizzare le nostre azioni»105.
Solo tenendo fermo questo dato si può cercare di avvici- nare il significato che Giraldi riponeva nella sua opera, e la ragione che lo spinse a coniugare le forme narrative della tradizione decameroniana alle forme della retorica cinque- centesca e dei trattati rinascimentali. Oratoria, narrazione, parenetica vengono in certo modo a sintesi e l’opera nella sua interezza è dominata dalla lunga ombra del suo autore, che attraverso il suo ingenium (moderno e insieme debitore della traditio) guida i destini di personaggi e lettori. Un’indi- vidualità emerge dalla narrazione, ma lo fa ancora in forma precettistica, come dall’alto del proprio scranno di umanista. La strada verso il trionfo dell’educazione liberale, del prima- to dell’esperienza, è tracciata, eppure resta ancora in ombra nel testo giraldiano: la priorità è ancora del piano pubblico, l’esperienza personale, l’interiorizzazione sono prive di va- lore se non hanno ripercussione sulla scena sociale (e qui
103. G.B. Giraldi Cinzio, Terzo dialogo della vita civile, in Id., Gli Ecatommiti cit., p. 1160. 104. Ivi, p. 1143.
105. Lettera del 10 ottobre 1557 cit., p. 314. Su questo punto si rimanda a C. Fenoglio,
Giraldi Cinzio pedagogo: la fortuna inglese dei “Dialoghi della vita civile”, «Lettere Italiane»,
Chiara Fenoglio
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passa tutta la differenza tra i persongaggi giraldiani e quelli shakespeariani). Un’epoca sta finendo, ma Giraldi non pare avvedersene, e certamente non pare in grado di accettare il mutamento. Il suo ruolo è a tutti gli effetti quello dell’ora- tore, o del precettore, che esercita un’eloquenza dal chiaro impatto civile, che guida verso una ascesa morale, intellettua- le ed estetica alla verità.
«In qualunque lingua sia scritta»
67 Tra gli interrogativi che solleva La Zucca del Doni en Spañol (1551) quello che probabilmente non avrà mai una risposta certa è chi sia stato il suo traduttore; la sua spiccata personalità, tuttavia, emerge con forza dai numerosi dati testuali che si pos- sono ricavare da un attento confronto del testo da lui prodotto con l’originale, mentre la ricostruzione del contesto in cui ma- turò il progetto fornisce altre indicazioni preziose per la com- posizione di una sorta di suo ritratto; le pagine che seguono, tese a individuare il testo su cui si basò il traduttore, possono essere lette anche in questa direzione. Tale indagine da un lato richiama l’attenzione su alcuni aspetti forse meno considerati dell’attività doniana degli anni intorno alla metà del secolo e dall’altro contribuisce all’ampliamento dell’attuale panorama inerente all’importante produzione editoriale che dall’inizio del Cinquecento era in atto a Venezia e che concerneva sia la stampa di opere letterarie spagnole in lingua spagnola, sia la pubblicazione di traduzioni dallo spagnolo verso l’italiano e viceversa1. La traduzione della Zucca si aggiunge infatti ad altre 1. Il fenomeno, molto noto e frequentato dalla critica, è stato recentemente studiato da A. Bognolo, El libro español en Venecia en el siglo xvi, in M.L. Cerrón Puga (a cura di)
Rumbos del hispanismo en el umbral del Cincuentenario de la AIH, vol. III, Bagatto, Roma 2012,
Gli ortaggi di settembre e La Zucca del Doni en Spañol
Daniela Capra
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opere che in quegli anni si andavano traducendo, come le Sentencias y dichos de diversos sabios y antiguos auctores, assi griegos como latinos, recogidos por M. Nicolás Liburnio (Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1553) a opera di Alfonso de Ulloa, il Comentario dela guerra de Alemania hecha por Carlo V (1548) di Luis de Ávila y Zúñiga2, o l’Orlando Furioso tradotto da Jerónimo de Urrea (Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1549), pur con le debite differen- ze di intenti e di destinatari dei vari progetti editoriali. Ancora più numerose erano le opere spagnole che a Venezia vedevano la luce in lingua italiana, dai libri di Lettere di Antonio de Gue- vara alle moltissime novelas de caballerías, a tal punto che pare lecito supporre che ci fosse una vera e propria voga delle cose spagnole, dimostrata anche dalle allusioni a questa letteratura nei titoli delle opere italiane, come l’Amadigi (Giolito, 1560) di Bernardo Tasso e il Palmerino (Sessa e fratelli, 1561) di Lu- dovico Dolce, e da commedie, per quanto in chiave giocosa, come La spagnolas (1555) di Andrea Calmo.
Non va dimenticato che lo stesso Doni dà alle stampe La moral’ filosophia del Doni, tratta da gli antichi scrittori, che in- clude anche i Trattati diuersi di Sendebar indiano (Marcolini, 1552)3, testo che possiamo considerare una traduzione, con- dotta sull’Exemplario contra los engaños y peligros del mundo, che a sua volta deriva, attraverso vari passaggi, dall’antico poema indiano conosciuto come Pañciatantra; i suoi racconti erano già stati in parte tradotti in italiano da Agnolo Firenzuola e
pp. 243-258 (di cui si veda anche l’utile appendice e la copiosa bibliografia alle note nume- ro 2 e 3); D. Capra, Il libro spagnolo in Italia nel Cinquecento come veicolo di mediazione culturale, in M. Bondi, G. Buonanno, C. Giacobazzi (a cura di), Appartenenze multiple. Prospettive
interdisciplinari su immigrazione, identità e dialogo interculturale, Officina Edizioni, Roma 2011,
pp. 95-106; e D. Capra, Edición y traducción de libros españoles en la Venecia del Siglo xvi, in M.L.
Cerrón Puga (a cura di), Rumbos cit., pp. 268-278. Gli studi della tradizione critica italiana non hanno perso la loro vigenza; nell’impossibilità di citarli in maniera esaustiva ci limitia- mo a ricordare i seguenti: G.L. Beccaria, Spagnolo e spagnoli in Italia, Giappichelli, Torino 1968; B. Croce, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza, Bari 1949; A. Fa- rinelli, Italia e Spagna, Bocca, Torino 1929; F. Meregalli, Presenza della letteratura spagnola
in Italia, Sansoni, Firenze 1974.
2. Un caso curioso, giacché il testo fu pubblicato in italiano e in spagnolo nello stesso