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La giurisprudenza italiana: i giudici “al tempo delle migrazioni”.

6 Il sistema politico comune europeo.

7. La giurisprudenza italiana: i giudici “al tempo delle migrazioni”.

L’intensificarsi dell’intolleranza religiosa ed il timore che la professione di una determinata fede possano mettere in pericolo la propria vita spingono, con sempre maggiore frequenza, singoli ed interi gruppi di persone a fuggire dal Paese di origine per chiedere protezione altrove.

Si tratta, com’è noto, solo di un “segmento di un fenomeno ben più ampio e complesso”33, che non ha precedenti nella storia

dell’umanità e che va assumendo le caratteristiche di un vero e proprio esodo verso la parte più sviluppata e sicura del pianeta. Come scriveva Maria Cristina Folliero, “il nostro tempo è ridiventato quello delle

32 Commissione europea, Il sistema Dublino, https://ec.europa.eu/home- affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-

migration/background-information/docs/20160406/factsheet_- _the_dublin_system_it.pdf , ultima consultazione 20/03/2018.

33 M. ABU SALEM, N. FIORITA, Protezione internazionale e persecuzione per

motivi religiosi: la giurisprudenza più recente in “Stato, Chiese e pluralismo

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migrazioni di popoli interi in cerca di opportunità di vita, pane, lavoro, diritti”34.

All’incremento sempre maggiore delle richieste di protezione internazionale, gli ordinamenti nazionali hanno risposto rendendo sempre più rigidi i criteri di ingresso e soggiorno sul proprio territorio. Tale strategia non sorprende del tutto, dal momento che nella regolamentazione della materia gli Stati hanno sempre cercato di mantenere un ampio margine di discrezionalità, anche a discapito della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Basti pensare, a tale proposito, come la Dichiarazione universale dei diritti umani eviti di riconoscere un diritto soggettivo alla protezione internazionale. La norma non sancisce neppure il dovere d’accoglienza o quantomeno di presa in carico della domanda del richiedente da parte degli Stati35.

I princìpi della Dichiarazione hanno comunque dato ispirazione alla Convenzione di Ginevra, che contiene la prima, valida ed universale definizione di ‘rifugiato’.

A tale universalità della definizione però non fa seguito un’applicazione omogenea da parte degli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra.

Tali Stati, essendo liberi di decidere che portata dare alla protezione internazionale e, di conseguenza allo status di rifugiato,

34 M.C. FOLLIERO, Migrazioni e migranti nell’Europa di Francesco che condanna

la sostituzione del profitto all’uomo come fine dell’attività economica delle banche e dei mercati, in E. CAMASSA (a cura di), Democrazie e religioni, Atti del

Convegno Nazionale ADEC, Trento, 22-23 ottobre 2015, Editoriale scientifica, Napoli, 2016, p. 188.

35 F. RESCIGNO, Il diritto di asilo, Carocci, Roma, 2011, pp. 62-63; F. PÉREZ- MADRID, Asylum in case of religious persecution, in M. LUGATO (a cura di), La

libertà religiosa secondo il diritto internazionale e il conflitto globale dei valori - International Religious Freedom and the Global Clash of Values, Atti del convegno

internazionale, Roma 20-21 giugno 2014, Torino, Giappichelli Editore, 2015, p. 78; G. GOZZI, I rifugiati e i richiedenti asilo: un mondo sospeso tra integrazione e

criminalizzazione, in G. GOZZI; B. SORGONI (a cura di), I confini dei diritti. Antropologia, politiche locali e rifugiati, Bologna, il Mulino, 2010, p. 61.

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hanno finito per trasformare tale istituto in un privilegio riconosciuto a pochi36.

Recentemente, tale atteggiamento di chiusura è stato rafforzato dai timori per la sicurezza interna e dalle urgenze di carattere economico, in quanto i costi dell’accoglienza appaiono all’opinione pubblica interna sempre meno sostenibili, alla luce delle politiche di austerità più o meno liberamente adottate dai Paesi europei37. Invero, se facciamo riferimento all’Italia, la percentuale straordinariamente bassa di accoglimento delle domande di protezione internazionale38 va interpretata facendo contestualmente riferimento alla circostanza che sempre più migranti, indipendentemente dalle motivazioni che ne hanno determinato la partenza, cercano in tutti i modi di poter entrare nel Paese, eludendo così le restrizioni connesse all’ingresso e al soggiorno per motivi economici. Per tentare di scardinare quella che è

36 G. GIAFAGNA, R. URRU, L. VIANELLI, Il rifugio: diritto o privilegio?, in G. GOZZI, B. SORGONI (a cura di) I confini dei diritti, cit., pp. 34-35.

37 M. ABU SALEM, N. FIORITA, op. cit., p. 3.

38 Nel 2017 ci sono state 728.470 domande di protezione internazionale nell'UE. Questa cifra rappresenta un calo del 44% rispetto al 2016, quando c'erano quasi 1,3 milioni di domande, mentre i dati provvisori per l'inizio del 2018 (gennaio-aprile) mostrano che i livelli di applicazione si sono stabilizzati a una media inferiore a 50.000 al mese. Rispetto al numero di casi pendenti, alla fine del 2017 ci sono state 954.100 domande in attesa di una decisione finale, il che rappresenta un calo del 16% rispetto alla fine del 2016. Allo stesso tempo, il numero di casi in attesa di una decisione in seconda istanza o in seconda istanza (appello) è più che raddoppiato dalla fine del 2016, indicando un chiaro cambiamento nell'elaborazione dei casi in

seconda istanza.

Di tutte le decisioni di prima istanza emesse nel 2017, quasi il 50% (462.355 su 996.685 decisioni) erano positive. Questo tasso di riconoscimento è stato inferiore di 14 punti percentuali rispetto al 2016. Mentre il numero complessivo di decisioni è diminuito del 13% rispetto al 2016, riflettendo un numero più basso di domande presentate, l'importo delle decisioni negative è effettivamente aumentato da 449.910

nel 2016 a 534.330 nel 2017.

Per quanto riguarda le decisioni positive, nel 2017 vi è stata una netta diminuzione della quota di decisioni che concedono lo status di rifugiato (fino al 50%, dal 55% nel 2016) o protezione sussidiaria (34%, dal 37%), mentre vi era un parallelo aumento della percentuale di coloro che concedono protezione umanitaria (15%, contro l'8%), relazione annuale 2017 sulla situazione dell'asilo nell'Unione europea, pubblicata dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo in data 18/06/2018 (https://epso.europa.eu/apply/job-offers/institutions-and-agencies/1437-easo_it). Sito visitato il 21/06/2018.

In Italia, particolarmente si può vedere che nel primo trimestre del 2018 su un totale di 23.024 domande esaminate, il 6,3% ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, il 27,8% la protezione umanitaria e il 61,4% ha avuto il diniego.

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la differenziazione tra migranti economici e rifugiati è recentemente intervenuto il Tribunale di Milano39, secondo cui il rimpatrio di un

cittadino gambiano avrebbe posto il soggetto “in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale”. Il provvedimento appare molto interessante, perché nel momento di valutare il riconoscimento della protezione umanitaria, il giudice ha proceduto prescindendo dalla credibilità del richiedente - che si è visto infatti disconoscere lo

status di rifugiato e la protezione sussidiaria - e concentrandosi su “i

diritti che più direttamente interessano la sfera personale e umana del ricorrente e che più gravemente rischiano di essere compromessi nel Paese di provenienza”, vale a dire il diritto alla salute e all’alimentazione. Per il Tribunale, la compromissione di tali diritti comporta “gravi situazioni di vulnerabilità giuridicamente rilevanti quanto al riconoscimento della protezione umanitaria, tenuto conto dell’esistenza di specifici obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano”.

Nel momento in cui un soggetto richiedente asilo per le condizioni sopra dette venga rimpatriato, lo si costringerebbe a vivere con un tenore che è inadeguato rispetto ai principi della Costituzione. In questa stessa direzione si muove il Tribunale di Napoli in un’ordinanza del 2 dicembre 2015, nella quale si conveniva che, dal momento in cui il richiedente giunge nel nostro Paese, egli diviene “titolare del pieno diritto ad accedere alla protezione umanitaria affinché gli sia garantito un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, laddove le condizioni socio-economiche e sanitarie del Paese di origine non consentano un livello sufficientemente adeguato e accettabile di vita”.

Da questa ordinanza sembra emergere che la posizione dell’organo giudicante si conforma all’ampliamento delle maglie di questo istituto e, a sua volta, tenti di estendere il novero dei destinatari.

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Muovendo dalla considerazione che la protezione umanitaria è una forma di protezione residuale, non legata a criteri di assegnazione specifici, il tribunale ha ritenuto che la disposizione che la regolamenta (art. 5, sesto comma, d.lgs. n. 286 del 1998) “non enuncia in via esemplificativa quali debbano essere considerati i seri motivi, pertanto, è suscettibile di ampia interpretazione, e possono esservi ricondotte situazioni soggettive come i bisogni di protezione a causa di particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti, quali per esempio motivi di salute o di età, ma anche oggettive (cioè relative al paese di provenienza) e quindi una grave instabilità politica, episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali o altre situazioni similari”.

Immaginando che la reazione dell’opinione pubblica potesse essere contraria a questa decisione, il tribunale di Napoli si è preoccupato di aggiungere che “il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto, perché per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso”.

Il riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale è l’unico percorso a disposizione del migrante che non fa ritorno nel proprio Paese, ma anche l’unico strumento utilizzabile dall’ordinamento per evitare il respingimento vista la politica stringente adottata negli ultimi anni per il riconoscimento dello status di rifugiato40.

Ciò porterebbe a pensare che il contraltare del riconoscimento serrato dello status di rifugiato è il dilatamento dei confini dell’istituto della protezione umanitaria.

Bisogna, però, partire dalla precisazione che gli organi competenti a decidere sulle domande dei richiedenti asilo sono le Commissioni territoriali, le quali possono riconoscere lo status di

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rifugiato o la protezione sussidiaria, ovvero rigettare completamente la domanda di protezione internazionale, oppure possono rigettare la domanda ritenendo al contempo che sussistano gravi motivi di carattere umanitario che espongono comunque il richiedente a una situazione di rischio, trasmettendo di conseguenza gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Il destinatario di un provvedimento negativo, o non pienamente soddisfacente, ha diritto di presentare ricorso giurisdizionale.

I numerosi provvedimenti che sono stati censiti ed esaminati in funzione del riconoscimento della protezione internazionale rivelano oltre ogni ragionevole dubbio41 come l’accoglimento dei ricorsi contrari al disconoscimento delle richieste presentate in sede di Commissione passi principalmente attraverso la valutazione della credibilità di colui che chiede la protezione e che, non di rado, rappresenta l’unica fonte degli avvenimenti posti alla base della richiesta.

Il 2 luglio 2015 il Tribunale di Catanzaro ha emesso un’ordinanza su un ricorso presentato da un cittadino del Bangladesh, il quale narrava di essere stato scoperto mentre intratteneva una relazione omosessuale, di essere stato denunciato al mullah che aveva emesso una fatwa a suo carico e di essere fuggito. Lo stesso dichiarava di essere stato falsamente accusato di avere provocato l’incendio di un negozio e di avere ucciso un’intera famiglia ed essere stato per tale ragione condannato a morte. Il giudice ha ritenuto di dover disattendere la valutazione di non credibilità del ricorrente espressa dalla Commissione, dal momento che risultano verificati i presupposti di cui all’art. 3, quinto comma del decreto legislativo n. 251 del 200742.

41 M. ABU SALEM, N. FIORITA, op. cit., p. 7.

42 L’articolo recita che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l'autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le

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Un’altra ordinanza è stata emanata dallo stesso Tribunale il 7 dicembre 2015 ed è considerata ‘gemella’43 della suddetta; in questo

secondo caso vi è un cittadino ghanese che sosteneva di essere stato scoperto mentre intratteneva una relazione con il cugino e di essere fuggito per timore di essere ucciso dal padre che, in quanto imam, non aveva mai accettato la sua omosessualità. Il ribaltamento della valutazione in ordine alla credibilità dei ricorrenti sopra menzionati determina l’accoglimento dei motivi del ricorso e, con il medesimo provvedimento, anche il riconoscimento in favore di entrambi dello

status di rifugiato. Sebbene non fossero state fornite prove certe a

sostegno delle dichiarazioni dei ricorrenti, entrambi i soggetti avevano fornito alla Commissione un racconto dettagliato della propria vicenda, collaborando con l’autorità giudiziaria per l’accertamento dei fatti, anche attraverso la presentazione di materiale documentale.

Nel primo caso, la coerenza delle dichiarazioni del ricorrente risultava confermata da una serie di circostanze oggettive: l’esistenza di una condanna a morte a suo carico, i numerosi documenti internazionali che evidenziano le discriminazioni cui sono esposti i membri dell’etnia Rohingya44, cui il soggetto appartiene, la condizione

di discriminazione in cui versano gli omosessuali in Bangladesh. Nel secondo caso, si è ritenuto plausibile che il padre del ricorrente, in

dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. 43 M. ABU SALEM, N. FIORITA, op. cit., p. 7.

44 I Rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che vive nello stato birmano del Rakhine, una regione che si affaccia sul golfo del Bengala e che confina a nord con il Bangladesh. La loro presenza in queste terre, anche conosciute come Arakan prima del 1989, risale al VII secolo. Oggi, su quasi quattro milioni di abitanti, i Rohingya sono 800mila, circa il 20 per cento di Rakhine. Secondo le Nazioni Unite sono una delle minoranze più perseguitate e rifiutate al mondo. I birmani, infatti, non li considerano connazionali, bensì cittadini del Bangladesh, con cui condividono la fede musulmana e il ceppo linguistico, e ritengono siano arrivati in Birmania durante il periodo coloniale britannico. Cfr. T. PERRONE, Rohingya, il

popolo della Birmania più perseguitato al mondo in “Lifegate”,

https://www.lifegate.it/persone/news/il-popolo-rohingya, data ultima consultazione 18/06/2018.

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quanto imam, non abbia accettato l’omosessualità del figlio e lo abbia minacciato di morte, anche alla luce dei rapporti di associazioni indipendenti da cui si evince come i cittadini ghanesi siano sistematicamente sottoposti a discriminazioni e vessazioni, finanche da parte della polizia.

Si potrebbe dedurre che l’elemento religioso, in questi due provvedimenti, viene in gioco solo indirettamente, quale conferma di un contesto sociale improntato a valori, quelli dell’Islam ufficiale, ostili all’omosessualità.

Un caso che appare maggiormente legato al profilo religioso è quello che origina l’ordinanza del 22 gennaio 2016 con cui il Tribunale di Roma ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una cittadina egiziana di religione copto-ortodossa costretta a fuggire assieme alla sua famiglia a seguito delle minacce e delle persecuzioni subite dai Fratelli musulmani.

In base a quanto disposto dal citato articolo 3 del decreto legislativo n. 251 del 2007, il giudice, nell’esaminare la domanda, deve valutare, oltre alle dichiarazioni e alla documentazione presentate dal richiedente, anche i fatti che riguardano il Paese d’origine, la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente. Nel caso di specie, a sostegno delle proprie dichiarazioni, la ricorrente allegava numerosi documenti: alcuni volti a precisare la sua condizione personale come, ad esempio, i documenti d’identità e i certificati di battesimo dell’intero nucleo familiare, altri relativi alla situazione sociopolitico-religiosa dell’Egitto. Sebbene la nuova Costituzione riconosca formalmente la libertà religiosa quale diritto assoluto e consenta alle religioni del Libro di praticare riti religiosi presi in esame dal giudice, in Egitto si continua ad assistere a un progressivo e drammatico deterioramento della tutela dei diritti umani.

In particolare, il provvedimento evidenzia come le autorità statali non abbiano provveduto a contrastare le discriminazioni

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compiute nei confronti delle minoranze religiose, in particolare dei musulmani sciiti, dei baha’i e dei cristiano-copti. Questi ultimi, dopo la destituzione di Morsi, hanno denunciato aggressioni di matrice settaria e hanno incontrato considerevoli ostacoli nella costruzione di nuovi luoghi di culto e nel mantenimento di quelli esistenti. Le persecuzioni subite e il timore di subirne altre, le allegazioni della ricorrente e le informazioni sul Paese di origine hanno spinto il giudice a ritenere “concretamente provata la circostanza che l’istante in caso di rimpatrio incorrerebbe in una situazione oggettiva di persecuzione” e a riconoscere lo status di rifugiato.

Non sempre è l’Islam l’artefice delle persecuzioni. Non mancano, infatti, i casi in cui sono proprio i musulmani a denunciare le persecuzioni religiose.

Così avviene nel caso in cui un cittadino maliano abbia chiesto al nostro Paese la protezione internazionale, in quanto obbligato dalla propria famiglia a lasciare il villaggio di origine a causa del rifiuto a partecipare al tradizionale rito del sacrificio animale, contrario alla propria fede musulmana. Nel caso di specie, in seguito al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza n. 6198 del 2016, pur non condividendo le conclusioni della Commissione, dal momento che l’ostilità mostrata dalla famiglia non configura in capo al richiedente un rischio di persecuzione, decideva in senso diverso in merito alla protezione sussidiaria. La Commissione aveva ritenuto che sul ricorrente non gravasse un rischio effettivo di subire, nel caso di rientro nel proprio luogo di residenza, una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante da una situazione di violenza indiscriminata, giacché la regione di provenienza del ricorrente non era interessata da conflitti armati. Il giudice ha ritenuto che tale conclusione si fondasse su una

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disposizione, l’art. 8 della direttiva 2004/83/CE45, non trasposta e

dunque non vigente nel nostro ordinamento.

Nel caso di specie, perciò, “dalla circostanza che il ricorrente proviene dal sud del Mali non si può ragionevolmente inferire che egli in caso di rimpatrio vi si stabilisca, non essendo questo processo di inferenza logica - in base al quale è ragionevole attendere dal richiedente che in caso di rimpatrio si stabilisca nella parte del paese da cui proviene, in cui non corre rischi effettivi di subire danni gravi - utilizzabile, fintantoché non venga espressamente recepito nel nostro ordinamento”.

Le sentenze appena richiamate si collocano in quel filone giurisprudenziale propenso a garantire il più possibile una certa protezione, valorizzando fortemente la dimensione soggettiva della fattispecie, ovvero il pericolo avvertito e temuto46 dal ricorrente che lo spinge a chiedere aiuto agli altri Stati.

L’UNHCR, in merito al riconoscimento della protezione, ha precisato che avere già subito persecuzioni può contribuire a rendere fondato il timore di poterle nuovamente patire, salvo nell’ipotesi in cui, dalle circostanze della singola vicenda concreta non emergano chiare indicazioni in senso contrario 47 . Ancora, un indizio

significativo in ordine all’accertamento della fondatezza può

45 Direttiva abrogata dalla direttiva n. 95 del 2011. L’articolo 8 della direttiva 2004/83/CE recitava che: “Protezione all'interno del paese d'origine:

1. Nell'ambito dell'esame della domanda di protezione internazionale, gli Stati membri possono stabilire che il richiedente non necessita di protezione internazionale se in una parte del territorio del paese d'origine egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi e se è ragionevole attendere dal richiedente che si stabilisca in quella parte del paese.

2. Nel valutare se una parte del territorio del paese d'origine è conforme al paragrafo 1, gli Stati membri tengono conto delle condizioni generali vigenti in tale parte del paese nonché delle circostanze personali del richiedente all'epoca della decisione sulla domanda.

3. Il paragrafo 1 si può applicare nonostante ostacoli tecnici al ritorno al paese d'origine”.

46 N. MORANDI, e P. BONETTI, a cura di. op. cit., pp. 10 e ss..

47 M. ABU SALEM, N. FIORITA, op. cit., p. 12. Nello stesso senso Corte di Cassazione, sentenza n. 17576 del 2010.

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provenire dalla circostanza che altri soggetti dello stesso ambiente sociale o familiare del ricorrente, o altri individui che si trovano nella sua stessa situazione, siano già state vittime di persecuzione in quel contesto territoriale. A risultare decisivo nel riconoscimento dello

status, nella decisione assunta dal Tribunale di Bari nel marzo 2015 è

l’accertamento dell’intolleranza diffusa, e non contrastata dalle autorità, che accompagna la vita dell’intera comunità degli Ahmadiyya in Pakistan. Proprio il Pakistan, con le sue tensioni interne e con l’inasprimento dei conflitti a sfondo religioso, fornisce, in questo senso, molto materiale agli organi giudiziari.

Interessante in questo senso è, ad esempio, il caso di un musulmano sunnita perseguitato insieme ai suoi familiari da