Una grande mobilità caratterizzò il mondo ebraico italiano a partire dall’ultimo quarto del XIII secolo, in quanto in quegli anni iniziò la lenta ma costante emigrazione degli ebrei romani verso i centri dell’Italia centrale e poi settentrionale dove poterono esercitare l’arte feneratizia.
Questa corrente migratoria romana, alla quale si aggiunse un secolo dopo circa e in tono minore, la corrente migratoria proveniente dai paesi d’Oltralpe (Germania e Francia), diede vita alle comunità di banchieri che costellarono le città e i comuni dell’Italia centro-settentrionale dalla seconda metà del Trecento.
Tuttavia è difficile stabilire una data certa per l’inizio dell’emigrazione da Roma dei feneratori ebrei.
90
Francesco Sforza nel marzo del 1460 istruì il suo ambasciatore presso la Santa Sede, affinché ricordasse a Pio II che «molti dinari de christiani sono in mano de li judei, cum quo advertendum est, perché volere gravare dicti Zudei a pagare più di el XXmo de li proventi loro faria trovare molti e infeniti homeni di malissima voglia, sì che diligenter considerandum est ne forte se facessero troppo malcontenti», cfr. A. Toaff, Il vino e la
carne, una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna, 1989, p. 294.
91
Foa, Gli ebrei in Europa, p. 142; S. Simonsohn, La condizione giuridica degli ebrei
nell’Italia centrale e settentrionale, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 11: Gli Ebrei in Italia. Dall’Alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino, 1996, p. 107.
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La storiografia infatti si è limitata nell’indicare l’ultimo scorcio del XIII secolo come il lasso di tempo durante il quale è iniziato tale fenomeno92.
In quegli anni si assistette a un’improvvisa comparsa di nuclei ebraici sparsi in piccoli paesi dell’Italia centrale, dove difficilmente prima poteva essere documentata una presenza ebraica, nuclei creatisi a seguito della migrazione di mercanti ebrei romani dediti al commercio di denaro.
Ma quali furono le motivazioni che spinsero gli ebrei romani a emigrare prima nei paesi e nelle città del Lazio e poi a espandersi a macchia d’olio in Umbria, Marche e Toscana per prestare denaro, già alla fine del XIII secolo?
Nel corso del Duecento vi furono vari e ripetuti tentativi, operati dalle compagnie di mercatores toscani (soprattutto senesi e fiorentini), legati a doppio filo alla Curia papale e al Comune di Roma, di imporre la propria supremazia commerciale e finanziari nel Lazio e nelle regioni dell’Italia centrale (Umbria e Marche) e contemporaneamente di conquistare il controllo delle strade di accesso a Roma, non solo per proteggere e gestire i traffici commerciali, ma anche l’afflusso di pellegrini dal quale dipendeva una parte consistente dell’afflusso monetario nell’Urbe93
.
A questi tentativi delle compagnie toscane si aggiunge il costante scontro delle classi sociali a Roma, tra mercatores Romanam Curiam sequentes e il ceto signorile rurale, che costituiva una costante minaccia alla sicurezza delle strade che conducevano a Roma94.
La Città Eterna dipendeva dalle terre della Campagna e del Patrimonio di San Pietro per l’approvvigionamento alimentare e dalla Marittima per il sale, per
92
Luzzati, Banchi e insediamenti ebraici nell’Italia centro-settentrionale fra tardo
Medioevo e inizi dell’Età moderna, pp. 175-176; Luzzati, Florence against the Jews or the Jews against Florence?, p.60; Simonsohn, La condizione giuridica degli Ebrei nell’Italia centrale e settentrionale, pp. 98-120; A. Toaff, Gli Ebrei romani e il commercio del denaro nei comuni dell’Italia centrale alla fine del Duecento, in Italia Judaica. Atti del I convegno internazionale, Bari, 18-22 maggio 1981, p. 183; V. Colorni, Prestito ebraico e comunità ebraiche nell’Italia centrale e settentrionale con particolare riguardo alla comunità di Mantova, in Rivista di Storia del Diritto Italiano, VIII (1935),
pp. 1-55; Milano, Storia degli ebrei in Italia, pp. 109-114; Foa , Ebrei in Europa, p. 122- 133.
93
Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 128. 94
Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 128; Id., Gli ebrei romani e il commercio di denaro, pp. 185-186; Venditelli, Mercanti romani del primo Duecento, pp. 98-120; E. Duprè Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna, 1952, p. 21.
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cui i mercatores romani avevano tutto l’interesse che le strade fossero sempre aperte ai traffici e che la giustizia li tutelasse nei loro affari, i quali non dovevano essere ostacolati dalle angherie e dalle giurisdizioni locali, signorili o comunali95.
L’interesse che i mercatores, toscani e non, avevano nel controllare le strade di accesso, attraverso una politica espansionistica, si manifesta in una presenza sempre più massiccia sul mercato del denaro.
In questo periodo si moltiplicano le operazioni finanziarie portate avanti dai mercanti-banchieri romani da soli o più spesso in società con altri mercanti- banchieri: un esempio sono i forti prestiti effettuati nel 1265 dai mercatores romani96 e dalle compagnie toscane97, a Carlo d’Angiò in vista della spedizione militare contro Manfredi (conclusasi vittoriosamente con la battaglia di Benevento nel 1266).
Inoltre la Curia romana era costantemente preoccupata dalla politica caotica e dal particolarismo del ceto signorile delle campagne e dall’indipendenza che città e paesi del Lazio avevano de facto ottenuto nel corso degli anni passati, in quanto entrambi costituivano una seria minaccia alla sicurezza economica oltre che all’integrità territoriale dello Stato della Chiesa.
L’ostilità verso la classe nobiliare costituì la naturale premessa dell’alleanza antimagnatizia con la quale la Curia romana si legò per un certo periodo, dalla fine del XII alla metà del XIII secolo, alla classe dirigente del Comune di Roma che sino quasi allo scorcio del Duecento, fu sempre diretto con alterne fortune, dal ceto dei mercatores, per poter attuare una politica espansionistica di egemonia commerciale e finanziaria nel contado e nelle regioni limitrofe98.
Lo Stato pontificio comprendeva un vasto territorio formato dal ducato di Roma propriamente detto, dal Patrimonio di San Pietro (in Tuscia), dalla
95
G. Falco, I comuni della Campagna e della Marittima nel Medio Evo, in Archivio della Società romana di Storia Patria, XLVII (1924), pp. 134-135.
96
Toaff, Gli ebrei romani e il commercio di denaro, p. 186. 97
Almeno 181 banchieri e mercanti fiorentini appartenenti a 21 tra le maggiori compagnie giurarono fedeltà al papato e alla causa angioina. In particolare le potenti aziende bancaria fiorentine degli Scali, dei Mozzi-Spini, dei Pulci-Rimbertini, dei Bardi, dei Cerchi e dei Frescobaldi, che avevano interessi anche nell’Italia centrale, avevano fornito ingenti aiuti alla causa guelfo-angioina, cfr. J. M. Najemy, Storia di Firenze, Torino, 2014, pp. 87-91.
98
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Campagna e dalla Marittima, dalla contea di Sabina, dalla cosiddetta terra
Arnulphorum (comprendente Terni, Narni, Orvieto, Todi, Amelia e Rieti), dal
ducato di Spoleto che comprendeva anche Perugia e Assisi, dalla Marca anconitana, dalla terra di Sant’Agata, dalla città di Urbino, dalla Romagna, da Bologna e dalla città di Benevento99.
In questo territorio grande e complesso, le città più importanti, ma anche quelle di dimensioni più modeste si erano costituite in Comuni sin dal XII secolo, ragion per cui la politica pontificia sin dalla Guerra di Tuscolo (1191), mirava a rendere più stretti in vincoli che legavano le realtà comunali a Roma, non contentandosi più dei legami esistenti, quale ad esempio il riconoscimento formale dell’autorità papale ed il versamento di censi annui (e a volte sovvenzioni di vario tipo).
La Curia romana nel corso del Duecento cercò di facilitare la dipendenza economica dei vari Comuni dai mercanti-banchieri Romanam curiam sequentes, siano essi stati romani o toscani, in modo da agevolare la propria ingerenza nelle questioni interne alla varie compagini cittadine, creando un efficace strumento di controllo della loro politica di alleanza, là dove la sola forza delle armi era insufficiente100.
Dunque è proprio in questa congiuntura che fecero la comparsa, nell’ultimo scorcio del Duecento, nei Comuni, prima del Patrimonio di San Pietro e poi nel resto dei domini papali, i primi ebrei feneratori de Urbe, in genere riuniti in piccole aziende familiari, che si presentarono come una forza nuova e intraprendente sul mercato finanziario dell’Italia centrale.
Il capitale iniziale per intraprendere l’attività di prestatori era stato tratto sicuramente da quella accumulazione originaria di capitali intervenuta con l’esercizio della mercatura e dell’arte del cambio, dato che come abbiamo già precedentemente esaminato, erano diversi gli ebrei romani che operavano come
mercatores e campsores nell’area di Piazza Giudea e nel rione di Sant’Angelo in
Pescheria.
99
Toaff, Gli ebrei romani e il commercio di denaro, p. 187; M. Caffiero, A. Esposito, Gli
ebrei nello Stato della Chiesa, (insediamenti e mobilità, secoli XIV-XVIII), pp. 9-87.
100
Y. Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo, II, Milano, 1976, pp. 307-308; Toaff, Gli ebrei romani e il commercio di denaro, pp. 186-187.
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La loro funzione di cambiavalute era collegata non solo alle attività commerciali ed artigianali, ma anche al porto del Tevere, da cui giungeva una parte dell’approvvigionamento granario della città101
.
Ritengo tuttavia che il capitale iniziale per l’apertura di banchi di prestito non provenisse solo ed esclusivamente dall’esercizio della mercatura e del cambio, ma anche dai rapporti che intercorrevano tra ebrei romani e Curia pontificia e dall’investimento in attività lucrose che alcuni cristiani, spesso anonimi, facevano utilizzando dei prestanome, poiché era sconveniente, oppure illecito, per loro intraprendere direttamente quelle attività economiche.
Come ci ricorda Ariel Toaff, la diffusione dei banchieri ebrei romani nelle regioni come l’ Umbria e poi le Marche era dovuta al fatto che i banchieri ebrei erano sostenuti e presentati dagli ambienti della Curia romana, di cui spesso rappresentavano gli interessi politici ed economici, per cui gli ebrei romani venivano inviati presso i Comuni dell’Italia centrale per investire i loro capitali nelle economie cittadine102.
L’atteggiamento assai favorevole che gli ambienti ecclesiastici dimostrarono verso i gruppi commerciali ebraici operanti in Piazza Giudea a Roma e la tendenza a inserirli nella politica finanziaria pontificia, si inquadrerebbe nell’ambito degli interessi dei papi volti a coinvolgere nell’organismo curiale la Roma comunale103.
Il fine di questa politica finanziaria era il rafforzamento di una politica squisitamente romana di egemonia e di espansionismo economico ed anche politico nei confronti delle realtà politiche locali del territorio, fossero esse comunali o baronali, come anche di quelle delle regioni dell’Itala centrale.
A mio avviso però l’uso di ebrei romani per attuare questa politica di espansione può essere avvenuta in un secondo momento, poiché ritengo che già precedentemente possano essere stati usati degli ebrei romani da parte di personaggi curiali, per svolgere operazioni finanziare che essi non potevano svolgere in prima persona, per il ruolo che ricoprivano, visto che tali operazioni erano dichiarate illecite dalla legge Canonica.
101
Toaff, Gli ebrei e il commercio di denaro, pp. 187-188. 102
Toaff, Il vino e la carne, una comunità ebraica nel medioevo, p. 289. 103
45
La mia ipotesi è in parte formulata partendo dalla lettura di un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Volterra, Comune, 20 gennaio 1226 (n. 10289)104.
Si tratta di un atto rogato nel 1227 a Rieti dallo scrinario imperiale
Raynaldus, tramite il quale due prestatori, Jacobus dominii Gregorii de Crescentio cardinalis familiaris e Nathan judeus rilasciavano quietanza al
monaco Benedetto, procuratore di Jacobus, abate del monastero di San Pietro a Palazzuolo a Monteverdi105 per un prestito ammontante a 103 libbre di provisini senatoriali, precedentemente concesso dai due forse a Roma, dove l’abate si era recato presumibilmente per sbrigare delle questioni in Curia.
Ora, prescindendo dal fatto che non sappiamo quando è stato effettuato il prestito, mi par di capire che i due prestatori possono essere dei prestanome di colui che probabilmente era il vero feneratore, il quale per motivi di illiceità canonica di questa attività finanziaria ha preferito rimanere nell’ombra: Gregorio de Crescenzio, cardinale-diacono del titolo di San Teodoro.
Infatti i due prestatori non sono meglio specificati, in quanto il primo, Giacomo, è qualificato semplicemente come membro della familia, forse un servitore del cardinale stesso, mente l’altro è un semplice judeus di nome Nathan, senza che sia indicata l’affiliazione e la provenienza.
Il fatto che lo stesso prestatore possa essere stato il cardinale è deducibile dal fatto che Gregorio de Crescenzio apparteneva ad una nobile ed antica famiglia romana molto potente nel X secolo, la quale nel XIII era tra i nomi più prestigiosi della finanza capitolina106 e possedeva in quegli anni una mensa, «iuxta hanc est mensa heredum Crescentii, II solidi»107, banco per il cioè un prestito, sita nell’area della basilica di San Giovanni in Laterano, molto vicina al palazzo papale.
104
Il documento è riportato anche in Venditelli, Mercanti-Banchieri, p. 249. Un regesto del documento in Reg. Volat., n. 421.
105
Monteverdi Marittimo, in provincia di Pisa, cfr. E. Repetti, Dizionario geografico
fisico storico della Toscana della Toscana, Firenze 1833-1845, vol. III, p. 553. Sul
monastero di san Pietro cfr.: G. Giuliani, Il monastero di San Pietro di Monteverdi dalle
origini (sec. VIII) sino al XIII secolo, tesi di laurea, Pisa, a.a. 1989-1990, relatore:
prof.ssa M. L. Ceccarelli Lemut; C. Violante, Prefazione, in Vita Walfridi und Kloster
Monteverdi, a cura di K. Schmid, Tubinga, 1991, pp. XIV-XVI.
106
Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 130. 107
46
La notizia della mensa degli eredi di Crescenzio è contenuta in un inventario di oltre sessanta mense, redatto nell’anno 1246 e conservato presso l’Archivio del capitolo di San Giovanni in Laterano108
.
Inoltre il cardinale de Crescenzio era stato coinvolto negli anni precedenti nella risoluzione di diatribe legali che contrapponevano mercatores Curiam
romanam sequentes ad alcuni alti prelati tedeschi per la riscossione di crediti
concessi loro dai mercanti-banchieri romani.
In particolare tra 1212 e 1215 l’arcivescovo di Colonia Dietrich von Heimbach, durante il suo soggiorno a Roma, aveva contratto un mutuo con una
societas di mercanti romani composta da Mattia di Guido Marronis, Angelo di
Giovanni Iudei, Giacomo Scarsus ed altri non meglio identificati, per la somma di 260 marche, alle quali si aggiunsero negli anni seguenti altre 500 marche, che il prelato tedesco si era obbligato a restituire (nelle somme erano ricompresi anche gli interessi), ma non era ancora riuscito a saldare.
Sempre in quegli anni, oltre che verso la sopra menzionata societas, il prelato tedesco si era indebitato con un’altra azienda bancaria composta da due mercanti-banchieri romani: Enrico Lombardus e Pietro de Verosa per una somma di 220 marche.
Nel 1218 grazie all’importante mediazione dei cardinali Gregorio de Crescenzio e Gregorio de Galgano, si giunse a un compromesso, ratificato da Onorio III, tra il nuovo arcivescovo di Colonia, Engelbert von Berg (che aveva ereditato il debito dal suo predecessore) e le due societates mercatorum109.
Dunque il cardinale Gregorio de Crescenzio era a pieno titolo inserito nella politica della Curia romana di protezione delle attività di prestito dei mercatores romani, con i quali poteva aver avuto anche rapporti economici.
Tutto questo avveniva all’ombra della dottrina della Chiesa cattolica, che condannava i mestieri di mercator e campsor tra i negotia illicita (mestieri proibiti), in quanto essi erano maneggiatori di capitali e usurai e quindi
108
Vendittelli, Mecanti-banchieri, pp. 74-76. 109
47
infrangevano il precetto del Cristo che sta alla base della fraternità tra gli uomini (cristiani): Inde nihil sperantes- prestate senza sperarne - (Luca, 6.34-35)110.
A ciò si aggiunsero le rigide disposizioni del IV Concilio lateranense (1215) in materia di usura, in particolare la costituzione 67 che proibiva ai cristiani di praticare il prestito a interesse mentre ciò era permesso agli ebrei, purché le usurae derivanti dal prestito non diventassero graves et immoderatae tali da provocare l’impoverimento dei cristiani111.
Diversamente Simonsohn ritiene che la Chiesa nel XIII secolo abbia cambiato atteggiamento ed abbia proibito sia ai cristiani che agli ebrei di riscuotere ad interesse112.
Simonsohn cita Tommaso d’Aquino il quale dichiarò che il premesso accordato agli ebrei nel Deuteronomio113 di percepire interessi dagli stranieri aveva un limite di tempo, e non era più valido ai suoi giorni114.
Sempre secondo lo storico israeliano, Innocenzo III è stato il primo papa che estese anche agli ebrei il divieto di prestare e a questo fine fece adottare il canone 67, De usuris Iudeorum, dal IV Concilio lateranense contro le loro graves
et immoderatae usurae; tale politica di esclusione del prestito ebraico è rimasta
sostanzialmente invariata nel corso del XIII e XIV secolo, venendo infine abbandonata nel 1401 da Bonifacio IX, il quale accordò a Francesco Gonzaga, conte e vicario imperiale di Mantova, e ai suoi eredi, il permesso di concedere ai feneratori ebrei di poter prestare, fin tanto che la Chiesa non avesse ordinato altrimenti115.
Inoltre, come sotenuto da Rebecca Rist, la disposizione conciliare mirava proprio a colpire forme apparentemente legali di impoverimento degli enti
110
J. Le Goff, Mestieri leciti e mestieri illeciti nell’Occidente medievale, in Tempo della
Chiesa e tempo del mercante, ed altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino,
1977, pp. 53-71. 111
G. Todeschini, Gli ebrei nell’Italia medievale, pp. 87-90. 112
Simonsohn, La condizione giuridica degli ebrei nell’Italia centrale e settentrionale, p.98.
113
Nel Deuteronomio 23. 20-21 è scritto:«Non far pagare a tuo fratello, né per denaro, né per cibo, né per alcuna altra cosa che si presta ad interesse. Fa’ pagare interessi al forestiero, ma a tuo fratello non far pagare interessi affinché il Signore tuo Dio ti benedica, dovunque metterai la tua mano, nella terra dove vai, per prendere possesso», cfr., Simonsohn, La condizione giridica delgi ebrei, p. 98.
114
Simonsohn, La condizione giuridica delgi ebrei, p. 98. 115
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ecclesiastici nella forma di sottrazione delle entrate fiscali dovuti a questi enti e in particolare la cessazione di pagamento delle decime da parte ebraica e cristiana116.
Quindi analogamente ai simoniaci o ai cristiani che a vario titolo si rifiutano di pagare le decime, gli ebrei vengono indicati come corresponsabili di quelle situazioni economiche il cui effetto principale è il depauperamento della Chiesa e la violazione del principio di inalienabilità dei possessi ecclesiastici117.
Ritengo invece che proprio grazie alle disposizioni del canone 67 del IV Concilio lateranense vi sia stato un inizio dell’utilizzo degli ebrei come prestatori, quantomeno su pegno, da parte di prelati o altri grandi presonaggi della Curia romana, a cui l’usura era diventata proibita in maniera tassativa.
Nonostante queste proibizioni, nello Stato pontificio il termine utilizzato dal camerlengo papale fu tolleranza, «fino al limite dove noi possiamo spingerci senza peccare»118.
L’invito allo stanziamento di un prestatore ebreo partiva in genere dalle autorità municipali, bisognose di liquidi per le necessità cittadine oppure desiderose di creare banchi di prestito su pegno su piccola scala, per venire incontro a coloro che necessitavano di somme non eccessive di denaro liquido, come gli artigiani e i mercanti locali di derrate alimentari119.
Più raramente l’iniziativa dell’insediamento del banco poteva anche esser presa dal prestatore stesso, il quale offriva alle autorità cittadine i suoi servigi di credito attraverso un sostanzioso prestito alle medesime autorità, sempre bisognose di denaro liquido120.
116
«Ac eadem poena Iuedos decernimus compellendos ad satisfaciendum ecclesiis pro decimis et oblationibus debitis, quas a christianis de domibus et possessionibus aliis percipere consueverant, ante quam ad Iudeos quocumque titulo devenissent, ut sic ecclesiae conserventur indemnes», canone n. 67 del IV Concilio lateranense, in R. Rist,
Popes and Jews, 1095-1291, Oxford, 2016, p. 137.
117
Todeschini, Gli ebrei nell’Italia medievale, p. 89; Rist, Popes and Jews, pp. 137-138. 118
Simonsohn, La condizione giuridica degli ebrei, p. 99. 119
Botticini, New evidence of Jews in Tuscany, pp. 76-83. 120
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Gli accordi presi con i feneratori ebrei per l’apertura e la gestione di un banco di prestito abitualmente erano stabiliti da una condotta121, un vero e proprio contratto stipulato tra le autorità pubbliche e il privato, che in questo caso era l’ebreo prestatore, ma poteva essere ad esempio anche un capitano di ventura.
La condotta era quindi la patente di esercizio e al contempo il codice che regolava i rapporti reciproci fra autorità municipali (o il signore di una città) e il feneratore122.
Nel tempo il contratto di condotta divenne una tipologia contrattuale consolidata e tipizzata, in generale si apriva con una serie di clausole di carattere tecnico nelle quali erano fissate la durata temporale (in genere tra i due e i dieci anni) dell’esercizio del prestito, l’interesse esigibile, la conservazione dei pegni e la loro vendita.
Il feneratore si impegnava a condurre entro le mura cittadine un banco di prestito, a immettervi un capitale prestabilito, a effettuare determinati tipi di