Prato, Pistoia e Firenze nella prima metà del XV secolo
Da uno dei registri del notaio di Poppi Tommaso da Farneta possiamo apprendere che già nel 1423, pochi anni dopo la stipulazione del contratto societario tra i da Terracina e Daniele di maestro Musetto da Forlì per l’installazione di un banco a Poppi, Bonaventura del fu Salomone di Sabato da Terracina si era trasferito da Lucignano a Prato, nel comitato fiorentino462.
aut potest quacumque alia de causa», in ASFi, NA, Guelfuccio di Donato, n. 10745, c. 180 v, 16 maggio 1418.
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ASFi, NA, Guelfuccio di Donato, n. 10745, c. 180 v, 16 maggio 1418 e c. 225 v, 27 maggio 1420.
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«Bonaventura olim Salomonis Sabbati ebreus de Terracina olim habitator terre Lucignani, comitatus Senarum et hodie habitator terre Prati, comitatus Florentie…», in ASFi, NA, Ser Tommaso di ser Francesco di ser Adamo da Farneta, n. 20301, cc. 136 v- 137 r, 26 novembre 1423.
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In particolare nel documento notarile citato e datato 26 novembre 1423 si apprende che Buonaventura del fu Salomone di Sabato da Terracina, forse ormai anziano, avesse deciso di revocare la procura nei confronti del figlio Salomone di Bonaventura per la gestione del banco di prestito a Poppi, col beneplacito del socio Daniele di maestro Musetto da Forlì e del fattore Bonagiunta di Bramuccio da Rimini463.
Il figlio Salomone sarebbe subentrato al padre come socio nella gestione del banco di Poppi, continuando a risiedere con tutta probabilità nel borgo di Lucignano a differenza del padre che invece, risulta trasferito a Prato 464.
Salomone di Bonaventura tuttavia si trasferì anch’egli di lì a pochi anni a Prato, forse al momento della morte del padre.
Infatti in un documento del 1 dicembre 1429 appartenente allo stesso registro, del notaio di Poppi Tommaso da Farneta, si apprende che Salomone del fu Buonaventura in suo nome e per conto degli eredi del suo socio Daniele del fu maestro Musetto da Forlì, deceduto già da parecchi mesi proprio a Forlì, liquida il fattore Bonagiunta del fu Bramuccio da Rimini, dimorante a Poppi.
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«Et insuper, volens atque intendens idem Bonaventura removere et revocare dictum Salomone filium et procuratorem suum a dicta procura, ex nunc dictus Bonaventura Salamonis ebreus…revocavit, removit et cassavit ac annullavit dictum Salamonem…a dicta procura et similiter, dicto eius mandato et eius vigore, idem Salamon omnia supradicta cum supradictis Daniele et Bonagiunta gessit et contraxit et de quo mandato constat publico instrumento manu ser Jacobi olim Ghezi notarii publici de Lucignano (26 luglio 1419), dictumque mandatum et omnia in eo contenta in totum cassavit, irritavit, annullavit et revocavit…omnemque baliam, potestatem, mandatum et autorictatem per eum in dicto mandato concessam dicto Salamoni, ex nunc totaliter eidem Salamoni licet absenti abstulit…et revocavit, vetans et prohibens dicto Salamoni quod admodum et deinceps nichil vigore dicti mandati et cum dicto mandato idem Salamon, vice et nomine ipsius Bonaventure vel pro ipso Bonaventura, quoquo modo in judicio vel extra gerat vel procuret seu contrahat cum aliquibus personis et hominibus, christianis vel ebreis in futurum, in aliqua mundi vel loco», in ASFi, NA, Ser Tommaso di ser Francesco di ser Adamo da Farneta, n. 20301, cc. 136 v-137 r, 26 novembre 1423.
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Questo risulta da una quietanza, rilasciata a Poppi il 13 febbraio 1428 da Bonagiunta di Bramuccio da Rimini in nome e per conto di «Salamonis Bonaventure ebrei de Lucignano et Daniellis magistri Musetti de Forlivio ebrei» a Jacopo di Gentile di Giovanni da Quorle, frazione di Poppi, per un debito di venti fiorini d’oro, in ASFi, NA, Ser Tommaso di ser Francesco di ser Adamo da Farneta, n. 20301, c. 220 v, 13 febbraio 1428. Nel documento citato Salomone di Bonaventura non è citato con il cognome di provenienza da Terracina, sostituito invece da de Lucignano, borgo nel quale probabilmente risiedeva.
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Inoltre apprendiamo che lo stesso Salomone del fu Bonaventura risulta aver lasciato Lucignano e risiedere invece a Prato, città nella quale e da non molto tempo è deceduto il padre Bonaventura di Salomone di Sabato da Prato465.
Dunque a partire dal 1421 Bonaventura di Salomone di Sabato da Terracina divenne concessionario del banco di Prato e anche di quello di Monte San Savino, quest’ultimo insieme al socio Isacco di Manuele da Pisa466 e forse anche al figlio Salomone, mentre nel 1423 venne associato al banco di Pisa, pur continuando a risiedere a Prato467.
Altri ebrei investirono capitali nei banchi tenuti dai da Terracina, come ad esempio maestro Gaio da Orvieto, hebreus medicus, che nel 1426 costituì a Padova, dove si trovava, due procuratori, Consiglio del fu Emanuele da Toscanella e Dattilo del fu maestro Angelo da Perugia, allo scopo di farsi rimborsare 1.550 fiorini che egli aveva depositato, cioè investito, nel banco di Bonaventura di Salomone abitante a Prato Tuscie468.
Nel 1427 Bonaventura di Salomone da Terracina risulta titolare del banco di Monte San Savino forse insieme al figlio Salomone, il quale è ancora titolare di quel banco nel 1432469.
Dopo la morte di Bonaventura di Salomone di Sabato da Terracina, avvenuta presumibilmente tra il 1428 e il 1429470, gli successe come capo della famiglia da Terracina il figlio Salomone designato negli atti, come abbiamo visto,
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«Bonaiunta olim Bramuccii de Rimino ebreus, habitator Puppii fuerit et steterit in terra Puppi administrator et administraverit et exerxuerit ut factor, negotiorum gestor et administrator Salamonis olim Bonaventure Salamonis Sabbati ebrei de Prato et Prati habitator, comitatus Florentie…Et cum dictus Daniellus magistri Mustetti iam sunt plures menses, mortuus fuerit in civitate Forlivi…Et cum dictus Salamon per se et pro heredibus dicti Daniellis posuerit et firmaverit calculum, computum et saldum cum dicto Bonaiunta Barmuccii de toto et integro traffico, bancho et presto totius temporis usque in hanc diem et de ipso remanserit in plena et bona concordia cum dicto Bonaiunta», in ASFi, NA, Ser Tommaso di ser francesco di ser Adamo da Farneta, n. 20301, cc. 323r-324 v, 1 dicembre 1429.
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ASFi, Capitoli, Appendice, n. 28, cc. 60 r-62 v; Salvadori-Sacchetti, Presenze
ebraiche nell’aretino, p. 34.
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ASFi, Capitoli, vol. 99, cc. 60, 68, 90, 98; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, p. 126, n. 1.
468 D. Carpi, L’individuo e la colettività. Saggi di storia degli ebrei a Padova e nel
Veneto nell’età del Rinascimento, Firenze, 2002, p. 210.
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ASFi, Capitoli, Appendice, n. 28, cc. 104r-c. 106r; ASFi, Capitoli, Appendice, n. 29, cc. 23r-25v; Salvadorri-Sacchetti, Presenze ebraiche ne’’aretino, p. 34.
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Nell’atto del 1429 Salomone è detto «olim Bonaventure Salamonis Sabbati ebrei de Prato et Prati habitatoris», in ASFi, NA, Ser Tommaso di ser Francesco di ser Adamo da Farneta, n.20301, cc. 323r-324v, 1 dicembre 1429.
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anche come Salomone da Prato471, città nella quale risiedeva e dove risulta essere stato associato dal padre Bonaventura nella gestione del banco di prestito472.
Già nel 1426 Salomone di Bonaventura da Terrecina, qui ricordato come
da Prato, è titolare del banco di Castiglione Aretino, oggi Fiorentino, insieme al
socio Joseph di Samuele di Francia473.
Nel 1427 ci fu una nuova opportunità di investimento finanziario per i da Terracina, in quanto a Pistoia il feneratore “pubblico” cristiano Antonio del fu Bartolomeo Guidi detto “il Pesciatino” rese noto che nel maggio di quell’anno, alla scadenza della condotta, non si sarebbe più candidato per il rinnovo e avrebbe abbandonato il suo execrabile ministerium474.
Il governo pistoiese deliberò di ricorrere al prestito ebraico, chiamando i gestori dei banchi delle due città più vicine: Pescia, dove prestavano Ventura e Guglielmo di Sabbatuccio di Matassia da Roma, e Prato dove prestavano i da Terracina.
Nell’agosto del 1427 furono concluse a Firenze le trattative per definire i termini della condotta, in attesa dell’approvazione dei capitoli da parte della Repubblica fiorentina, avvenuta nel luglio del 1428, i da Terracina e i da Roma erano già arrivati a Pistoia.
Titolari della condotta erano Salomone figlio di Bonaventura di Salomone da Prato (da Terracina) e Guglielmo (titolare era il fratello Ventura) di Sabbatuccio da Pescia.
La condotta sarebbe durata tre anni appena a partire dal 1 settembre 1427; la tassa annua a favore di Firenze sarebbe ammontata a 250 fiorini, mentre il tasso d’interesse massimo consentito sarebbe stato quello standard del 30 %. A ciò si
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A Prato l’esercizio del prestito su pegno era quasi tutto nelle mani di Salomone «giudeo», tuttavia era presente anche un prestatore cristiano, Benedetto di Filippo Amadori, «tavoliere di Firenze» che esercitava il prestito presso porta Travaglio, cfr. E. Fiumi, Demografia e movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall’età comunale
ai tempi moderni, Firenze, 1968, pp. 136-137.
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ASFi, Capitoli, vol. 99, c 68; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, p. 126, n. 1. 473
ASFi, Capitoli, Appendice, n. 28, c. 100r-103v; Salvadori-Sacchetti, Presenze
ebraiche nell’aretino, p. 34. Il banco di Castiglione Aretino era tenuto nel 1414 al
momento della stipula della condotta quinquennale, poi rinnovata, da Deodato di Emanuele da Corneto, insieme ai soci Isacco di Emanuele da Rimini e Josef di Samuele di Francia, cfr. M. Toniazzi, I da Camerino: una famiglia ebraica italiana fra Trecento e
Cinquecento, Ascoli Piceno, 2015, p.117.
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aggiunse il completo monopolio del prestito agli ebrei stipulanti sia per la città di Pistoia che per il suo contado475.
Anche in questo caso l’accordo societario vide come protagonisti da una parte i da Terracina, ora da Prato, e dall’altra i da Roma, ora da Pescia e poi da Pisa (un ramo è quello dei da San Miniato)
Tuttavia di lì a pochi anni la famiglia da Terracina fu travolta da un’improvvisa catastrofe finanziaria dovuta alle scelte fatte da Salomone di Bonaventura a Firenze dopo l’autorizzazione da parte della Repubblica all’esercizio del prestito. Egli volle allargare gli investimenti della famiglia anche alla città di Firenze, che in quegli anni si apriva al prestito ebraico.
Sino al 1437 la Repubblica fiorentina non aveva concesso nessuna autorizzazione per l’esercizio del prestito nella città di Firenze a feneretori ebrei, ma tale attività finanziaria era consentita agli ebrei soltanto nel contado fiorentino (come Prato) e nelle comunità sottomesse (come Arezzo).
Solo nel novembre 1430 il Comune di Firenze dichiarò che avrebbe autorizzato, entro sei mesi, qualsiasi ebreo a prestare nella città di Firenze, con relative tasse, privilegi, esenzioni, determinando anche il saggio d’interesse nella misura di non oltre 4 denari per lira476.
La scelta di introdurre il prestito ebraico entro le mura cittadine provocò un lungo ed estenuante dibattito all’interno della classe dirigente fiorentina, dato che alcuni esponenti della repubblica si lamentavano del fatto che i feneratori ebrei prestassero non solo su pegno, ma anche ad cartulas, violando le disposizioni dei capitoli concessi dai comuni e dai comunelli del contado e delle città sottomesse477.
Con l’instaurarsi del potere mediceo nella persona di Cosimo il Vecchio nel 1434, le cose presero un’altra piega, portando a un’accelerazione dell’autorizzazione del prestito ebraico a Firenze.
Nel novembre 1435 si stabilì che entro un anno si sarebbe dovuto condurre feneratori ebrei con licenza valida per dieci anni con speciali condizioni, tuttavia alla scadenza del termine, nel novembre 1436, nessun patto era ancora stato
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Bechelli, I caratteri dell’insediamento ebraico a Pescia, p. 59. 476
Ciardini, I banchieri ebrei in Firenze, p. 28. 477
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firmato con alcun ebreo feneratore e si decise di prorogare il termine di un altro anno478.
I capitoli vennero stipulati il 17 ottobre 1437, per cui a partire da questa data la Repubblica fiorentina affidava, per la prima volta nella sua storia, l’esercizio del prestito in città a banchieri ebrei479
.
Per essere sicura che la scelta fosse corretta, la Repubblica fiorentina volle scegliere il titolare della condotta fra quei prestatori che già precedentemente erano stati in rapporto con la Repubblica stessa e da essa erano stati valutati, tenendo banchi di prestito sia nel contado che nei comuni sottomessi.
La scelta cadde su Abramo di Dattilo di Matassia da Roma, appartenente a un ramo della famiglia de Synagoga, conosciuto anche con il cognome da San
Miniato, il quale da lunghi anni era in stretti rapporti con la Repubblica fiorentina.
A lui, con i capitoli del 1437, venne affidato l’incarico di aprire, insieme a quei soci che avesse ritenuto opportuno scegliere, almeno tre banchi di prestito entro le mura cittadine480.
Abramo di Dattilo scelse come soci, lo stesso giorno in cui furono stipulati i capitoli, Jacopo di Salomone da Perugia (abitante a Ferrara) e Jacopo di Consiglio da Toscanella (abitante a Padova) per il banco di prestito detto de’
Soldani, mentre per un altro banco individuò Dattilo del fu Consiglio da Tivoli,
abitante a Bologna481.
L’anno seguente Abramo di Dattilo prese come soci David del fu Salomone da Perugia, fratello del ricordato Jacopo, Isacco di Samuele da
478
Ciardini, I banchieri ebrei in Firenze, p. 29. 479
Ciardini, I banchieri ebrei in Firenze, p. 29; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, p. 32. 480
Come ho avuto modo già di dire, la famiglia da Roma de Synagoga aveva rapporti con le autorità fiorentina da quasi mezzo secolo: il nonno di Abramo, Matassia di Sabbato da Roma, nel 1393 aveva stipulato dei capitoli per il prestito, ratificati da Firenze, con il Comune di San Miniato al Tedesco, città nella quale si era stabilito con i suoi quattro figli. Nel 1406, dopo che fu emanata la legge che abrogava (temporaneamente) tutte le concessioni feneratizie in vigore nel territorio della repubblica fiorentina e dopo che esse venne revocata, i successivi capitoli a San Miniato vennero concessi direttamente dal Comune di Firenze a Dattilo di Matassia, padre di Abramo. Lo stesso Abramo di Dattilo nel 1416 e nel 1421 figurava come contraente di capitoli feneratizi a San Miniato, per sé e per i suoi fratelli, e negli stessi anni, pur continuando a dimorare a San Miniato, si associava all’esercizio del banco di prestito di Pescia, con il cugino Ventura di Sabbato di Matassia, cfr. Cassuto, Gli ebrei a Firenze, pp. 32-33; Ciardini, I banchieri ebrei a
Firenze, p. 29.
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Bologna, Vitale di Isacco da Rimini e Giuseppe di Guglielmo di maestro Aleuccio da Cetona482, che ritengo essere il nipote (figlio del fratello) del famoso feneratore aretino Salomone di Aleuccio.
Sempre nel 1438 il figlio di Abramo di Dattilo, Manuele, su procura del padre, scelse altri soci: Jacopo, Isacco e Abramo, figli di Salomone di Bonaventura da Terracina, abitanti a Prato, per il banco detto de’Ricci; Vitale e Guglielmo di Dattilo da Montalcino per un altro banco.
Nel 1439 sempre Manuele nominò come socio del banco presso il ponte di Santa Trinita maestro Aleuccio di Salomone di Aleuccio da Arezzo, medico nonché figlio del già ricordato Salomone, noto prestatore aretino483.
In tal modo a distanza di un anno dalla stipulazione dei capitoli la compagnia di prestatori ebrei si componeva oramai di quindici soci.
Secondo quanto prestabilito dai capitoli, Abramo di Dattilo e i suoi soci erano obbligati ad aprire a Firenze almeno un banco di prestito entro il mese di novembre 1437 e gli altri due banchi entro il 1 marzo 1438.
Questa lunga scadenza venne concessa delle autorità fiorentine per permettere ai prestatori ebrei di radunare il capitale necessario per gli investimenti, sembra però che Abramo di Dattilo riuscisse a mettere insieme la somma necessaria grazie anche al contributo dei suoi primi due soci, Jacopo da Perugia e Jacopo da Toscanella.
Già nel mese di novembre i feneratori ebrei aprirono ben quattro banchi di prestito, uno in più di quelli che erano obbligati ad aprire secondo i capitoli484.
I banchi aperti nel 1437 erano: il primo, detto banco de’ Soldani, sito nel palazzo all’angolo tra via de’ Neri e via della Mosca, detto appunto Canto de’ Soldani, gestito da Jacopo da Perugia con Jacopo da Toscanella e Vitale da Rimini; il secondo, detto della Vacca o de’ Panciatichi, perché ubicato dove un tempo si trovavano le case dei Panciatichi, ormai demolite, site in via della Vacca, era gestito da Dattilo da Tivoli insieme ad altri soci; il terzo detto di Santa Trinita, perché sito nei pressi del ponte omonimo, cioè nel palazzo degli Spini, era tenuto dallo stesso Abramo di Dattilo da San Miniato e altri soci; il quarto infine detto
482
Cassuto, Gli ebrei a Firenze, p. 34; Ciardini, I banchieri ebrei a Firenze, p. 30. 483
Cassuto, Gli ebrei a Firenze, pp. 34-35; Ciardini, I banchieri ebrei a Firenze, p. 30. 484
156 de’ Ricci, così chiamato perché ubicato in una della case che i Ricci possedevano
ai due lati di quella strada che va da via dello Studio a via Santa Elisabetta, detta appunto via de’ Ricci485
.
Non sappiamo chi tenne tra 1437 e 1438 il banco detto de’ Ricci, tuttavia dal 1438 al 1441 esso fu gestito dai da Terracina e fu proprio la gestione di questo banco a provocare la catastrofe finanziaria che li travolse.
Salomone di Bonaventura da Terracina, a partire dal 1427/ 1428, risiedette stabilmente a Prato dove manteneva la sua azienda principale, e da lì gestiva gli affari che aveva in altri banchi di cui era socio, sparsi per la Toscana (Pistoia, Poppi, Monte San Savino, Pisa ecc…).
In particolare Salomone di Bonaventura aveva ottimi rapporti di affari con la famiglia da Roma, divisa nei vari rami dei da Pescia, da Pisa e da San Miniato486; rapporti che, come abbiamo visto, erano già stati avviati dal nonno Salomone di Sabato da Terracina, sin dal 1402 al momento dell’apertura del banco di Pescia.
Quando il governo fiorentino decise di aprire al prestito ebraico anche la città di Firenze, Salomone di Bonaventura decise di allargare ulteriormente gli interessi finanziari della famiglia al capoluogo toscano e nell’ottobre 1438 ottenne l’appoggio degli Ufficiali del Monte, i quali lo invitarono a pagare anticipatamente 800 fiorini come tassa annuale dovuta al Monte per la gestione del banco di Prato e contemporaneamente dichiararono che gli era stata concessa la licenza e il favore dell’Ufficio del Monte di essere uno degli ebrei che possono fenerare nella città di Firenze, nel suo contado e nel suo distretto, alle stesse condizioni degli altri ebrei prestatori in Firenze, «per il che si sarebbe dovuto ottenere licenza e partito dalla Signoria»487.
La Signoria a quanto pare non ebbe occasione di deliberare in proposito, tuttavia Salomone di Bonaventura, forse per accelerare i tempi, forse per evitare di sborsare altro denaro per ottenere la deliberazione della Signoria, probabilmente
485
Cassuto, Gli ebrei a Firenze, pp. 124-125. 486
Sulla famiglia de Synagoga da Roma e i suoi rami da Pisa, da Pescia e da San Miniato, rinvio a M. Luzzati, Prestito ebraico e studenti Ebrei all’Università di Pisa, in La casa
dell’Ebreo, Pisa, 1985, p. 117.
487
ASFi, Deliberazioni degli Ufficiali del Monte Comune, vol. I (1437-1438), c. 97; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, p. 126, n. 2.
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anche grazie al fatto che Abramo di Dattilo da San Miniato (uno dei rami della famiglia da Roma) era il referente della Repubblica fiorentina per i banchi di prestito degli ebrei, decise di far nominare i suoi tre figli, Abramo, Isacco e Jacopo, tutti minorenni, come soci feneratori dello stesso Abramo di Dattilo.
Mediante una procura datata 29 dicembre 1438 Abramo di Dattilo, per mezzo del figlio Manuele, nominò suoi soci, con tutte le formule previste dai capitoli del 1437 i tre figli maschi, ancora minorenni di Salomone di Bonaventura, il quale accettava e ratificava la nomina in qualità di padre e amministratore dei figli488.
Grazie a questa nomina, che poneva i tre giovani da Terracina nel novero dei banchieri legalmente autorizzati al prestito a Firenze, Salomone di Bonaventura decise di rilevare, in nome e per conto dei figli, il banco de’ Ricci, del quale assunse personalmente la direzione489.
Tuttavia questa operazione di aggiramento della mancata autorizzazione al prestito a Firenze da parte della Signoria, se pur aveva assunto una veste giuridica apparentemente soddisfacente, era pur sempre una fictio, che poteva dare adito, da un punto di vista strettamente legale a diverse interpretazioni.
Infatti, Salomone avrebbe dovuto essere nominato anche lui come socio feneratore per la città di Firenze, cose che inspiegabilmente non avvenne, dato che riteneva comunque aver agito secundum legem.
Per due anni le autorità fiorentine lasciarono correre, ma nel dicembre 1440 il podestà di Firenze, Niccolò Porcinari dall’Aquila, contestò a Salomone di Bonaventura il reato di esercizio illegale del prestito, in violazione sia dei capitoli del 1437 che delle provvisioni del 1406 e lo condannò nel gennaio 1441 al pagamento di una multa salatissima ammontante a 20.000 fiorini, cioè 1.000 fiorini per ogni operazione finanziaria compiuta nel corso dei due anni, che furono calcolate nel numero di venti «non cantante licentia de fenerando in eum sed in