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Abbiamo visto che una corrente di ebrei di origine romana avviò il prestito nelle città del Lazio, dell’Umbria e delle Marche nel corso del XIII secolo, quantunque prima di tale periodo non fosse presente il nome di nessun ebreo romano tra i mercatores Curiam Romanam sequentes152.

Nel corso del Trecento, invece, ci fu un evidente rallentamento dell’espansione dei banchi degli ebrei romani anche a causa del trasferimento della sede del papato ad Avignone (1305-1377)153.

Il fenomeno riprese espansione nell’ultimo ventennio del secolo e nella prima metà del secolo successivo.

La comunità ebraica di Roma agli inizi del Trecento, era ancora una comunità solida e opulenta, solo in piccola parte scalfita dall’emigrazione di famiglie di feneratori verso le città del centro Italia.

152

Cfr. Venditelli, Mercanto-banchieri romani tra XII e XIII secolo, pp. 171-329; tuttavia è d’uopo ricordare il nome di Giovanni Iudei o Iudeus e dei figli Angelo e Giovanni, che sono tra i più importanti mercatores romani; tuttavia il termine judeus di per sé non significa che chi porta questo appellativo sia effettivamente ebreo, in quanto ciò può essere legato ad una ascendenza ebraica, esattamente come il termine Saracenus (Pietro e Giovanni Saracenus, altri mercatores romani) indica un’ascendenza arabo-islamica, ma non che chi lo porta sia effettivamente un musulmano; sul termine judeus cfr. M. Luzzati,

La casa dell’ebreo. Saggi sugli ebrei a Pisa e in Toscana nel Medioevo e nel Rinascimento, Pisa, 1985, pp. 24-25; M. Luzzati, L’insediamento ebraico a Pisa prima del Trecento: conferme e nuove acquisizioni, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1994, p.

513; Garruto, Prestatori ebrei e prestatori cristiani, op.cit., pp. 121-122. 153

Interpretazione questa di Ariel Toaff, il quale sottolinea la dipendenza dei feneratori ebrei romani dalle politiche della Chiesa di Roma, cfr. Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 138.

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Nel 1310 gli statuti cittadini di Roma confermavano agli ebrei i loro diritti di cittadinanza senza limitazioni, confermando anche i privilegi di cui avevano goduto in precedenza 154.

La loro situazione economica era talmente florida che nel 1312, in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo (1308- 1313), la comunità romana fu in grado di accollarsi tutte le spese della cerimonia, alla quale avevano partecipato come delegazione.

Nel 1328 in occasione di un’altra incoronazione imperiale, quella di Ludovico IV il Bavaro (1314-1347), gli ebrei romani versarono all’imperatore 10.000 fiorini, un terzo di quanto il sovrano germanico aveva preteso da tutti i romani155.

Alla metà del Trecento Roma fu sconvolta dal tentativo di restaurazione repubblicana e popolare di Cola di Rienzo, iniziato nel 1347 e conclusosi tragicamente nel 1354.

Cola di Rienzo cercò sin da subito di procacciarsi alleati per il suo progetto politico.

Tra questi ci furono gli ebrei romani, soprattutto quelli degli strati popolari, ma anche i mercanti di panni e piccoli prestatori.

Cola fece ricorso a un atto clamoroso per suscitare le simpatie degli ebrei. Qualche anno prima, nel 1343, a Perugia, che era nel Trecento sede della più ricca ed importante comunità ebraica di origine romana, fu assassinato Sabato di Abramo de Urbe, un ricchissimo banchiere ebreo insieme alla moglie.

Dell’inchiesta venne incaricato anche il celebre giurista Bartolo di Sassoferrato, che in quegli anni insegnava presso lo Studio perugino.

L’inchiesta si concluse con l’arresto dei responsabili, la loro condanna a morte e la loro traduzione a Roma per l’esecuzione.

Tuttavia, passati quattro anni, i responsabili si trovavano ancora in vita nelle prigioni romane, nonostante che la comunità ebraica romana spingesse perché venisse eseguita la pena capitale dei responsabili del duplice omicidio.

154

«Judei sint intelligantur cives Romani», in Toaff, Gli ebrei romani, p. 138. 155

Un terzo dal clero, un terzo dall’amministrazione capitolina e un terzo dagli ebrei, cfr. Milano, Storia degli Ebrei in Italia, pp. 147-148; Toaff, Gli ebrei romani, pp. 138-139.

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Tra le prime misure di governo di Cola di Rienzo ci fu proprio l’esecuzione pubblica degli assassini.

Grazie a questa azione molti ebrei romani si schierarono col tribuno tanto che, racconta l’Anonimo Romano, fu proprio un ebreo a suonare a storno le campane di Sant’Angelo in Pescheria (la zona dove vivevano molti ebrei romani) per chiamare a raccolta i partigiani di Cola di Rienzo, quando venne attaccato dalla coalizione baronale guidata dai Colonna156.

In quegli anni la situazione politica ed economica era caotica.

Al tentativo di Cola di Rienzo si erano aggiunti uno stato endemico di lotte intestine (con relative scorrerie di mercenari al servizio di vari baroni), la peste, le alluvioni ed altre calamità naturali che fiaccarono il tessuto demografico della città.

Tuttavia con la fine dell’esilio avignonese e il ritorno del papato a Roma nel 1377 con Gregorio XI (1370-1378), iniziò una nuova ondata migratoria di prestatori ebrei romani nel settore del commercio di denaro autorizzato e convenzionato, nelle terre dello Stato pontificio, riconquistate militarmente dal cardinale Egidio Albornoz157.

Come accaduto un secolo prima, questo nuovo esodo di banchieri ebrei fu approvato (se non pianificato) dalla Curia romana, solo che questa volta i banchieri romani non sostituivano le compagnie fiorentine o toscane, bensì andavano a operare nel settore creditizio lasciato scoperto dalle più antiche famiglie di prestatori ebrei romani del secolo precedente, i cui discendenti avevano allargato il giro di affari, andando a investire in nuove località al di fuori delle terre dello Stato pontificio, in particolare in Toscana e nell’Italia padana.

Questa doppia contemporanea emigrazione, avvenuta nel corso del Trecento, caratterizzò ulteriormente il mondo ebraico italiano, tanto che a nord di

156

«Una notte e uno dìe sonao a stormo la campana de Santo Agnilo Pescivennolo. Uno Iudio la sonava», in Anonimo Romano, Cronica, a cura di E. Mazzali, Milano, 1999, p. 239; Toaff, Gli ebrei a Roma, pp. 139-140.

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Roma e sino alle Alpi, le comunità ebraiche erano di origine romana, almeno nei suoi componenti maggioritari e dirigenziali158.

Infattin l’emigrazione ebraica, che nella prima metà del Quattrocento riguardò non solo Roma ma alcuni paesi del Lazio (dove precedentemente si erano installate famiglie di feneratori romani), ha caratterizzato in modo significativo il mondo ebraico italiano.

Con la morte di Gregorio XI e l’elezione del suo successore Urbano VI (1378-1389), la Chiesa cattolica dovette affrontare una grave crisi che scosse e lacerò la cristianità : lo Scisma d’Occidente.

Anche in tale contesto è da inquadrare l’emigrazione dei prestatori ebrei romani, che ancora potevano possedere capitali di una certa consistenza ed erano in grado di farli fruttare in una situazione frammentaria e per certi versi caotica.

Questo secondo esodo da Roma nell’ultimo scorcio del Trecento e agli inizi del Quattrocento fu di breve durata o meglio fu intermittente, in quanto la situazione economica degli ebrei a Roma si era indubbiamente fatta più precaria rispetto agli inizi del Trecento.

Infatti se ancora alla metà del secolo sono presenti a Roma grossi mercanti che partecipavano attivamente alla vita economica della città, alla fine del secolo il loro numero era drasticamente diminuito e di loro non era rimasto che un pallido ricordo159.

Nel 1391 il banchiere Benedetto di Mele, anch’egli come molti ebrei abitante nel rione di Sant’Angelo, venne nominato da Bonifacio IX (1389-1404), perito stimatore dei beni mobili di varia provenienza che finivano nelle casse della Curia romana, grazie alla sua lunga esperienza nell’attività di prestito160

.

Agli inizi del Quattrocento l’Universitas ebraica romana era ormai in una situazione economicamente drammatica, dovuta non solo alla partenza dei banchieri che ancora possedevano qualche capitale, ma anche dal ridursi del livello produttivo della comunità stessa, e alla sua crisi demografica:

158

A. Toaff, Convergenza sul Veneto di banchieri romani e tedeschi nel tardo medioevo, in Gli ebrei a Venezia (secoli XIV-XVIII), Atti del Convegno Internazionale, Venezia, 5- 10 giugno 1983, Milano, 1987, pp. 595-613.

159

Maire Vigueur, Les Juifs à Rome, p. 25. 160

S. Simonsohn, Apostolic See and the Jews: Documents (492-1404), I, pp. 507-510, note 476, 478 (12 aprile 1391, 28 ottobre 1391); Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 142.

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l’emigrazione era solo una delle componenti che contribuivano all’indice negativo.

Nel 1399 i rappresentanti della comunità ebraica romana chiesero al pontefice di Roma (ancora perdurava lo Scisma d’Occidente) Bonifacio IX, di abbassare la tassa di Agone e Testaccio, che nel corso del Trecento era diventata un aggravio fiscale esclusivo nei confronti della comunità romana.

Il pontefice ritenne invece opportuno che alla tassa contribuissero tutte quelle comunità ebraiche dell’Italia centro-settentrionale che fossero di origine romana (come ad esempio quella di Perugia), in quanto i loro membri mantenevano la cittadinanza romana, riconfermata proprio da Bonifacio IX nel 1402161.

In quegli anni vi furono persecuzioni nei confronti degli ebrei in Spagna, Savoia e Germania, spesso seguite alla predicazione del domenicano Vincenzo Ferrer, ragion per cui i rappresentanti delle comunità ebraiche di Roma, del Patrimonio di San Pietro, della Marittima, della Campagna, del Ducato di Spoleto, della Tuscia, della Marca anconitana, della Romagna, della Toscana, di Bologna, Ferrara e Padova, tutte di origine romanesca convocarono un congresso nel 1416 a Bologna ed elessero una commissione permanente che doveva restare in carica per 10 anni con il compito di vigilare sugli avvenimenti, di adunarsi quando fosse necessario per prendere opportune deliberazioni e di convocare eventualmente un altro congresso162.

In occasione della fine dello Scisma d’Occidente e dell’elezione nel 1417 di papa Martino V, i rappresentanti delle comunità ebraiche dell’Italia centro- settentrionale rivolsero al nuovo pontefice un appello per chiederne la protezione. Nel 1418 fu riunito a Forlì un nuovo congresso, il quale oltre ad alcune disposizioni inerenti la vita interna delle comunità, deliberò d’inviare al nuovo pontefice, allora residente a Mantova, una deputazione per chiedere nuove

161

Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 142. 162

U. Cassuto, Gli ebrei a Firenze, Firenze, 1918, pp. 25-26; Poliakov, I banchieri ebrei e

la Santa Sede dal XIII al XVII secolo, Roma, 1974, p. 88; Todeschini, Gli ebrei nell’Italia medievale, p. 145; Milano, Storia degli Ebrei in Italia, p. 151; I. Sonne, I congressi delle Comunità israelitiche italiane nei secoli XIV-XVI e il sinodo dei quattro paesi in Polonia,

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garanzie di sicurezza e protezione, e la conferma di quelle già concesse dai predecessori (a partire dalla bolla Sicut Judeis di Callisto II)163.

In quell’occasione le comunità di origine romana confermarono il loro impegno, derivante dalla comune origine, a continuare a pagare la loro parte nell’imposta annuale per i giochi di Agone e Testaccio a Roma164

.

Il contributo venne fissato nell’1,5‰ del valore di tutti i beni mobili e immobili di ogni singolo ebreo romanesco, oltre alla somma di un fiorino per ogni banco con capitale inferiore a 500 fiorini e di un fiorino e mezzo per ogni banco con capitale superiore.

Negli anni successivi ben 800 dei 1.100 fiorini della tassa carnevalesca sarebbero stati pagati dagli ebrei di origine romana dell’Italia centro- settentrionale, mentre il rimanente sarebbe rimasto da pagare dall’Universitas ebraica di Roma, ragion per cui gli ebrei di origine romana, ma residenti fuori Roma denunziavano patrimoni complessivi del valore di oltre 250.000 fiorini a differenza dei correligionari romani che ne denunziavano meno di 100.000165.

La deputazione inviata dal congresso forlivese166 a Martino V sortì un ottimo effetto in quanto il pontefice emise a Mantova una bolla, datata 31 gennaio 1419, nella quale era fatto divieto di recare molestia agli ebrei durante la celebrazione dei loro riti e delle loro festività, li proteggeva contro ogni sopruso alle loro persone e ai loro beni, contro ogni coercizione e contro i battesimi forzati e inoltre era nuovamente confermata l’esercizio di qualsiasi attività economica o di commercio167.

163

Cassuto, Gli ebrei e Firenze, p. 26; Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 151; Todeschini, Storia degli ebrei nell’Italia medievale, p. 145.

164

Sulla festa di Agone e Testaccio e sulle feste di popolo in genere, cfr. Maire Vigueur,

L’altra Roma, pp. 140-147.

165

Toaff, Gli ebrei a Roma, pp. 142-143. 166

La delegazione non si presentò a mani vuote: il congresso forlivese decise per quell’occasione di autotassarsi, ogni privato avrebbe pagato un’imposta sulla proprietà nella misura di un ducato e mezzo per ogni mille (di valore), mentre ogni famiglia avrebbe versato una tassa oscillante tra mezzo ducato e un ducato e mezzo, cfr. Milano,

Storia degli ebrei in Italia, p. 477.

167

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Successivamente Martino V emanò una seconda bolla, nel 1422, nella quale vi si faceva esplicito divieto ai predicatori di qualsiasi ordine di tenere sermoni contro gli ebrei, tuttavia già l’anno successivo il pontefice la revocò168

. In questi anni di difficoltà per gli ebrei, anche a causa dell’inizio della campagna antifeneratizia dei frati minori, i rappresentati delle comunità dell’Italia centro-settentrionale decisero nuovamente di riunirsi a congresso, a Firenze nel 1428, per stabilire nuove linee di difesa e per rivolgersi nuovamente alla protezione del pontefice169.

Martino V con la bolla del 13 febbraio 1429 assicurò nuovamente protezione e sicurezza a tutti gli ebrei, consentì di associarsi nei commerci ai cristiani e per quanto concerne gli ebrei di Roma, confermò loro la piena cittadinanza e l’esenzione da alcune tasse170

.

Dunque con tutta probabilità, almeno fino alla metà del XV secolo, i rappresentanti delle comunità di origine romana si incontrarono ufficialmente e ad intervalli regolari, per stabilire quali iniziative intraprendere per assicurarsi la protezione dei pontefici e per raccogliere fondi da destinare a tali scopi, mediante un’autotassazione che non gravasse solo sulla comunità di Roma, ma anche sulle altre comunità ebraiche di origine romana sparse per l’Italia centro-settentrionale.

In tutti gli incontri avuti e documentati, l’egemonia da parte degli ebrei

romaneschi non fu mai messa in discussione171.

Per quel che concerne l’attività degli ebrei romani, tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, nella città di Roma di banchieri ebrei non c’era quasi più traccia, poiché la maggioranza di loro si era trasferita, in tempi diversi, nei vari centri dello Stato pontificio e nel resto dell’Italia centrale.

Tuttavia, sotto i pontificati di Bonifacio IX (1389-1404), Innocenzo VII (1404-1406), Gregorio XII (1406-1415) e Martino V (1417-1431) si moltiplicò il numero di banchieri ebrei che ottennero la nomina ufficiale a “familiare” del papa (con i relativi privilegi che essa comportava), a condizione che costoro visitassero

168

Cassuto, Gli ebrei a Firenze, pp. 26-28. 169

S.H. Margulies, Un congresso di notabili ebrei tenuto a Firenze nel 1428, in Rivista

Israelitica, II, pp. 169-178; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, n. 6, pp. 28-29.

170

Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 152; Cassuto, Gli ebrei a Firenze, pp. 29-30.

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Roma con una certa frequenza, per svolgere i loro traffici con la Curia romana e il Comune capitolino172.

Tra questi banchieri sono presenti tutti i più importanti prestatori de Urbe, ancora in possesso della cittadinanza romana, dopo anni di lontananza.

Tra questi ricordiamo Salomone di Matassia, il più influente banchiere di Perugia, attivo anche in altri centri dell’Umbria, delle Marche, in Emilia e nell’Italia padana, che venne nominato familiare da Bonifacio IX nel 1392 “per i servigi resi alla Chiesa di Roma”173

.

Nel 1399 un altro banchiere di origine romana, Salomone di Mele, proprietario del grande banco di Foligno, riceveva dallo stesso pontefice la nomina di familiare “avendo manifestato la propria disponibilità a venire di frequente a Roma in Curia a dimorarvi per qualche tempo con un seguito di una quindicina tra cavalieri e pedoni”174

.

I medesimi privilegi ricevettero negli stessi anni il proprietario del banco di Cori, il più importante della Campagna e della Marittima, il proprietario del banco di Rieti (nella Sabina), quello del banco di Viterbo, e altri prestatori ebrei di origine romana operanti nel resto dello Stato pontificio e persino a Padova175.

I legami tra i banchieri ebrei de Urbe operanti fuori Roma e la Curia romana erano ancora, nel secondo quarto del Quattrocento, molto forti e numerosi erano gli affari che li legavano e soprattutto appare evidente che alcune somme di capitale di banchi di prestito non derivavano da attività commerciali, bensì erano di altra origine.

Nel 1430 Vitale de Urbe, familiare di Martino V, gestore del banco di Fermo nella Marca anconitana, aveva in deposito alcune somme di denaro appartenenti ad alcuni cittadini romani (probabilmente della stessa Curia), investite nella sua attività di feneratore.

Avendo lo stesso Vitale lasciato insoluti alcuni suoi debiti, venne arrestato mentre si trovava a Roma, per ordine del Senator Urbis, per cui il papa nominò

172

Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 143. 173

Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 143; Simonsohn, Apostolic See and the Jews, I, pp. 512- 513, nota 482 (23 gennaio 1392).

174

Simonsohn, Apostolic See and the Jews, I, pp. 526-527, nota 488 (14 luglio 1399); Toaff, Gli ebrei a Roma, pp. 143-145; Id., Il vino e la carne, pp. 293-298.

175

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un commissario con l’incarico di requisire tutti i beni mobili e immobili appartenenti a Vitale a Fermo per essere devoluti in favore della Camera Apostolica.

La stessa Camera Apostolica si occupò in quegli anni degli affari del banco di Montegiorgio nelle Marche, il cui gestore era Gaio de Urbe, un altro feneratore ebreo familiare del papa, con frequenti presenze in Curia a Roma; sembra infatti che i capitali investiti nel banco, nell’ordine di qualche migliaio di fiorini, appartenessero a cristiani, i quali per i versamenti si servivano di un prestanome, l’archiatra pontificio Elia di Sabato da Fermo, mentre per la riscossione dei crediti si servivano di rappresentanti della Camera Apostolica176.

Dunque una parte consistente del capitale di cui disponevano i banchi ebraici era costituito da depositi effettuati da cristiani, che in tal modo riuscivano a sfuggire all’imposta sui redditi e alla condanna ecclesiastica del prestito usurario; questo accadeva ovunque in Italia vi fossero banchi feneratizi gestiti da ebrei177.

Numerosi sono gli esempi dai quali si può dedurre che cristiani facoltosi o anche risparmiatori, abbiano investito i propri capitali nei banchi di prestito ebraici.

Il francescano Cherubino da Spoleto (1414-1484), ad esempio, famoso predicatore in Umbria e Toscana, ammoniva i cristiani che investivano di nascosto i loro capitali nei banchi feneratizi ebraici, minacciandoli che prima o poi sarebbero stati scoperti e puniti178.

Nel 1457 il comune di Siena intimò ai banchi ebraici di consegnare alle autorità la lista dei cittadini che nel contado avevano depositi “in sul presto”179.

A Firenze, dopo l’autorizzazione, voluta dal Cosimo il Vecchio de’ Medici, di concedere agli ebrei di aprire banchi feneratizi nel 1437, i depositi

176

Simonsohn, Apostolic See and the Jews, II, pp. 796-797, nota 675 (19 settembre 1430); pp. 788-789, nota 669 (3 maggio 1430); pp. 808-809, nota 686 (15 maggio 1432); Toaff, Gli ebrei a Roma, p. 144.

177 Toaff, Il vino e la carne, p. 294. 178 Toaff, Il vino e la carne, p. 294.

179 Toaff, Il vino e la carne, p. 295; S. Boesch Gajano, Il Comune di Siena e il prestito

ebraico ne secoli XIV e XV, in Aspetti e problemi della presenza ebraica nell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV e XV), Roma, 1983, pp. 214-215.

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presso i banchi ebraici fiorentini erano tassati nelle misura del 10 e del 12 per cento, ed era consentito l’anonimato.

Alla caduta dei Medici nel 1494, il riformatore savonaroliano Domenico Cecchi (1447-1531/32), chiese nel suo scritto Riformasancta et pretiosa per

conservatione della città di Firenze et pel ben comune, di espellere gli ebrei da

Firenze in quanto colpevoli di essere dei prestanome e di coprire con la loro attività finanziaria le speculazioni di molte famiglie cristiane fiorentine180.

È quindi più che evidente che capitali cristiani, non di origine commerciale (ma provenienti da altro tipo di accumulazione), venivano investiti nei banchi feneratizi di prestatori ebrei romani nell’Italia centro-settentrionale, utilizzando forse anche come prestanome ebrei che ufficialmente risultavano come investitori. L’attività creditizia di questi banchi era indirizzata anche verso clienti appartenenti alla stessa Curia romana, come nel caso di Mosè de Urbe, già familiare di Martino V, nonché feneratore a Viterbo, il quale insieme ad altri prestò una somma di 2.000 fiorini alla Camera Apostolica181, somma comunque di relativa grandezza che sta a dimostrare ancora una volta, a mio parere, i continui rapporti che ancora in pieno Quattrocento legavano gli ambienti di Curia ai prestatori ebrei di origine romana, a conclusione di un percorso iniziato già due secoli prima.

Dunque alla politica inaugurata dalla Curia già nel corso del XIII secolo, di conquista dei territorio dell’Italia centrale, si inserirono gli ebrei romani che fecero la comparsa sul mercato creditizio in ambito locale come prestatori nelle regioni dell’Italia centrale e settentrionale.

Costoro, anche se non possono essere assimilati al ruolo dei mercatores romani in Urbe potentens oppure Romanam Curiam sequentes182,certamente possono rappresentare un fenomeno simile, un’altra faccia della medaglia come