Ing. Di Marco Giuseppe
8. Gli effetti dell’inquinamento del suolo sulla vegetazione
La conservazione del suolo dipende in gran parte dal buon governo delle acque meteoriche che evita l’erosione. La presenza di acqua rappresenta un elemento di dinamicità nell’evolu-zione della struttura dei suoli, nonché un fattore di primaria importanza per le sue “esigen-ze” biologiche ed un componente fisico-chimico per un efficace svolgimento dei cicli biogeo-chimici. Sono proprio questi i primi ad essere inficiati dall’inquinamento. Inquinamento lega-to soprattutlega-to a grandi processi di combustione quali quelli delle centrali a carbone e ad idro-carburi per la generazione di energia elettrica, degli scarichi autoveicolari, degli impianti di riscaldamento ad uso domestico, delle industrie di sintesi chimica e di trasformazione. Nelle aree non ancora colonizzate da organismi viventi la dinamica dei processi di trasformazio-ne strutturale segue andamenti più irregolari, ed in ogni caso è esclusivamente dipendente da fattori abiotici (processi di erosione, dissoluzione o precipitazione di composti chimici, escur-sioni termiche, variazioni di volume o di stato di aggregazione della materia, ecc.) rispetto a quelli in cui siano presenti componenti biologici, la cui interazione tanto con i fattori chimico fisico ambientali quanto con le altre specie sviluppa meccanismi di omeostasi che impedisco-no ai cosiddetti “fattori limitanti” di assumere valori impedisco-non più compatibili alla sopravvivenza delle forme di vita che si trovano in quell’ecosistema. Tutto ciò rimane possibile a meno che lo stress che questo subisce, non sia di tale entità o comunque così prolungato nel tempo, da non poter essere controbilanciato dai processi omeostatici sviluppando alterazioni irreversi-bili che modificano più o meno drasticamente il suo andamento evolutivo.
Il classico andamento delle successioni ecologiche:
organismi pionieri →prato →aree arbustive →foreste è legato alla disponibilità ed alle pecu-liarità trofiche del substrato edafico, che risulta, a sua volta, fortemente condizionato dal carico di sostanza organica che le piante apportano al suolo sotto forma di lettiera e rizodeposizione. Tra la vasta gamma di sostanze costituenti i fiumi di combustione, i maggiori responsabili del-l’acidificazione delle deposizioni umide sono gli ossidi e/o anidridi dello zolfo (SO2), dell’a-zoto (NO ed NO2) e del carbonio (CO2), che sciolti nell’acqua atmosferica (in presenza di op-portuni catalizzatori) sviluppano gli acidi corrispondenti : H2SO4, HNO3, H2CO3, i quali dis-sociandosi liberano H+, responsabili della riduzione del pH. Va sottolineato che anche le for-me gassose dei sopra citati componenti ai quali vanno aggiunti l’ozono (O3) ed il perossia-cetilnitrato (PAN) possono incidere negativamente sugli ecosistemi terrestri, nell’area del so-prassuolo, dando vita a manifestazioni fitotossiche (ingiallimento e/o necrosi fogliare), fino ad arrivare alla morte dell’individuo.
La composizione chimica dei minerali primari e l’entità dei processi di erosione che essi su-biscono nel tempo, indirizza l’evoluzione di un suolo, unitamente alla colonizzazione biolo-gica. In generale quanto maggiore è l’entità dell’erosione tanto più un suolo risulterà assu-mere una tessitura grossolana, ovvero avere la sabbia quale componente prevalente ad es-sere caratterizzato da una riserva modesta di nutrienti (cationi di scambio), viceversa suoli poco erosi, presentano una prevalenza di grana medio-fine (argilla, limo) con elevato pote-re scambiatopote-re ed un notevole pool associato di cationi con funzione trofica.
Le specie vegetali mono e dicotiledoni tipiche di prati, sono caratterizzate da un rapido tur-nover, per questo necessitano di suoli poco inquinati e ricchi di nutrienti, in special modo ca-tioni alcalini, come pure i loro apparati radicali esplorano, in modo compatto, un volume si-gnificativo di suolo rilasciando ingenti quantità di secreti e cellule di sfaldamento che vengo-no mineralizzati ed unificati dalle popolazioni microbiche, con sviluppo di sostanza organi-ca stabile, la quale dà un contributo rilevante allo sviluppo di aggregati.
nu-trienti risulta ridotta e quindi meglio si adatta ai loro lenti turnover e crescita, condizione ti-pica degli ecosistemi che si approssimano o raggiungono lo stato di climax, ove esiste un’e-levata specializzazione di nicchia per l’utilizzo delle risorse trofiche.
Le specie di prato tendono a svilupparsi su suoli a tessitura fine, dove vi sono ingenti quan-tità di sostanza organica nell’orizzonte A, aventi un elevato potere tampone, un pH neutro o basico, una buona struttura, con elevata verificazione e ritenzione idrica e quali componenti biotiche (oltre alle specie vegetali) soprattutto batteri, nematodi, lombrichi e molluschi. L’introduzione delle energie ausiliarie, per la massimizzazione delle rese produttive, apporta alterazioni profonde alla struttura dei suoli ed alla loro biodiversità. L’intensa meccanizza-zione (aratura, erpicatura, fresatura…) frantuma gli aggregati favorendo la perdita di so-stanza organica per azione del vento e dei processi di ruscellamento od eluviazione pluvia-le, come pure per attivazione dei processi di decomposizione e mineralizzazione microbica per la migliore aerazione derivante dal rimescolamento e frantumazione dello strato superfi-ciale del suolo.
Il compattamento che subisce il suolo al passaggio dei pesanti veicoli che operano le lavo-razioni porta all’asportazione e alla riduzione di sostanza organica nell’orizzonte A, abbas-sando notevolmente il pH e rendendo il suolo fortemente acido, la vegetazione si presenta perciò con una copertura discontinua.
Inoltre un’ impoverimento del contenuto dei nutrienti di un suolo può, senza dubbio, produr-re condizioni di soffeprodur-renza trofica tanto agli apparati radicali che ai componenti della mi-croflora e delle faune edafiche. L’eccesso di idrogenioni mobilizza, inoltre, gli ioni alluminio (Al3+) che, laddove assunti dalle radici, sviluppano un intenso un effetto fitotossico; inoltre quell’ammontare di ioni Al3+che percola fino alla falda freatica, può contaminare gli ecosi-stemi acquatici adiacenti producendo stati di tossicità nelle specie sensibili.
9. Azioni di recupero ambientale
Le azioni di recupero ambientale determinano una riduzione delle alterazioni apportate al-l’ambiente in termini sia di singole componenti, che di quadro complessivo.
I punti cardini sui quali si basa qualsiasi azione di recupero ambientale sono: L’ambiente non è mai indifferente all’opera dell’uomo;
L’uomo è parte dell’ambiente e non se ne può estraniare.
Gli interventi di recupero ambientale sono finalizzati ad innescare processi evolutivi che nel tempo divengano autonomi, cercando di recuperare equilibri ecologici esistenti intorno all’o-pera, e riconducendo l’area interessata alla forma propria senza l’uso di tecnologie estranee all’ambiente.
Le diverse azioni di un intervento rientrano in due classi di riferimento: RIQUALIFICAZIONE AMBIENTALE
Si opera in tal senso quando non è più possibile riacquisire in senso naturalistico aree di grande valenza territoriale (scali ferroviari, aeroporti…..) eliminando esclusivamente le cau-se che hanno determinato il degrado.
RECUPERO AMBIENTALE
Sono interventi capaci di attivare l’evoluzione naturale di forme e vegetazioni autoctone me-diante modellamento morfologico.
Il recupero ambientale, di cui ci occuperemo maggiormente, può essere suddiviso in due grandi aree di azione:
RESTAURO/RINATURAZIONE(restoration)
Questi interventi ripropongono l’aspetto migliore della formazione vegetale, mediante elimi-nazione o messa a dimora anche di singoli esemplari arborei. L’areale su cui si fa riferimen-to è ben definiriferimen-to a livello spaziale e il disturbo/danno non ha compromesso riferimen-totalmente l’og-getto in questione;
RIPRISTINO
Quando l’obiettivo dell’intervento è quello di riproporre le forme e i tipi di vegetazione pre-senti in un determinato ambiente, prima che l’evento dannoso si fosse manifestato. È indi-spensabile in questo tipo d’interventi la riqualificazione del substrato (analisi della tessitura, struttura, chimismo…).
Alla base delle operazioni di recupero ambientale, vi sono la conoscenza della flora, e delle dinamiche vegetazionali.
Dall’interazione delle popolazioni vegetali e dal rapporto che esse instaurano con l’ambien-te si origina la vegetazione che possiede una del’ambien-terminata struttura verticale e orizzontale. Si è quindi in presenza di vegetazione solo quando la composizione floristica e la struttura so-no legate alle caratteristiche autoecologiche delle singole specie e alla disponibilità delle ri-sorse naturali.
In questo quadro si orientano gli interventi ambientali, che sono quindi degli interventi eco-logici di tipo naturalistico. Questi interventi contemplano evidentemente un basso contenuto tecnologico: non è infatti competenza delle discipline ingegneristiche recuperare la vegeta-zione di aree degradate tramite l’evoluvegeta-zione di cenosi affini a quelle presenti in condizioni naturali. È l’ecologia vegetale, scienza che studia l’evoluzione temporale e spaziale della ve-getazione, la disciplina che definisce i criteri in ambito di recupero ambientale in relazione alla vegetazione. In uno studio relativo al recupero ambientale si deve tener conto delle mo-dificazioni che nel tempo subiranno i componenti reintrodotti (flora) ed i componenti struttu-rali (vegetazione). È nelle competenze dell’ecologo vegetale stabilire quali siano le successio-ni vegetazionali preesistenti all’evento dannoso e quindi inserire quelle componenti che per-mettano all’ambiente di recuperare gli equilibri ecologici perduti.
Per questo, nel momento in cui si è difronte ad un bosco danneggiato dal fuoco che nel 90% dei casi risulta doloso, risulta imprenscindibile studiare, grazie alle carte della vegetazione qual’era la fisionomia di tale bosco prima del danno. E con ciò s’intende una check list della flora e diversi rilievi fitosociologici finalizzati alla comprensione della successione vegetazio-nale. Sarà inutile e economicamente svantaggioso il recupero ambientale attraverso la pian-tumazione di nuove essenze vegetali che non siano autoctone o che non rientrino negli stadi precendenti al fuoco della successione vegetazionale, si avrebbero solo ulteriori perdite a causa del mancato attecchimento delle specie alloctone, una perdita in valore paesaggistico in quanto le piantumazioni risulterebbero visivamente “estranee” all’area interessata, ed una eccessiva manutenzione da parte dell’uomo senza innnescare gli eventi naturali che la natu-ra ben conosce.
Alla fitosociologia ed all’ecologia vegetale, si affianca l’ingegneria naturalistica (un tempo denominata “bioingegneria forestale”), “disciplina tecnico scientifica che studia le modalità di utilizzo, come materiali da costruzione, di piante viventi, di parti di piante o addirittura di in-tere biocenosi vegetali, spesso in unione con materiali non viventi come pietrame, terra, le-gname, acciaio” (Schiechtl, 1991); nasce, quindi, come insieme di tecniche per mitigare l’ef-fetto di interventi e di opere di difesa idraulica ed idrogeologica e per migliorarne l’inseri-mento ambientale (paesaggistico ed ecologico) e aumentare l’efficacia dell’azione attraverso le caratteristiche biologiche delle piante utilizzate.
L’obiettivo generale dell’ingegneria naturalistica è quello di innescare negli ecosistemi dan-neggiati, processi evolutivi naturali che portino ad un nuovo equilibrio dinamico in grado di garantire una maggiore stabilità ed un miglioramento dei valori paesaggistici dell’ambiente in un quadro dell’aumento della complessità e della biodiversità dell’ecosistema.
Attraverso l’impiego di tecniche su base biologica possono essere perseguite molteplici fina-lità:
- finalità tecnico funzionali: si riassumono nelle azioni fisiche che le piante inducono sul suo-lo nel processo di consolidamento dei terreni sotto l’aspetto idrogeosuo-logico e delle funzioni di filtrazione dei solidi sospesi e degli inquinanti di origine diffusa (fitodepurazione ) eser-citata dalla vegetazione spontanea lungo le rive dei corpi d’acqua;
- finalità naturalistiche: attraverso la creazione o ricostruzione di ambienti naturali con inne-sco di ecosistemi mediante l’impiego di specie autoctone, che hanno tra l’altro maggior gra-do di attecchimento ed autonomia di accrescimento;
- finalità paesistica: essa consente un collegamento con il paesaggio circostante, non solo sot-to l’aspetsot-to estetico-visuale (panorama), ma anche ssot-torico culturale (palinsessot-to), entrambi importanti nella realtà italiana, che l’ingegneria naturalistica può contribuire a valorizzare; - finalità socio economiche: in quanto strutture competitive ed alternative di opere ingegneri-stiche di alto impatto, nonché motore del beneficio sociale legato alla gestione economica delle risorse naturali ed allo sviluppo dell’occupazione nelle aree collinari, montane e della pianura agricola;
- interventi di difesa dall’erosione: quali consolidamento di versanti instabili, riduzione dei processi erosivi superficiali dei suoli e consolidamento di alcune tipologie di fenomeni fra-nosi (es. gradonata, cordonata, palificata, grata viva, ecc.), interventi di drenaggio delle ac-que sotto-superficiali (es. con fascinate di drenaggio), difese elastiche delle sponde dei cor-pi d’acqua corrente e stagnanti, opere idrauliche e legate alla dinamica idraulica (es. dife-sa spondale con ramaglia, scogliera o gabbionata con talee, copertura diffudife-sa con astoni, rampa in pietrame);
- interventi di mitigazione dell’impatto ambientale e paesaggistico;
- interventi di ripristino e rinaturazione di ambiti territoriali degradati quali: cave, discariche, sistemazioni temporanee o permanenti di cantieri, tratte di aste torrentizie e fluviali, casse di espansione, bacini di deposito, creazione di nuove unità ecosistemiche in grado di au-mentare la biodiversità locale o territoriale, creazione di nuove strutture ambientali (reti e corridoi ecologici in grado di garantire la permanenza e la mobilità della fauna).
Quando siamo di fronte ad un progetto di restauro ambientale per la difesa idraulica e rina-turalizzazione di corsi d’acqua è necessaria:
• L’individuazione delle emergenze naturali dell’area e delle azioni necessarie alla loro conservazione, valorizzazione e manutenzione.
• L’individuazione delle aree in cui l’impianto di specie arboree e/o arbustive, nel rispetto della compatibilità col territorio e con le condizioni di rischio allu-vionale (nel caso di difesa idraulica), sia utile al raggiungimento dei predetti obiettivi.
• L’individuazione della rete dei percorsi d’accesso al corso d’acqua e di fruibi-lità delle aree e delle sponde.
In questo caso ci viene in aiuto la regolamentazione della lg. 431/85 in cui sono esplicitate tutte le norme di protezione di fiumi, torrenti e corsi d’acqua.
Vi è, a questo punto, l’esigenza di soffermarsi di più sul concetto di rinaturazione. Si tratta di un termine spesso utilizzato sotto diversi significati, che si rifanno generalmente alla restora-tion ecology; si ritiene utile, pertanto, citare alcune delle definizioni più comunemente usate anche all’estero, parte delle quali riprese da “Principles of conservation biology” (G.K.Meffe, C.R.Carroll,1994):
“Restoration”– restauro/rinaturazione: il termine restauro (restore) significa “riportare...al-l’origine o allo stato originario” (Webster’s New Collegiate Dictionary 1977). Il restauro eco-logico (ecological restoration) significa quindi “restaurare” un ecosistema o parte di esso. Re-storation è considerata generalmente una forma distinta di gestione ambientale, differente dalla “salvaguardia”, “conservazione” o “gestione” stessa. Pur non essendo possibile trac-ciare linee di demarcazione nette tra queste forme di gestione, in quanto tutte mirano a con-trastare i danni ecologici/ambientali conseguenti ad alterazioni causate dalle attività umane, ciascuna di esse sottolinea maggiormente un aspetto particolare: la prevenzione, anche pas-siva, del danno (salvaguardia); il recupero di un danno già avvenuto (restauro); la conserva-zione attiva di un sito, anche opponendosi alla sua evoluconserva-zione naturale, quando indesidera-ta (conservazione); interventi attivi volti a mantenere le caratteristiche di un sito (gestione con-servativa) o ad orientarne l’evoluzione verso un nuovo assetto (gestione orientata).
“Rehabilitation”– rivitalizzazione. Questo termine, dal significato ampio, può essere usato per descrivere gli interventi volti a ripristinare elementi di strutture o funzioni di un sistema ecologico, senza necessariamente porsi l’obiettivo di raggiungere completamente il suo “re-stauro” (restoration) come specifica condizione prioritaria; ne è un esempio la messa a di-mora di piante in un sito eroso.
degradate, ad esempio da attività minerarie, da discariche, da attività industriali dimesse; è anche riferito al recupero di aree precedentemente non produttive. La bonifica prelude spes-so ad un utilizzo produttivo dell’area; spes-solo talvolta può produrre piccole ricadute di rinatura-zione in senso pieno. Sebbene la bonifica non si ponga l’obiettivo della ricostrurinatura-zione del-l’ambiente originario, talora essa può essere un primo stadio verso il ripristino di un ecosi-stema naturale. Sfortunatamente le discipline della bonifica e della rinaturazione si sono svi-luppate più o meno indipendentemente; solo recentemente e in particolari ambiti (ad es. al-l’interno dei parchi naturali) la bonifica ha iniziato a considerare la rinaturazione come uno dei suoi possibili obiettivi.
“Ecological recovery” – ripresa ecologica o recupero ecologico. La ripresa é lasciata all’e-voluzione spontanea del sistema, generalmente nella speranza che si ripristino le caratteristi-che desiderate attraverso la successione naturale. Quest’approccio di “ordine zero” alla ri-naturazione può funzionare o no. Se ne sussistono le condizioni, può trattarsi del miglior re-cupero: a volte può essere utile favorire semplicemente il processo naturale.
La rinaturazione può essere estrema, con l’obiettivo di ripristinare le condizioni naturali pree-sistenti di un’area, o può essere parziale realizzata in funzione di obiettivi intermedi o speci-fici (es. ripristino della capacità di laminazione; riduzione della velocità di corrivazione; re-cupero della capacità autodepurativa; salvaguardia di specie di particolare pregio, ecc.). La rinaturazione e/o la rinaturalizzazione non vanno confuse con gli interventi di minimiz-zazione dell’impatto ambientale o d’inserimento paesaggistico, in quanto differiscono so-stanzialmente da essi per l’obiettivo principale: nella rinaturazione/rinaturalizzazione è il ri-pristino di caratteristiche ambientali (riqualificazione di un bosco o di una zona umida, rein-troduzioni di specie, interventi su habitat o specie rare, azioni di contenimento di specie al-loctone infestanti…) o della funzionalità ecologica (recupero della capacità di esondazione, ripristino della continuità ecologica, recupero della capacità autodepurativa di un corso d’ac-qua…), mentre la minimizzazione dell’impatto ambientale è soprattutto volta a ridurre l’im-patto ambientale o a migliorare l’inserimento paesaggistico di opere o interventi che hanno finalità diverse. Ad esempio il consolidamento di una scarpata con tecniche d’ingegneria na-turalistica ha uno scopo prevalente ben preciso – il consolidamento appunto - e non neces-sariamente un obiettivo di rinaturazione, quantunque sia evidente il vantaggio di utilizzare tecniche che consentono un inserimento ambientale adeguato e lo sfruttamento delle caratte-ristiche biologiche dei materiali vivi usati, piuttosto che utilizzare tecniche o materiali ad alto impatto ambientale.
Anche se spesso rinaturazione e rinaturalizzazione sono considerati sinonimi, vi sono voci autorevoli che le distinguono.
Dal momento che i due termini sono usati spesso in modo sostitutivo, può essere utile la se-guente precisazione. Rinaturazione significa letteralmente “creazione di nuova natura“, in si-ti ormai arsi-tificializzasi-ti; ha quindi un significato molto concreto di incremento della quansi-tità di natura presente su un dato territorio. Rinaturalizzazione significa più generalmente “aggiun-ta di caratteristiche di naturalità”, e può essere applicato anche a realtà non ecosistemiche, ad esempio il colore di un oggetto di legno.
In pratica, si usa rinaturalizzazione per interventi che si limitano a ricostruire una fisionomia (un aspetto) naturale – ad esempio una fascia vegetata - senza preoccuparsi di ricostruire l’habitat naturale potenziale di quel sito né di impiegare le specie autoctone ad esso appar-tenenti.
Si usa, invece, rinaturazione per interventi condotti con maggior rigore scientifico, partico-larmente attenti ad impiegare non solo specie autoctone, ma anche i loro ecotipi locali, e fi-nalizzate a costruire l’habitat potenziale del particolare sito oggetto dell’intervento. La rina-turazione è, dunque, quella che nel testo è definita “estrema”, mentre quella con obbiettivi più limitati è la rinaturalizzazione.
9.1 Un esempio concreto: la pineta di Castelfusano
Il 4 Luglio del 2000 ci fu un grande incendio nella pineta di Castelfusano, nei dintorni di Ostia (Rm), di origine dolosa (comprovato dal ritrovamento di scatole di latta contententi liquido in-fiammabile) che portò alla distruzione almeno di 300 ettari di macchia mediterranea.
Castelfusano ha potenzialmente una vegetazione di bosco di leccio, ma gran parte è stata piantata, a partire dal 1700, con pinete artificiali soprattutto di pino domestico (Pinus pinea), dando origine a un paesaggio monumentale che, ancorché fondamentalmente artificiale, aveva un enorme valore storico. In questo ambiente si aveva inoltre, grazie alla vetusta età dei pini, una grande ricchezza di specie animali, per esempio di uccelli. L’incendio ha inte-ressato proprio i circa 300 ettari della pineta monumentale, con pini di più di 100 anni, co-stituita da pini radi di grandi dimensioni e un folto sottobosco formato soprattutto dalle pian-te della macchia sempreverde medipian-terranea, come il leccio (Quercus ilex), l’erica (Erica mul-tiflora), l’alaterno (Rhamnus alaternus). Le aree a leccio non hanno subito invece praticamen-te danni, in quanto questa specie è molto meno infiammabile e considerata autoctona per questo molto più resistente, infatti i numerosi esemplari di leccio che erano ricresciuti nella pi-neta monumentale e che erano andati bruciati hanno originato dopo pochissimo tempo nu-merosi ricacci, mentre il pino non è riuscito a riprodursi da nuovo da polloni sotterranei e per questo è andato distrutto.
L’intervento di recupero si propone quindi di ripristinare contemporaneamente i valori più strettamente naturalistici e il paesaggio della pineta monumentale. Molte sono le piante