Prof. Manlio Maggi
2. Le teorie sociologiche del rischio
2.4 Il rischio territoriale
Il rischio territoriale può essere considerato un’area d’indagine particolare delle teorie prece-dentemente esposte in cui si può verificare la loro portata dal punto di vista pratico.
Il rischio in generale e quello territoriale in particolare hanno la caratteristica di presentarsi come un problema molto complesso e, in quanto tale, le variabili di riferimento devono esse-re considerate pluridimensionali. Per la stessa ragione un’appropriata analisi necessita del-l’apporto di approcci differenti sia da parte delle scienze esatte sia da parte delle scienze so-ciali (Grandori e Barberi, 1981). Un’indispensabile apporto dovrà essere dato dagli esperti della pianificazione territoriale e urbanistica. Soprattutto negli ultimi tempi le nuove conquiste tecnologiche se da una parte hanno consentito un relativo miglioramento del livello di vita del-la popodel-lazione in genere dall’altro hanno esposto del-la stessa a crescenti rischi e ciò è avvenu-to sia nei paesi industrialmente avanzati sia in quelli in cui vi è un livello economico minore. Tutto ciò ha portato ad una crescente domanda di sicurezza che se da una parte non potrà mai essere soddisfatta pienamente dall’altra ha rilevato l’insufficienza dei soli approcci tecni-ci (Menoni, 1997).
Il rischio territoriale si differenzia da altri tipi di rischio, come quello della salute, della pro-prietà, perché è dovuto ad un evento scatenante il disastro che si produce in un tempo e/o in uno spazio circoscritto, anche se gli effetti possono protrarsi nel tempo e diffondersi su un’a-rea assai più vasta di quella immediatamente colpita (Menoni, 1997).
Esempi di questo tipo particolare di rischio possono essere i rischi idrogeologici delle alluvio-ni, delle frane o i rischi determinati dal nucleare e dalle industrie chimiche. Questi ultimi ri-schi sono apparentemente di altra natura ma sono considerati importanti in questo ambito per le loro ripercussioni sul territorio e quindi sulla popolazione esposta ad essi.
All’interno dei rischi territoriali si possono distinguere gli “eventi catastrofici” dagli “eventi di natura strisciante”. I primi si differenziano dai secondi perché in essi è possibile distinguere un impatto, della durata di qualche secondo a qualche ora, in cui l’evento esplica la sua for-za distruttiva, una fase di emergenfor-za, nella quale si presta il soccorso alle vittime e si circo-scrive l’area colpita, una fase di ricostruzione o di ricostituzione della normalità (Menoni, 1997).
Come è stato osservato, per affrontare nel modo migliore un rischio territoriale risulta neces-sario avvalersi dell’apporto sia dei tecnici sia degli studiosi di scienze sociali. I primi illumi-neranno sulle azioni pratiche di intervento sia per ridurre il danno già avvenuto sia per pre-venirlo; i secondi, in particolare gli psicologi e i sociologi, porranno l’attenzione sugli atteg-giamenti sociali, sui modi di rendere partecipe la collettività alle decisioni in materia di rischi. Tra i due si collocheranno gli urbanisti e i pianificatori, i quali, a seconda della loro forma-zione e delle loro inclinazioni personali, opteranno più per un filone che per un altro. Per affrontare in modo appropriato un rischio esso deve essere inserito all’interno del suo con-testo spaziale e temporale. Nella delimitazione dell’area colpita si deve individuare un cuore del disastro, un’area di corona e un’area periferica. Oltre a queste aree del territorio diretta-mente colpito è necessario considerare le aree indirettadiretta-mente interessate dall’evento che ver-ranno comunque coinvolte perché destinate ad accogliere gli evacuati oppure per fornire i servizi necessari. Bisogna inoltre allargare l’area di impatto anche dal punto di vista tempo-rale prendendo in considerazione il periodo successivo al disastro, quello della rico-struzione (Menoni, 1997).
Spesso si parla di disastri solo quando succedono e ci si riferisce ad essi come a degli even-ti eccezionali così come la stessa terminologia mette in evidenza; molto di rado, invece, si considera la loro frequenza storica. Questo punto è stata posto in evidenza da Perrow in un suo libro del 1984 in cui mette in evidenza la natura “normale” di episodi accaduti nell’in-dustria chimica e nucleare. Questo discorso può essere efficacemente esteso anche agli “in-cidenti naturali” (Menoni, 1997).
La gestione dei rischi è stata da sempre affrontata solo quando vi è una situazione di emer-genza. Ciò ha comportato l’impiego di strumenti utilizzati nel momento in cui si è verificato l’evento e in un lasso di tempo limitato, utilizzando strumenti operativi, normativi e legislativi di emergenza.
Per affrontare meglio una situazione rischiosa, invece, risulta particolarmente utile la pianifi-cazione territoriale attraverso cui si predisporranno prima dell’evento dannoso le attrezzatu-re e i servizi per attrezzatu-rendeattrezzatu-re la fase di emergenza la meno dura e lunga possibile. Ciò viene fat-to su larga scala negli Stati Uniti: in quesfat-to paese sono state previste, in caso di disastro, del-le tappe ben precise da seguire attraverso la Fema (Federal emergency management agency). L’esistenza di un piano di intervento è indispensabile per il fatto che “…il bilancio delle vitti-me è direttavitti-mente proporzionale al grado di operatività del piano per la gestione dell’evitti-mer- dell’emer-genza” (Menoni, 1997, p. 61).
Per un’efficace definizione di rischio territoriale bisogna considerare diversi fattori, ovvero la pericolosità, l’esposizione e la vulnerabilità.
La pericolosità dipende strettamente da parametri specifici dipendenti dalle caratteristiche del fenomeno. Dal punto di vista della pianificazione territoriale si considerano tre ordini di gran-dezze: l’intensità, la frequenza e la localizzazione.
L’intensità di un evento è molto importante perché aiuta a rendere conto della sua entità e se-verità. Sarà importante sapere ogni quanto tempo il fenomeno raggiunge un’intensità preoc-cupante e/o in quali condizioni sia prevedibile il verificarsi di un evento di intensità superio-re alla normalità. Infine è importante calcolasuperio-re l’estensione geografica dell’asuperio-rea potenzial-mente esposta all’evento rischioso.
L’esposizione, invece, riguarda il numero di persone potenzialmente coinvolte e l’ammontare complessivo dei beni economici presenti nel territorio a rischio. Per rendere idea dell’impor-tanza di questo fattore basti pensare all’effetto disastroso dell’alluvione nel Piemonte nel 1994 a causa della forte antropizzazione dell’area colpita dall’evento.
L’ultimo fattore che definisce un rischio territoriale è la vulnerabilità dell’area coinvolta. Que-sto fattore può essere definito come il grado di capacità (o di incapacità) di un sistema di af-frontare e superare una sollecitazione esterna. Per specificare meglio il concetto risulta utile riferirsi alla vulnerabilità di un’impresa economica: essa sussiste quando il suo funzionamen-to e la sua sopravvivenza sono messi in discussione da avvenimenti aleafunzionamen-tori di origine uma-na o da fenomeni uma-naturali (Giarini e Luobergè, 1978). All’interno del concetto di vulnerabi-lità bisogna annoverare sia la vulnerabivulnerabi-lità organizzativa che quella sistemica: in questo mo-do si considereranno sia le strutture fisiche sia le organizzazioni sociali, che sono importanti per non isolare il rischio dal suo contesto territoriale. Per tale scopo risulta importante il
rife-rimento alla “Comunità a rischio”: essa si definisce per essere una collettività ben circoscritta dal punto di vista sociale e spaziale che comunica intorno al rischio, oltre ad essere esposta a realissimi fonti di rischio (per esempio per la vicinanza di una centrale nucleare o perché situata in un’area fortemente a rischio sismico).
Tale comunicazione ha “tre assi relazionali:
1. relazione tra comunità locale e fonte di rischio (rappresentazioni sociali ed azioni sociali inerenti alla materialità tecnologica o all’ambiente fisico natu-rale e/o costruito);
2. relazioni sociali intra-sistemiche (la società locale al suo interno);
3. relazioni inter-sistemiche” (la comunità comunica con altri sotto-sistemi socia-li esterni che possono essere istituzioni di regolazione, organizzazioni econo-miche, strutture associative, etc.)”. (Beato, in corso di stampa, p. 30).
A completamento del discorso fin qui svolto sul rischio territoriale ritengo necessario esporre un caso specifico riferito ad un tipo di rischio particolare: le alluvioni. In primo luogo si è ve-rificato che (Shah, 1980) nel periodo seguente alla Rivoluzione Industriale e ancora di più do-po la seconda guerra mondiale i disastri sono cambiati sia da un punto di vista qualitativo che da un punto di vista quantitativo. Infatti il numero assoluto delle vittime e l’ammontare dei danni provocati dalle alluvioni sono in continua crescita; inoltre prima gli eventi più catastro-fici erano i terremoti ora invece sono le alluvioni, le frane, gli uragani a causare maggiori danni sia in termini di vittime che in termini di danni alle cose. Da una parte infatti i terremoti sono sempre gli eventi più gravi per il bilancio di morti; dall’altra facendo una stima di tutte le alluvioni annuali nel loro insieme si è verificato che le alluvioni e gli uragani sono gli even-ti che implicano ogni anno il più alto numero di viteven-time e il bilancio economico più pesante. Di un evento catastrofico si deve fare una distinzione tra gli “eventi naturali” il cui verificarsi è indipendente dall’uomo (esempio tipico è il terremoto); ci sono poi i disastri provocati dal-l’uomo (per es., l’esplosione di un reattore nucleare); in ultimo ci sono gli eventi di interse-zione incerta in cui vi è un dubbio nell’attribuinterse-zione all’uno o all’altro alla responsabilità. Esempio di quest’ultimo tipo di evento sono le alluvioni e le frane che pur avvenendo in na-tura spontaneamente, sono rese più severe per intensità da alcuni interventi antropici. Que-sti interventi possono amplificare la portata dell’evento sia perché la forte antropizzazione dell’area crea maggiori danni rispetto ad un’area poco antropizzata, sia considerando gli in-cidenti tecnologici causati da disastri naturali (ci possiamo riferire ad essi con un acronimo inglese na-tech (natural-tecnological).
Una testimonianza di ciò è stata l’alluvione in Alto Egitto del 2 novembre 1994; in quel caso l’acqua fuoriuscita dal Nilo in prossimità di Assiut, ha veicolato le fiamme sprigionatesi da un deposito di petrolio colpito da un fulmine.
Un caso specifico a noi vicino può essere considerato l’alluvione in Piemonte del novembre 1994. Per quanto riguarda i danni materiali diretti causati dall’alluvione abbiamo il resoconto della cronaca: quasi cento morti, duemila senzatetto e danni per diversi miliardi alle cose. Per un’analisi dell’evento bisogna in primo luogo definire territorialmente l’area colpita: il cuore è rappresentato dalle aree più colpite in Piemonte, nella zona di Alessandria e di Asti; nella corona rientrano le aree piemontesi in cui i danni sono stati nettamente minori rientranti comunque tra i danni fisici diretti e le aree allagate in Lombardia; si deve inoltre considerare un’area periferica comprendente gran parte dell’Italia Settentrionale. In quest’ultima area vi sono stati dei danni sistemici: interruzioni di strade, di ferrovie, crolli di ponti etc., e danni fi-sici indotti dall’alluvione (quest’area si può estendere fino all’Adriatico dove sono apparse le Diatomee circa dieci giorni dopo il disastro a causa dei rifiuti tossici trasportati dal Po fino al-la foce).
In un primo momento si è cercato di affrontare gli effetti diretti, indotti e sistemici. La situa-zione è risultata particolarmente critica e, per giunta ha provocato ulteriori danni, per la man-canza di piani di emergenza e per la difficoltà di coordinamento tra i vari Enti pubblici, am-ministrativi e di volontariato intervenuti sul luogo.
Nella fase successiva all’emergenza è stata aperta un’indagine preliminare in cui si è cerca-to di individuare le responsabilità in materia di disastro colposo. Il giudice incaricacerca-to ha
po-sto in evidenza l’omissione dei Prefetti per aver sottovalutato le informazioni di peggiora-mento delle condizioni atmosferiche che avevano ricevuto pochi giorni prima del fatto. In questo caso sono utili le considerazioni della pericolosità di esondazioni nella zona. La pio-vosità, considerata all’epoca eccezionale, in realtà presentava una frequenza stagionale e delle frequenze a cicli ampi di anni o di decenni per i picchi di precipitazioni (vuoi in inten-sità vuoi in durata) (Menoni, 1997).
Si è constata anche una carenza nella preparazione dei piani di emergenza e tutta una se-rie di “errori storici” che fanno parte della ricostruzione della fase di incubazione del disa-stro. Questa fase è stata individuata nel momento in cui si è permessa l’esposizione di popo-lazione alle piene dei fiumi, ma anche a tutta una serie di interventi sulle condizioni fisiche del fiume che hanno amplificato la portata del danno. In particolare devono essere annove-rate tutta una serie di interventi di irreigimentazione, sottrazione continua di superficie al let-to del fiume, riduzione della capacità di drenaggio del suolo a causa di pratiche agricole e forestali inadeguate oltre ad una estensione sempre maggiore di aree edificate.
Questi fatti nell’insieme hanno aumentato la vulnerabilità dell’area coinvolta.
In questo caso quindi risulta abbastanza ostica la distinzione tra evento naturale (come sem-bra che sia ad un’analisi superficiale) e un evento indotto dall’uomo (se non altro per aver comportato un’amplificazione dell’entità dei danni).