• Non ci sono risultati.

Gli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla vegetazione

Ing. Di Marco Giuseppe

6. Gli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla vegetazione

L’inquinamento atmosferico è un problema prevalentemente a carico dei paesi ad economia industriale anche se esiste un certo trasporto veicolato dai movimenti del macroclima. La legislazione italiana definisce inquinamento atmosferico “stato dell’aria atmosferica con-seguente alla immissione nella stessa di sostanze di qualsiasi natura in misura e condizioni tali da alterare la salubrità dell’aria e da costituire pregiudizio diretto o indiretto per la salu-te dei cittadini o danno ai beni pubblici e privati”.

Si parla di inquinamento atmosferico diffuso quando sono interessate dall’evento inquinante grandi masse di atmosfera e gli effetti dell’inquinamento si manifestano su grandi estensioni territoriali, come ad esempio il caso delle piogge acide dovute all’aumento di SO2 nell’atmo-sfera, emessa da impianti industriali.

In questo caso non può essere applicato il principio della responsabilità previsto dalla legge 349/86, in quanto la relazione tra danno ambientale e fatto illecito risulta difficilmente ri-scontrabile.

Il più delle volte, composti di fluoruri, cloruri e idrocarburi hanno effetti dannosi nei confron-ti della crescita delle piante e si trasmettono alla vegetazione in modo diretto o per vie indi-rette attraverso il suolo.

In entrambi i casi si viene ad avere un decremento di quantità e qualità delle piante. Nel ca-so in cui l’agente inquinante venga trasmesca-so alla vegetazione attraverca-so il suolo, l’effetto dannoso viene causato dalla mancanza di nutrienti che sono stati asportati dalle precipita-zioni in quanto captati dalle sostanze contaminanti.

Si conoscono più di trecento sostanze che possono essere emesse nell’aria e che sono classifi-cate come agenti inquinanti, si aggiungono a questo numero anche sostanze meno conosciu-te. Vengono di seguito descritte le principali sostanze inquinanti dell’atmosfera con le relative sorgenti di emissione sottoposte a limiti di legge e le caratteristiche del danno arrecato 4.

Figura 1: Quando una perturbazione (inquinamento o altro stress) causa la deviazione dal normale andamento di una importante funzione ecosistemica, il grado della deviazione è una misura della resistenza, mentre il tempo ri-chiesto per ritornare alla posizione di equilibrio è una misura della resilienza. L’area sotto la curva è una misura re-lativa della stabilità totale (TS). (Secondo Leffler, 1978).

Gli inquinanti gassosi possono danneggiare la vegetazione attraverso vari canali: contami-nazione attraverso gli organi di assimilazione (necrosi, modificazioni biochimiche, assimila-zione ridotta con tutte le sue conseguenze), sedimentaassimila-zione di polveri sulle parti aeree, in par-ticolare nei confronti dell’apparato fogliare della pianta (riduzione dell’irradiazione solare, penetrazione di sostanze tossiche attraverso l’epidermide fogliare, trasporto di inquinanti al-l’interno della catena alimentare), polveri sottili che depositandosi per gravità o attraverso le piogge sul suolo, vengono assimilate dall’apparato radicale della pianta determinando fisio-patie (crescita ritardata, cambiamento del pH).

Gli effetti delle immissioni sulle piante dipendono dal tipo di inquinante preso in esame, dal-la concentrazione dello stesso, dal tempo di esposizione, daldal-la sensibilità deldal-la pianta, dallo stato fisiologico della pianta al momento dell’esposizione all’elemento inquinante, dalla di-sposizione delle piante e dei loro organi di assimilazione. La concentrazione dell’inquinante e la durata dell’esposizione sono i fattori più importanti nella determinazione degli effetti del-le immissioni.

È possibile individuare due tipologie di danno: danno riscontrabile ad una ispezione visiva dell’organismo vegetale colpito, che si manifesta con forme di necrosi, clorosi, sbiadimento, deformazioni fogliari e di altre parti della pianta, filloptosi (prematura caduta delle foglie), difficoltà di crescita dell’intera pianta e di quegli organi che hanno importanti funzioni di as-similazione; danno riscontrabile attraverso reazioni nel metabolismo vegetale, si evidenzia tramite il temporaneo decremento della fotosintesi, nel cambiamento della struttura della cel-lula vegetale, nel minore trasporto dei nutrienti. Ricerche su questi fattori sono state effettuate in Pinus sylvestris e Vicia faba con immissioni di SO2 o HF. 5

Da alcuni decenni è stato osservato, in particolare nell’Europa centrale e nel Nord-America, un diffuso stato patologico che colpisce estese aree boschive. Vennero ipotizzate delle cause legate al progressivo deterioramento delle condizioni ambientali ed in particolare all’aumen-to nella frequenza di precipitazioni con pH sensibilmente acido, tale fenomeno venne defini-to come pioggia acida. I sindefini-tomi sono evidenti in particolar modo sulle aghifoglie, meno sul-le latifoglie.

Picea abies: la parte apicale dell’albero mostra un arresto della crescita e i rami superiori appaiono affastellati in una massa globosa svuotata all’interno (nido di cicogna); gli aghi per-mangono sui rami per solo 3-4 anni anzinchè circa 10 anni come di regola.

Pinus spp. : aghi tipicamente ingialliti e presenti solo in un breve mazzetto all’apice dei rami; frequente tendenza alla formazione di ammassi privi di aghi così che la chioma risulta costi-tuita da rami ormai morti.

Fagus sylvatica: i rami apicali tendono a seccarsi, interrompendo la crescita normale della chioma; sono caratteristicamente incurvati ad artiglio e provvisti di numerosi getti laterali bre-vi che non arrivano a sbre-vilupparsi.

Ossidi di zolfo e altri Sistemi termici, processi Determina le piogge acide

composti dello zolfo industriali, incendi

HF, SiF4 Industrie produttrici di sostanze Tendenza alla formazione di aerosol,

contenenti F, industrie di ceramica effetti a corta distanza

Ossidi di azoto (NOx) Processi ad alta temperatura, industrie Formazioni diossidanti attraverso

chimiche, autoveicoli reazioni fitochimiche secondarie

Ammoniaca (NH3) Zootecnia, industrie produttrici Effetti del danno ambientale in aree

di fertilizzanti, trattamento dei rifiuti circostanti all’emissione

CO Gas di scarico delle automobili, Scarsi effetti sulla vegetazione

combustioni

H2S Processi chimici di trattamento dei Danneggia gli enzimi vegetali

liquami causando danni irreversibili

HCl, Cl2 Combustioni, lavorazioni con cloro Danni diffusi sulla vegetazione

Contaminante Sorgente di emissione Caratteristiche

Tabella 1: Schema riassuntivo delle fonti e delle caratteristiche dannose dei principali inquinanti gassosi

Quercus spp.: le foglie ingialliscono e cadono precocemente; si nota un anormale ritardo nel-la formazione delle foglie in primavera. In Quercus ilex il sintomo più appariscente è nel-la si-multanea entrata in fioritura di intere popolazioni; anche in questo caso le foglie di piante sof-ferenti seccano, in seguito si ha l’abscissione dell’intero rametto che le porta.

Le concentrazioni anche basse di SO2e HF per periodi lunghi determinano una diminuzione nell’accrescimento primario e secondario delle piante esposte ed inoltre la precoce caduta delle foglie nelle piante malate riduce fortemente la capacità fotosintetica dell’individuo, pre-giudicandone così la resistenza nei confronti dell’evento dannoso.

I componenti inquinanti che risultano dannosi per la vegetazione sono l’anidride solforosa e gli ossidi di azoto e risultano sicuramente attivi diversi metalli pesanti come cadmio, zinco, cromo, nichel e piombo: tra questi diversi inquinanti esistono sicuramente aspetti di sinergi-smo, che tuttavia è estremamente difficile quantizzare. Attraverso la deposizione di ossidi di azoto il terreno subisce un processo di eutrofizzazione che, per i sinergismi con gli altri in-quinanti, spesso provoca un ulteriore deperimento delle piante malate. In Italia, negli anni ’70, nelle pinete litoranee di Ravenna e San Rossore (Pisa), si verificò un’ingente moria di va-rie specie di pini (Pinus pinea, P. pinaster, P. halepensis). Certamente formazioni vegetazio-nali di grande importanza naturalistica e culturale. Il danno veniva identificato in un insieme di cause molto complesse (Gellini, 1987): le conifere si seccavano apparentemente a causa del sale marino immesso nell’atmosfera della fascia litoranea per effetto del frangersi delle onde, ma questa era una causa che agiva sull’ambiente già da millenni; la causa inquinante era costituita dalla presenza nell’aerosol marino di sostanze tensioattive che rendevano inef-ficaci i naturali meccanismi di difesa mediante il sistema stomi-cuticola nella pianta. È questo il caso in cui cause naturali e inquinamento costituivano un complesso sinergismo. L’interptazione macroscopica del fenomeno risulta chiara, mentre i reali meccanismi di questo ci re-stano ancora in parte oscuri.

Il Dlgs. 372/99, in materia di prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, enuncia diverse sostanze che, se emesse nell’atmosfera, generano danni a livello vegetale.

Ossidi di azoto

Queste sostanze tossiche, quando sono assorbite dalle piante, possono modificare il metabo-lismo dell’azoto. Studi condotti su piante di Pinus sylvestris con differente livello di deposizio-ni umide suggeriscono che le variaziodeposizio-ni dei livelli di glutamina e argideposizio-nina nei brachiblasti pos-sono essere utili bioindicatori dell’inquinamento da deposizioni azotate (Huhn et al., 1996). Un altro studio condotto in Germania su Picea excelsa con diverso grado di danno visibile ha suggerito che indicatori biochimici quali i livelli di clorofilla, amido, prolina, attività di fosfa-tasi acida e per ossidasi potrebbero essere utilizzati per evidenziare uno stress generalizza-to ma difficilmente correlabili a uno specifico fatgeneralizza-tore di stress (Godbold et al., 1993). Fluoro

È noto che alcune piante esposte a elevati livelli di fluoro sintetizzano fluoroacetil-CoA e lo convertono a fluorocitrato tramite il ciclo degli acidi tricarbossilici (TCA). Tale composto inibi-sce l’attività dell’enzima aconitasi bloccando il TCA e come risultato si ha l’accumulo di fluo-rocitrato (Ernst et al., 1994). È possibile, attraverso l’analisi dei livelli di fluofluo-rocitrato, in pian-te posizionapian-te in prossimità di popian-tenziali sorgenti di emissione di fluoro, otpian-tenere una rapida diagnosi del danno provocato.

Ammoniaca

L’NH3 provoca non solo variazioni nel metabolismo dell’azoto nelle piante, ma influenza an-che il loro bilancio acido-base.

Utilizzando coloranti fluorescenti e sensibili al pH (piranina ed esculina) è stato possibile mi-surare le variazioni di pH citoplasmatico e vacuolare in foglie di piante C3 (Pelargonium zo-nale) e C4 (Zea mays, Amaranthus caudatus) esposte per 30 minuti a concentrazioni di NH3 nell’aria da 1,3 a 8,3 µmoli NH 3 mole- 1 gas, alla luce o al buio e in presenza di diverse concentrazioni di CO2 (Yin et al., 1996). Pertanto l’analisi di queste variazioni può essere utilizzata per diagnosticare la presenza di NH3 nell’atmosfera.

Metalli pesanti

I metalli pesanti sembrano essere anche implicati nel fenomeno di degrado delle foreste ( fo-rest decline) negli Stati Uniti e in Europa a causa della loro presenza nelle deposizioni, ma fi-no a ora fi-non esiste evidenza diretta di un legame fisiologico tra danfi-no degli alberi ed espo-sizione ai metalli. In un altro studio recente, i livelli di fitochelatine sono stati utilizzati come bioindicatori specifici dell’esposizione a metalli pesanti in condizioni naturali. Infatti, i livelli di fitochelatine in aghi di Picea rubens, una specie in declino, sono più elevati che in quelli di Abies balsamea, una specie che non lo è. Inoltre, la concentrazione di tali peptidi aumenta con l’altitudine che a sua volta segue l’andamento del forest decline e aumenta nelle zone di foresta in cui il grado del danno degli alberi risulta crescente (Gawel et al., 1996). Anche se è necessario uno studio più diretto della relazione tra esposizione ai metalli pesanti, produ-zione di fitochelatine e crescita degli alberi per stabilire il grado di stress da metalli pesanti indicato dalla misura dei livelli di fitochelatine, questi risultati suggeriscono che i metalli sono probabilmente uno dei fattori che contribuiscono al degrado delle foreste del Nord-est degli Stati Uniti.

6.1 Utilizzo del biomonitoraggio nell’inquinamento atmosferico

Per gli studi di biomonitoraggio dell’inquinamento atmosferico gli organismi più utilizzati so-no i licheni (soprattutto quelli epifiti), vegetali dotati di particolari caratteristiche che permet-tono loro di essere buoni indicatori biologici e/o bioaccumulatori.

Il loro metabolismo, dipende prevalentemente da quanto presente in atmosfera: gli elementi nutritivi e i contaminanti atmosferici (sotto forma di gas, in soluzione o associati al particella-to) vengono assorbiti (ed eventualmente accumulati) attraverso tutta la superficie del tallo du-rante tutte le stagioni e nell’arco di molti anni.

Di conseguenza, l’alterato equilibrio tra l’alga e il fungo simbionti può portare a: • riduzione delle attività fisiologiche: l’anidride solforosa, per esempio,

interferi-sce su fotosintesi, respirazione, trasmissione di carboidrati tra alga e fungo; i metalli pesanti influenzano la fotosintesi solo a concentrazioni elevate; • alterazione della forma e del colore del tallo con la comparsa di parti

scolori-te, di macchie marroni, di zone necrotiche e col distacco di parti del tallo dal substrato;

• riduzione della fertilità: diminuisce il numero di propaguli vegetativi (soredi e isidi) e di corpi fruttiferi che raggiungono anche dimensioni inferiori;

• cambiamenti nella copertura esercitata dalle specie presenti con alterazione delle comunità licheniche. Generalmente le specie crostose sono più resistenti all’inquinamento rispetto a quelle fogliose e fruticose, perché presentano una minore superficie di scambio; molto resistenti sono anche i licheni idrorepel-lenti (acqua e sostanze disciolte vengono assorbite in quantità minore); • riduzione del numero di specie nel tempo e nello spazio. Numerosi Autori,

conducendo studi comparativi in periodi diversi, hanno constatato un decre-mento nel numero delle specie nelle zone in cui è avvenuto un peggioradecre-mento della qualità dell’aria. La diminuzione è stata riscontrata anche in diverse città procedendo dalla periferia verso il centro.

Negli studi di biomonitoraggio i licheni sono utilizzati come bioaccumulatori per individuare gli inquinanti in essi contenuti e misurarne la concentrazione oppure come bioindicatori per ricavare informazioni sulla qualità dell’aria mediante diverse tecniche, quali il calcolo degli Indici di Purezza Atmosferica (IAP) e degli indici ecologici, l’osservazione della distribuzione delle specie e delle comunità sul territorio o tramite il trapianto di talli lichenici.

6.2 Licheni come bioaccumulatori

Il metodo, basato sull’analisi qualitativa e quantitativa delle sostanze nei talli lichenici, per-mette di stimare il grado di diffusione degli inquinanti nell’ambiente, individuandone le fonti principali.

Molte specie licheniche sono in grado di assorbire e accumulare nel loro tallo contaminanti persistenti (che non si trasformano continuamente al variare di fattori ambientali, quali luce, temperatura ecc.), anche quando la loro concentrazione è così bassa da venire difficilmente misurata dagli strumenti convenzionali (Gasparo, 1994).

I licheni sono utilizzati per indagini su radionuclidi, zolfo, fluoro, idrocarburi clorurati, ma so-no impiegati soprattutto nel biomonitoraggio di metalli in aree urbane e industriali (Nimis et al., 1989; Nimis e Castello, 1990; Nimis, 1994). Questi ultimi provengono dalle attività che comportano la loro estrazione e lavorazione o derivano come sottoprodotto della combustio-ne di petrolio, carbocombustio-ne e scarichi urbani. Associati a particelle, polveri e fumi, vengono tra-sportati dal vento in diverse zone, creando problematiche sanitarie e ambientali per la loro eventuale tossicità (Guidetti e Stefanetti,1996). Alcuni (rame e zinco) sono pericolosi per l’uo-mo in quantità elevata, altri (cadmio, crol’uo-mo, mercurio, nichel, piombo) lo sono anche a bas-si livelli. La loro concentrazione in atmosfera varia a seconda dei ritmi di produzione, delle condizioni meteorologiche e della presenza di ostacoli antropici o naturali.

Gli studi di analisi quantitativa e qualitativa degli agenti inquinanti vengono condotti di nor-ma su una sola specie corticicola attraverso procedure di spettrofotometria, gascronor-matogra- gascromatogra-fia e con rilevatori di radioattività.

In Italia ultimamente sono stati condotti numerosi studi col metodo illustrato: un ruolo fonda-mentale hanno avuto le ricerche svolte in Veneto (Nimis et al. 1989, 1991) e in Liguria (Ni-mis et al., 1990). In particolare in quest’ultima indagine gli Autori, sulla base di dati forniti da centraline dell’Enel, hanno saggiato per la zona di La Spezia il valore predittivo dell’indi-ce rispetto alla anidride solforosa, evidenziando un’elevata correlazione tra l’Indidell’indi-ce di Pu-rezza Atmosferica (IAP) e le medie annue del 98° percentile di SO2. In base a tale correla-zione Nimis et al. (1991) nella regione Veneto hanno individuato 7 zone con livelli di inqui-namento da SO2 compresi tra il molto elevato e il trascurabile. (Dlgs. 372/99).

6.3 Le briofite come bioaccumulatori

Un organismo viene definito bioaccumulatore quando può essere usato per misurare qualita-tivamente e quantitaqualita-tivamente le concentrazioni di una sostanza.

Sfruttando le capacità delle briofite di assorbire e accumulare i contaminanti persistenti in basse concentrazioni, negli ultimi anni questi organismi sono stati impiegati nel monitoraggio di metalli pesanti, di solfuri e fluoruri e di idrocarburi clorurati. In particolare, i metalli pesanti sono componenti intrinseci della crosta terrestre e quindi possono essere naturalmente pre-senti nell’aria, nell’acqua e nel suolo in quantità molto basse. Queste minime quantità ven-gono sopportate molto bene dalla parte biotica dell’ecosistema, senza determinare conside-revoli modificazioni o danni. Tuttavia, il progressivo aumento delle attività umane che utiliz-zano i metalli, ha incrementato la concentrazione di questi elementi negli ecosistemi natura-li, minacciando la vita degli organismi viventi.

Questo metodo diretto per misurare la qualità dell’aria e dell’acqua può essere di due tipi: passivo e attivo. Il primo utilizza organismi naturalmente presenti nell’ecosistema indagato; il secondo, mediante il trapianto, immette l’indicatore biologico negli ambienti in cui è assente. Inoltre questo tipo di studio è possibile solo se la specie in esame possiede un’alta tolleranza alle sostanze tossiche permettendo così di rilevare le punte massime di inquinamento; inoltre deve possedere la capacità di accumulare le sostanze esaminate in misura indefinita. La pian-tina accumula le sostanze in maniera dipendente dalla concentrazione di queste nell’atmo-sfera o nell’acqua, e dal tempo di esposizione; quindi, a parità di concentrazione nell’am-biente, la contaminazione è più alta nel tallo più vecchio.

Per le determinazioni analitiche si utilizzano metodologie spettrofotometriche, gascromato-grafiche o rilevatori di radioattività.

Il tallo viene prelevato dal substrato, ripulito dai materiali estranei e analizzato: di esso si uti-lizza però solo la parte corrispondente all’ultimo anno di crescita e quindi all’ultimo anno di emissione di sostanze inquinanti. Il campione viene essiccato in stufa per 24 ore a una tem-peratura di circa 80-100°C, successivamente viene polverizzato mediante un mortaio di ce-ramica e infine mineralizzato a caldo utilizzando acido nitrico al 65% e acido perclorico al 70%. A questo punto è possibile determinare nei campioni le diverse concentrazioni di

me-talli pesanti per mezzo della spettrofotometria ad assorbimento atomico con sistema di ato-mizzazione a fornetto di grafite.

Una specie frequentemente utilizzata come bioindicatore di accumulo di metalli pesanti in am-biente terrestre, mediante biomonitoraggio passivo, è il muschio Hypnum cupressiforme. Questa specie, oltre a essere ubiquitaria e quindi facilmente reperibile sia in ambiente natu-rale che urbano, mostra una notevole capacità di resistenza agli agenti inquinanti, in parti-colare ai metalli pesanti.

La metodologia del biomonitoraggio attivo si sta invece progressivamente affermando negli studi sulla contaminazione degli ecosistemi acquatici, in quanto, oltre ai compartimenti abio-tici (acqua e sedimenti), vengono sempre più frequentemente presi in considerazione anche quelli biotici (organismi vegetali, fra cui le briofite, e animali).

Viene definito bioindicatore un organismo che risponde con variazioni identificabili del suo stato a determinati livelli di sostanze inquinanti.

Le briofite presentano tutte le caratteristiche di un buon indicatore e numerosi studi hanno per-messo di identificare i più evidenti tipi di risposta a situazioni di inquinamento.

Riduzione della fotosintesi e della respirazione per danneggiamento della clorofilla. Ricerche condotte sul terreno e in laboratorio hanno dimostrato che l’anidride solforosa è il principale inquinante che interessa su larga scala le briofite. I processi più colpiti sono la fotosintesi e la respirazione. La diversa sensibilità delle specie muscicole all’anidride solforosa è imputabile a diversi fattori: superficie disponibile per gli scambi gassosi e dunque per l’assorbimento del-l’anidride solforosa; velocità di idratazione e idro-repellenza del tallo, attività metaboliche, pH e capacità tamponante del substrato sul quale la specie normalmente si sviluppa. I danni indiretti si verificano a causa dell’azione acidificante delle piogge e delle nebbie; la SO2 in-fatti determina la riduzione della capacità tamponante e di conseguenza del pH del substra-to; infine altera gli equilibri delle forme ioniche generate dall’anidride solforosa in soluzione acquosa, con danni alla clorofilla.

I danni diretti riguardano l’azione diretta della SO2 sui muschi, che causa una riduzione del-l’attività fotosintetica, danneggiando la clorofilla. Anche i metalli pesanti, come il piombo, ri-ducono fortemente la fotosintesi.

Riduzione della vitalità e fertilità della specie. È causata prevalentemente dai metalli pesanti; man mano che ci si avvicina alle sorgenti inquinanti, si assiste a un progressivo peggiora-mento delle condizioni di salute della specie, e in particolare a una diminuzione della sua fer-tilità, in funzione del tempo di esposizione e dell’avvicinamento alla fonte inquinante. Riduzione della copertura e del numero totale delle specie nel tempo e nello spazio.

L’inquinamento da metalli pesanti ha anche effetti nocivi sulla copertura della specie e sul nu-mero totale delle specie. Studi floristici, effettuati a distanza di anni sullo stesso territorio,