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Gli strumenti giuridici nel panorama internazionale

3.1 Gli strumenti giuridici nel panorama internazionale

Il principale documento del diritto internazionale emanato per rispondere al problema della discriminazione nei confronti delle donne è la “Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna” (CEDAW), adottata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 3 settembre 1981, firmata dall’Italia il 17 luglio 1980 e ratificata con legge del 14 marzo 1985, n.132.

La Convenzione definisce all’articolo1 l’espressione "discriminazione nei confronti della donna” come

“Ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, o il godimento o l'esercizio, da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l'uomo e la donna”.112

Inoltre riconosce e specifica le cause sociali degli agiti discriminatori, che identifica all’art. 5

“Negli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne...nei pregiudizi e nelle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno e dell'altro sesso o sull'idea dei ruoli stereotipati degli uomini e delle donne”.113

La Convenzione sottolinea perciò, tenendo “presente l’importanza del contributo delle donne al benessere della famiglia ed al progresso della società, che finora non è stato

112“Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna”, p. 7.

Consultabile all’indirizzo http://www.unicef.it/doc/2033/pubblicazioni/convenzione- sulleliminazione-di-tutte-le-forme-di-discriminazione-nei-confronti-della-donna.htm (Consultato il 10/09/2018)

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pienamente riconosciuto...”114,il ruolo della cultura nel processo discriminatorio,

ritenendo doveroso superare la tradizionale divisione di ruoli concepita nei secoli a sfavore delle donne ed enfatizzando dunque il ruolo primario dell’educazione nel contribuire a confermare o meno il modello socio-culturale dominante.

Ciononostante, la suddetta Convenzione non si riferisce apertamente al fenomeno della violenza proibendo le condotte violente ma si configura come “un generale impegno da parte degli stati contraenti al fine di reprimere, in ogni sua forma, il traffico e lo sfruttamento della prostituzione delle donne (art.6)”.115

Questa lacuna è stata in parte colmata dalla Raccomandazione n.19 del 1992 emessa dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne costituito nel 1982, composto da sole donne (eccetto in un caso) esperte in tema di diritti per le donne “con il compito di verificare lo stato di applicazione delle norme contenute nella Convenzione”.116

Tale Raccomandazione ha chiarito che

“Tutte le forme di violenza sono da intendersi ricomprese nella definizione di discriminazione di cui all’art.1 della CEDAW, dai cui articoli discende l’obbligazione degli Stati contraenti di proteggere le donne dalla violenza, intesa quale forma di discriminazione di genere, nonché di fornire complete informazioni sul problema e sulle misure adottate per fronteggiarlo”.117

Attraverso questa raccomandazione, si è pertanto sancita la relazione tra discriminazione e violenza: la violenza è una forma di discriminazione di genere e la discriminazione è la principale causa di violenza sulle donne.

114Ibidem

115Morrone F., “La violenza contro le donne migranti, tra strumenti normativi di cooperazione e prassi

internazionale”, Diritti umani e diritto internazionale, vol. 7, gennaio-aprile 2013, n.1, pp. 57-58

116Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne. Consultabile all’indirizzo

http://dirittiumani.donne.aidos.it/bibl_3_attori/a_organi_trattati/c_comit_cedaw.html

117Boiano I., “Il riconoscimento dello status di rifugiato e le persecuzioni sulla base del genere”.

Consultabile all’indirizzo https://www.torrossa.com/resources/an/2934368 (Consultato il 15/01/2019)

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Il documento tuttavia non mostra attenzione particolare nei confronti di alcuni gruppi di donne potenzialmente più vulnerabili, come le donne migranti.

Con la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne” (risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993) per la prima volta viene fornita una chiara definizione del concetto di violenza e una comprensione delle forme in cui la violenza può esprimersi (art.1 e art.2).118

Nella Dichiarazione si afferma che

“La violenza contro le donne costituisce una violazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle donne e danneggia ed annulla il godimento da parte loro di quei diritti e libertà… la violenza è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne”.119

La violenza contro le donne viene quindi considerata come un prodotto dei rapporti sociali che hanno contribuito al processo discriminatorio degli uomini verso le donne

118Articolo 1 della Dichiarazione: “Ai fini della presente Dichiarazione l’espressione “violenza contro

le donne” significa ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

Articolo 2”La violenza contro le donne dovrà comprendere, ma non limitarsi a, quanto segue: a) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento; b) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata; c) La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo Stato, ovunque essa accada”.

119“Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne”. Consultabile all’indirizzo

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e tale discriminazione diventa perciò un fattore che contribuisce a rendere la donna maggiormente esposta a subire forme di violenza.

Il documento riconosce inoltre che alcune categorie di donne, come le donne migranti, le rifugiate, le appartenenti a gruppi minoritari, le donne coinvolte in situazioni di conflitto armato, le indigenti ecc... sono particolarmente vulnerabili a fenomeni di violenza.

Nonostante ciò, il problema della doppia vulnerabilità a cui è sottoposta la donna migrante è solo resa presente alla comunità internazionale attraverso la sopra citata dichiarazione senza approfondire quali forme di tutela sia possibile porre in essere a favore delle donne straniere.

Una maggiore attenzione alle donne migranti come soggetti più vulnerabili la si può trovare nella “Piattaforma d’azione della IV Conferenza mondiale sulle donne” tenutasi a Pechino del 1995, in cui all’articolo 116 e 117 vengono identificati i gruppi di donne “particolarmente vulnerabili alla violenza”120 mentre all’articolo 123 viene

affrontato il problema del traffico di esseri umani.

La Conferenza invita così le istituzioni a

“Dar vita a servizi linguisticamente e culturalmente accessibili per le donne emigranti e le bambine, incluse le donne lavoratrici emigranti, che sono vittime di violenza provocate da discriminazione sessuale; (c) Riconoscere la vulnerabilità alla violenza e ad altre forme di abuso delle donne emigranti, incluse le donne lavoratrici emigranti,

120 “Piattaforma d’azione della IV conferenza di Pechino”. Consultabile all’indirizzo

http://sociale.regione.emilia-romagna.it/documentazione/pubblicazioni/guide/quaderni-del- servizio-politiche-familiari-infanzia-e-adolescenza/1.-istituzioni-e-violenza p. 29

Art.116: Alcuni gruppi di donne, come ad esempio le donne che appartengono a minoranze, le rifugiate, le emigrate, le donne che vivono in condizioni di povertà in comunità rurali o isolate, le donne rinchiuse in situazioni o in centri di detenzione, le figlie, le donne disabili, le donne anziane e le donne in situazioni di conflitto armato, sono particolarmente vulnerabili alla violenza.

Art.117: Le donne profughe, rimpatriate, lavoratrici emigranti, le donne che vivono in condizioni di povertà e donne che vivono in aree sotto occupazione straniera o dove si verificano atti di terrorismo sono anche particolarmente vulnerabili alla violenza

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il cui stato legale nel Paese ospitante dipende dai datori di lavoro che possono sfruttare tale situazione...”.121

La Conferenza esorta tali istituzioni (art.127) ad

“Adottare misure speciali per eliminare la violenza contro le donne, particolarmente quelle in situazioni di vulnerabilità, come le donne giovani, le rifugiate, le profughe all’interno del proprio Paese, le donne disabili e le donne emigranti, inclusa la applicazione delle leggi per le donne lavoratrici emigranti sia nei Paesi di origine sia in quelli di destinazione 122

Sollecita infine (art.131)

”I Governi dei Paesi di origine, transito e destinazione, dalle organizzazioni regionali e internazionali, secondo le circostanze ad

Allocare risorse per fornire programmi creati per assistere le vittime del traffico di donne per la formazione professionale, l’assistenza legale e sanitaria confidenziale, e prendere le misure necessarie per cooperare con le organizzazioni non-governative, e fornire aiuto sociale, medico e psicologico alle vittime del traffico di donne”.123

In ambito Europeo, il primo documento ufficiale che affronta il tema della violenza contro le donne è la “Risoluzione sulla violenza contro le donne” del 1986,124 la cui

“impostazione rimarrà costante ogni volta che in sede di Parlamento o di altri organismi dell’Unione si affronterà il tema della violenza contro le donne”.125

121Ibidem

122Ibidem 123Ibidem

124“Risoluzione sulla violenza contro le donne”, UE, DOC. A2-44/86, 11 giugno 1986. Consultabile

all’indirizzo http://sociale.regione.emilia-

romagna.it/documentazione/pubblicazioni/guide/quaderni-del-servizio-politiche-familiari- infanzia-e-adolescenza/1.-istituzioni-e-violenza, p. 71

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La violenza contro le donne viene considerata, da qui in avanti, una violazione dei diritti umani e un problema complesso alla cui origine ci sono una seria di cause che interagiscono tra di loro.

Si concepisce inoltre che la violenza si manifesta in varie forme, pertanto gli interventi da porre in essere devono essere molteplici e devono poter incidere in vari ambiti. Per citare un esempio, nel caso della donna migrante la dimensione amministrativa del permesso di soggiorno è una variabile molto importante che incide sulla propensione della donna a denunciare o meno il maltrattante.

Diventa necessario intervenire dal punto di vista del diritto amministrativo nella regolazione del permesso di soggiorno oppure intervenire circa i criteri di espulsione/ respingimento al fine di garantire una reale tutela per la donna straniera, la quale potrà, sentendosi maggiormente sicura e meno vulnerabile circa il suo status giuridico, procedere, per esempio, penalmente contro il soggetto maltrattante.

L’Unione Europea, mediante la Risoluzione, è consapevole circa la vulnerabilità delle donne appartenenti a gruppi di minoranza, quali donne migranti o mogli di lavoratori migranti, esprimendosi in tal senso a favore delle stesse all’articolo 24 lettera b e successivamente all’articolo 44 in cui viene ribadito “la necessità che venga riconosciuto il diritto del singolo a ottenere permessi di soggiorno in quanto la condizione giuridica della donna migrante non può dipendere da quella del marito o del padre”.126

In merito a questo punto, successivamente si tratterà come la legislazione italiana ha recepito tale indirizzo introducendo l’articolo 18-bis nel Testo Unico in materia di immigrazione.

Un altro punto importante della Risoluzione lo si trova all’articolo 48, in cui viene affrontata una lacuna nella legislazione degli Stati membri circa i criteri per invocare la protezione internazionale, alla luce della Convenzione di Ginevra del 1951, da parte delle donne che subiscono violenza sessuale.

Gli Stati non contemplavano la persecuzione basata sul sesso come una delle ragioni per richiedere tale protezione, pertanto la risoluzione invita gli Stati membri a

126Ibidem

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riconoscere che la violenza sessuale nei confronti della donne è riferibile ad una “persecuzione per appartenenza a un particolare gruppo sociale”.127

Le donne vittime di violenza sessuale hanno quindi i requisiti per acquisire lo status di profugo e la richiesta di asilo dovrebbe essere esaminata da personale femminile. La Risoluzione si esprime anche in merito alla tratta degli esseri umani, invitando i governi ad adottare

“Una dichiarazione in cui si annunci un’azione comune in materia di lotta contro la tratta delle donne che preveda, in via prioritaria, programmi preventivi volti a creare possibilità alternative di reddito per le donne (e quindi anche per le loro famiglie) e il ricorso all’azione penale contro coloro che praticano la tratta delle donne”,128

Auspicando inoltre che vengano create strutture assistenziali per tali vittime al fine di metterle in protezione contro eventuali azioni ritorsive.

Il documento contempla inoltre la necessità per le donne vittime di tratta di poter sporgere denuncia senza essere soggette a provvedimenti di espulsione qualora le stesse fossero in una posizione giuridica di irregolarità nello Stato di riferimento. Ai fini del presente elaborato, questa dimensione è molto importante, perché rappresenta uno dei fili conduttori di tutto il percorso che si sta affrontando, il pendolo che oscilla tra la protezione della donna, il rispetto dei diritti umani e il “diritto della sicurezza” dello Stato Sovrano e il correlativo potere amministrativo, in questo caso, di espulsione.

Durante gli anni ‘90 il Consiglio d’Europa, sulla scia della CEDAW ha adottato una serie di raccomandazioni e risoluzioni che chiedono norme giuridicamente vincolanti “in materia di prevenzione, protezione contro la repressione delle forme più gravi e diffuse di violenza di genere”.129

La cosiddetta Convenzione di Istanbul, ovvero la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la

127Ibidem

128Ibidem

129ISTAT, “La violenza dentro e fuori la famiglia”, anno 2014. Consultabile all’indirizzo

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violenza domestica”, firmata a Istanbul l’11 Maggio 2001 e ratificata in Italia con la Legge n. 77/2013 è considerata “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza”,130 nello specifico nella fattispecie della violenza

domestica. La Convenzione

“Rappresenta un momento importante di presa di coscienza politica e giuridica sia delle profonde radici culturali della violenza di genere, inclusa la violenza domestica, sia del carattere transculturale di un fenomeno che è diffuso trasversalmente in molti paesi. Sotto entrambi i profili la Convenzione di Istanbul segna indubbiamente una tappa significativa in un percorso che, purtroppo, si prospetta ancora lungo e difficile”.131

La violenza contro le donne, così come affermato dalla Convenzione, “rappresenta una manifestazione delle relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne ed è un meccanismo sociale che le costringe ad occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini”.132

La convenzione, all’articolo 3, riprendendo la definizione contenuta della Dichiarazione delle Nazioni Unite, definisce l’espressione di “violenza nei confronti delle donne” come

130https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/750635/index.html?part=dossier_dossier1-

sezione_sezione2-h2_h22

131Parolari P., “La violenza contro le donne come questione (trans)culturale. Osservazioni sulla

Convenzione di Istanbul”, in Diritto e questioni pubbliche, 2014 Consultabile all’indirizzo www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2014_n14/25-studi_Parolari.pdf pag.863

132“Convenzione del consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti

delle donne e la violenza domestica”. Consultabile all’indirizzo http://www.gazzettaufficiale.it/do/atto/serie_generale/caricaPdf?cdimg=13A05789000000101100 02&dgu=2013-07-02&art.dataPubblicazioneGazzetta=2013-07-

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“Una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita”.133

Gli obiettivi della Convenzione, elencati nell’articolo 1, sono quelli di

 Prevenire, perseguire ed eliminare ogni forma violenza contro le donne;  Di eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e favorire

l’uguaglianza tra i generi;

 Di individuare una serie di politiche e misure di protezione e assistenza a favore delle vittime di violenza (e di violenza domestica);

 Di promuovere la cooperazione internazionale e di sostenere le organizzazioni e autorità competenti a collaborare adottando un approccio integrato al fine di eliminare la violenza contro le donne.134

L’intento è di definire di un approccio integrato volto alla prevenzione, protezione delle vittime e la punizione degli autori del reato obbligando gli Stati Parti ad adottare politiche in grado di promuovere dei cambiamenti negli atteggiamenti e nei modi di pensare delle persone.

Il capitolo IV della Convenzione tratta specificamente il tema della prevenzione della violenza contro le donne e della violenza domestica, chiedendo agli Stati di adottare idonee misure legislative utili a tal scopo ovvero ad educare e sensibilizzare i membri della società con lo scopo di favorire i necessari “cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini...” (art. 12.1).

133Ibidem

134“Convenzione del consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti

delle donne e la violenza domestica”. Consultabile all’indirizzo http://www.gazzettaufficiale.it/do/atto/serie_generale/caricaPdf?cdimg=13A05789000000101100 02&dgu=2013-07-02&art.dataPubblicazioneGazzetta=2013-07-

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Mettere in luce il carattere strutturale delle discriminazioni basare sul genere consente infatti di

“Considerare la violenza domestica e di genere non più come una “questione privata” ma come un problema politico. E permette di delegittimare i tentativi di circoscrivere il fenomeno all’ambito della devianza e/o della patologia di chi compie atti di violenza, facendo emergere la connessione strutturale tra discriminazione e violenza entro un modello sociale in cui la costruzione dei ruoli di genere risponde a logiche di potere asimmetriche”.135

Questa visione strutturale della violenza permette di non giustificare forme di violenza basate sulla cultura, sulla religione o sul delitto di onore.

Il capitolo VII della Convenzione tratta il tema specifico delle donne migranti irregolari e delle richiedenti asilo (art.59-61).

Di fatti, il Comitato individuato ad hoc per elaborare il testo della Convenzione, “ha osservato che tali categorie, indipendentemente dallo status legale, dai motivi che inducono all’abbandono del proprio Paese di origine e dalle condizioni di vita, sono maggiormente esposte alla violenza di genere”.136

Le disposizioni del suddetto capo, pertanto, propongono un approccio gender-sensitive, con l’obiettivo di tutelare le donne migranti e le richiedenti-asilo vittime di violenza. L’articolo 59.1 della Convenzione prevede che la donna, in caso di scioglimento del matrimonio o di una relazione, il cui status di residente dipende da quello del coniuge o partner, qualora versasse in condizioni di difficoltà, può richiedere un permesso di soggiorno autonomo, indipendentemente dalla durata della relazione di coppia. In merito a questa disposizione, il Comitato riconosce che sono molti i

“Casi di violenza che le donne migranti o le richiedenti-asilo sono costrette a subire tra le mura domestiche, il cui verificarsi potrebbe condurre alla dissoluzione del

135 Ibidem

136F.,Morrone,“La violenza contro le donne migranti, tra strumenti normativi di cooperazione e prassi

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matrimonio o del legame giuridicamente riconosciuto e, quindi, alla perdita del relativo permesso di soggiorno della migrante”.137

Tale disposizione permetterebbe alle donne migranti di ricevere un’adeguata protezione senza correre il rischio che maltrattante possa rivalersi su di loro.

L’articolo 59.2 della Convenzione riconosce alla donna migrante la possibilità di avere un permesso di soggiorno autonomo da quello del coniuge o partner quando quest’ultimo è soggetto a un provvedimento di espulsione che determinerebbe di conseguenza il rimpatrio anche della consorte.

La Convenzione impone agli Stati Parti di sospendere la procedura di allontanamento e di riconoscere, conformemente alla propria legislazione nazionale, il sopra citato permesso di soggiorno autonomo.

L’articolo 59.3 della Convenzione individua i casi in cui il permesso di soggiorno autonomo è rinnovabile: quando l’autorità competente ritiene che la permanenza nello Stato sia importante per la salvaguardia della donna e quando la permanenza della stessa sia di ausilio, alle autorità competenti nelle fasi di indagine o di procedimento penale.

In materia di asilo risulta particolarmente significativo l’articolo 60 della Convenzione che individua nella violenza di genere una forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e obbliga gli Stati