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2. Fonologia e memoria

2.1.1. Grain size theory e l’ipotesi della profondità ortografica

I fonemi vengono trascritti attraverso segni grafici che sono denominati grafemi, i quali sono gli elementi che costituiscono gli alfabeti delle varie lingue. Il rapporto

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tra fonemi e grafemi non è quasi mai univoco, in altre parole la maggior parte dei grafemi non si leggono sempre allo stesso modo, ma spesso la loro realizzazione fonetica cambia a seconda del contesto in cui si trovano. Per fare un esempio, in italiano il grafema “c” può avere due realizzazioni fonetiche: [ʧ] nella parola “ciao” e [k] nella parola “coro”. In inglese, ci sono ancora più possibilità di corrispondenza tra fonemi e grafemi, si pensi ad esempio alle seguenti parole: leg, head, friend, guest, says, said, bury; sono accumunate dal fonema /e/ che però graficamente viene realizzato in ben sette modi differenti.

Ogni lingua ha un sistema più o meno complesso nel rapporto tra grafemi e fonemi, e dal momento che le lingue del mondo utilizzano sistemi di scrittura e ortografie diversi, si possono classificare a seconda del tipo di associazione tra lettera e suono. Questa distinzione, che vedremo nel dettaglio più avanti, viene definita profondità ortografica. Sembrerebbe che i processi alla base della decodifica scritta siano pressoché universali, ciò che varia riguarda, invece, la fonologia e l’ortografia, a seconda delle diverse lingue.

Per quanto riguarda le variabili fonologiche, gran parte della ricerca psicolinguistica ritiene che a prescindere dalla lingua, le fasi di sviluppo della consapevolezza fonologica siano uguali per tutti. Una delle teorie più influenti sull’apprendimento della lettura in prospettiva cross-linguistica è la cosiddetta Grain Size Theory proposta da Ziegler e Goswani nel 2005, che parte dall’assunto che sia necessario indagare come avviene lo sviluppo meta-fonologico nelle diverse lingue ai vari livelli (dalla sillaba al fonema) che sono comuni a tutte le lingue. Questa teoria si fonda sulla constatazione che il cervello umano non è programmato per leggere, quanto piuttosto per comprendere i messaggi della comunicazione orale; perciò, il cervello si serve del processing fonologico anche nell’imparare a decodificare il testo scritto. Secondo Paulesu et al. (2001) tutti gli esseri umani hanno sviluppato un’area del cervello dedicata all’analisi visiva della forma delle parole, connessa con l’area dell’analisi fonologica. “Grain size” indica la dimensione della relazione tra ortografia e fonologia, in altre parole indica il numero di lettere che corrispondono ad una unità fonologica. Perciò questa grain size varia dal grafema al fonema, attraverso la rima a livello lessicale. Infatti, lo

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strutturalista americano Hockett (1955) ha individuato dei costituenti nella struttura sillabica, che sono l’onset7, il nucleo e la coda. Poiché il modello sillabico postulato è di tipo gerarchico, il legame tra il nucleo e la coda, che viene chiamato rima, è superiore a quello dell’attacco. Per cui i suoni singoli sono rappresentati dai grafemi, che consistono di una o più lettere. Le sillabe delle parole formano l’attacco, ovvero la consonante iniziale o il gruppo di consonanti, e la rima, la parte finale.

Per quanto riguarda il livello sillabico, ciò che cambia cross-linguisticamente è la struttura sillabica più frequente: ad esempio, in lingue come l’italiano, lo spagnolo e il cinese, quella che troviamo più spesso è la struttura CV, mentre in inglese troviamo strutture più complesse come CVC, CCVC, CVCC e CCVCC. In realtà, Jakobson negli anni Trenta negli studi sull’acquisizione linguistica afferma che la sillaba consonante/vocale è universale, ovvero è l’unica struttura sillabica presente in tutte le lingue, nonché la prima che viene acquisita dal bambino.

Inoltre, bisogna tenere presente che vi è anche un’altra distinzione tra le lingue, basata sul ritmo8. Per cui, mentre l’italiano è una lingua syllable-timed, o a isocronia sillabica/isosillabica (Bertinetto, 1977), nella quale tutte le sillabe tendono ad essere pronunciate con la stessa durata, in inglese, che è una lingua stress-timed, o a isocronia accentuale/isoaccentuale (Bertinetto, 1977), la durata delle sillabe non è costante, e infatti quelle accentate hanno maggior durata rispetto alle altre atone. Duncan nel 2006 ha riportato che la consapevolezza della sillaba emerge prima nei bambini di lingue a isocronia sillabica rispetto ai coetanei di lingue a isocronia accentuale.

Un’altra variabile è il profilo di sonorità, cioè se si osserva la distribuzione dei suoni9 nelle varie lingue, risulta che l’italiano è una lingua particolarmente sonorante, data l’alta distribuzione di vocali sia a livello di sillaba che di parola,

7 Ci si può riferire all’onset anche con i termini attacco o incipit.

8Qui si fa riferimento al piede ritmico che fonda il tempo stesso: si tratta di un’unità prosodica

composta dalla sillaba accentata e dalle sillabe seguenti che formano un’unità di tempo che fa da fulcro e che, tendenzialmente, rimane invariata nelle lingue naturali.

9 Le vocali sono in assoluto i suoni più sonori che possiamo produrre, seguiti dalle semi-vocali (in

italiano, ad esempio, sono i fonemi /j/ nella parola ‘fieno’, /w/ nella parola ‘uovo’). Per quanto riguarda le consonanti invece le più sonore sono le liquide e le nasali (/l/, /r/ e /n/, /m/).

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mentre l’inglese mostra il caso opposto, considerata la predominanza di suoni consonantici sia in chiusura di sillaba che di parola. Risulta che un bambino esposto ad una lingua più sonorante ha più facilità nel discriminare le strutture sillabiche più sonore, e che all’interno di una stessa parola il bambino riesce a distinguere meglio le sillabe che si compongono di fonemi contrastanti a livello di sonorità (Daloiso, 2012).

Infine, anche la vicinanza fonologica tra due parole è una variabile che influenza il grado di consapevolezza fonologica, ovvero sembra che i bambini siano capaci di discriminare maggiormente gruppi di parole che si assomigliano fonologicamente. Ciò è dovuto al fatto che in ogni lingua ci sono suoni più frequenti che generano distinzioni di significato (ad esempio: casa, caso, cosa) per cui richiedono maggiori capacità discriminatorie durante la lettura.

Per concludere, si può affermare che in tutte le lingue non ci sono differenze di manipolazione dei suoni a livello di sillaba, incipit-rima e fonema. Però, per quanto riguarda il livello dei singoli fonemi, la capacità di analizzarli emerge in tempi diversi nelle varie lingue e sembra essere influenzata dal contatto con il codice scritto.

Invece, dal punto di vista delle variabili ortografiche, si distinguono le lingue trasparenti, o ad ortografia superficiale, le quali sono caratterizzate da una relazione tendenzialmente univoca tra fonemi e grafemi, come ad esempio l’italiano con circa 30 fonemi e poche più combinazioni di lettere a livello grafico, ma anche lo spagnolo, il finnico, il turco, il greco; e lingue opache, o ad ortografia profonda, quali l’inglese, il francese, danese e portoghese, che invece presentano una biunivocità del tutto arbitraria e spesso non è possibile leggere correttamente una parola se non la si è mai sentita pronunciare. Ad esempio, l’inglese presenta 40 fonemi ma più di mille combinazioni grafemiche, per cui la pronuncia di una parola fondamentalmente risulta essere ambigua, dato il complesso rapporto grafema- fonema.

Spencer (2007) propone una distinzione più sofisticata, affermando che lingue ad ortografia altamente trasparente come il finnico o il turco hanno una

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corrispondenza uno a uno sia nello spelling, cioè tra fonologia e ortografia, sia nella lettura, ossia tra ortografia e fonologia. Al contrario, l’inglese non presenta queste corrispondenze uno a uno in entrambe le direzioni. Il tedesco e il greco, invece, mostrano una corrispondenza regolare nella lettura, ma nello spelling tendenzialmente diventa più complessa. Goswami (2000) introduce i termini feedforward consistency per indicare il rapporto spelling-suono, e feedback consistency per indicare invece la relazione suono-spelling.

È interessante notare come il maggiore o minore grado di associazione tra grafemi e fonemi sia responsabile anche delle differenze qualitative durante la fase di scolarizzazione e quindi anche nel modo in cui le difficoltà di lettura si manifestano nei diversi idiomi. La caratteristica di opacità o trasparenza influenza la rapidità dell’accesso lessicale e, quindi, la comprensione della parola scritta. Il grado di difficoltà di un dislessico dipende dalla gamma di abilità richieste per leggere in quella lingua e dalla sua natura. L’intensità dell’associazione tra lettera e suono è cruciale: sembra che più l’ortografia sia trasparente o opaca, meno difficoltà avrà il dislessico che impara a leggere, riguardo all’accuratezza. Inoltre, la profondità ortografica sembra essere responsabile anche della differente percentuale che riguarda la distribuzione della dislessia nei vari paesi: in Italia, infatti, secondo i dati del Miur solo il 3-4% della popolazione manifesta il disturbo, mentre negli Stati Uniti secondo l’International Dyslexia Association si conta almeno il 15-20%. Naturalmente questo non significa che la dislessia sia più diffusa in un paese piuttosto che in un altro, semplicemente riflette quanto sia più facile notare problemi di lettura in bambini di madrelingua con ortografia opaca. Al contrario, i problemi di bambini con una lingua a ortografia trasparente potrebbero passare inosservati.

Tuttavia, l’effetto del deficit fonologico nella velocità di lettura nei bambini dislessici è, a quanto pare, evidente anche nelle ortografie più regolari. Infatti, la scarsa fluenza nel leggere parole e non-parole rimane il primo indicatore comportamentale per la dislessia anche nelle ortografie più trasparenti.

Negli anni Novanta, Frost e Katz (1992) hanno proposto la cosiddetta “ipotesi della profondità ortografica” con la quale sostengono che le differenze durante la

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fase di alfabetizzazione dipendono dai sistemi ortografici delle lingue. In altre parole, che il grado di complessità del rapporto tra fonemi e grafemi in una lingua influisce sullo sviluppo di strategie di lettura. Quindi le lingue trasparenti favorirebbero le strategie sub-lessicali, ovvero fonologiche, vista l’elevata corrispondenza tra pronuncia e scrittura; mentre le lingue opache promuoverebbero le strategie lessicali, ossia la lettura delle parole in blocco, dovute all’impossibilità della conversione fonema-grafema a causa dell’irregolarità della lingua. Invece, nella sua versione più recente, quest’ipotesi sostiene che in tutte le lingue, siano esse opache o trasparenti, la lettura coinvolge sia processi lessicali che sub-lessicali, ciò che cambia è solo il grado di attivazione a seconda del tipo di ortografia.

Infine, è stato osservato che il grado di trasparenza ortografica incide sui ritmi di sviluppo delle varie fasi del percorso di apprendimento della lettura: apprendenti di lingue trasparenti sembrano incontrare meno difficoltà e impiegano meno tempo per raggiungere un grado quasi perfetto di accuratezza rispetto ai coetanei di lingue opache. I dislessici inglesi mostrano deficit persistenti nell’accuratezza delle parole e ancora maggiori difficoltà nella lettura di pseudoparole, in cui la percentuale di errori si aggira tra il 50% e il 70% (Caravolas, 2005). Invece, i loro coetanei di lingue europee manifestano percentuali più basse. In ogni caso, nonostante la percentuale bassa di errori, anche i dislessici di ortografie trasparenti manifestano deficit di lettura anche se meno severi dei coetanei inglesi.