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2. Fonologia e memoria

2.2. Ipotesi del deficit fonologico

Come abbiamo precedentemente affermato nel paragrafo sull’evoluzione storica dello studio della dislessia, a partire dagli anni Settanta, con i nuovi lavori condotti al di fuori dell’ambito prettamente medico, si è passati gradualmente dalla ricerca di spiegazioni di tipo visivo a interpretazioni di natura linguistica. Nell’ambito della psicologia cognitiva è stata proposta una teoria da diversi studiosi, in particolare da Margaret Snowling nel 1987, che è stata poi sviluppata nel corso degli anni Novanta ed è quella che ha ricevuto maggior consenso finora. L’ipotesi del deficit fonologico fornisce una spiegazione attendibile delle difficoltà che incontrano i dislessici sia

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nella lettura che nello spelling, ed infatti viene preso in considerazione l’ambito linguistico della loro scarsa consapevolezza fonologica.

Il punto di partenza è il presupposto che la causa scatenante della dislessia evolutiva sia la ridotta abilità di codifica fonologica in correlazione alla difficoltà di lettura. Per abilità di codifica fonologica si intende la capacità consapevole di analizzare, segmentare e manipolare i suoni del parlato. Per cui, il problema risiederebbe proprio nel riuscire a sviluppare quella consapevolezza esplicita della relazione tra gli elementi strutturali del linguaggio, i fonemi, e i simboli visivi ad essi convenzionalmente associati, i grafemi. In altre parole viene postulato che i soggetti dislessici codifichino l’informazione fonologica in maniera meno precisa e meno efficiente rispetto agli individui sani. In questo modo la difficoltà di acquisire, memorizzare e richiamare la rappresentazione fonologica dei segni grafici comporta un rallentamento della lettura e la comparsa di errori specifici nel confondere i fonemi (Ramus, 2003).

Tuttavia, alcuni ricercatori hanno tentato di chiarire quale sia la relazione causale tra la competenza fonologica e la carenza nella lettura, ovvero si sono chiesti se le scarse abilità fonologiche siano la causa o piuttosto la conseguenza delle difficoltà di lettura. La questione, però, si risolve facilmente grazie ai numerosi studi condotti finora, come ad esempio il caso dei bambini a rischio di dislessia10 che dimostrano che i deficit fonologici sono presenti anche in età prescolare e quindi prima di imparare a leggere. Anche nel caso delle ricerche svolte utilizzando un gruppo di controllo selezionato per livello di lettura, cioè con bambini di età inferiore rispetto al gruppo di dislessici, è stato dimostrato che i deficit fonologici non dipendono dai problemi nella lettura, altrimenti anche il gruppo di controllo avrebbe dovuto avere la stessa performance nei test di carattere fonologico. Infine, i risultati degli studi condotti cross-linguisticamente hanno rilevato che anche gli individui di madrelingua ad ortografia trasparente hanno problemi a livello fonologico, nonostante la loro competenza nella lettura sia relativamente meno danneggiata. Per cui, dal momento che esistono numerosi studi che comprovano la correlazione tra

10 La definizione “bambini a rischio di dislessia” si riferisce a quei bambini che hanno almeno un

genitore o un fratello/sorella dislessici e che, quindi, sono geneticamente più a rischio di manifestare il disturbo.

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scarsa consapevolezza fonologica e dislessia (Snowling, 1995; Blachman, 1997; Ramus, 2003; Vellutino e Snowling, 2004), ci sono abbastanza prove a favore del fatto che i problemi nella lettura non siano la causa di deficit fonologici, ma bensì ne siano la conseguenza. Quindi è lecito ritenere che la fonologia abbia un ruolo centrale e causale nel disturbo, implicando un legame diretto tra deficit cognitivo e problema comportamentale.

Inoltre, questa proposta è coerente anche con ciò che viene esposto nel modello di Frith (Par. 1.3.1), il quale afferma che le abilità di segmentazione e composizione fonologica sono cruciali nell’acquisizione della lettura, suggerendo che la scarsa consapevolezza fonologica potrebbe impedire l’acquisizione della strategia alfabetica e di conseguenza lo sviluppo della lettura.

Dal punto di vista neuroanatomico tale deficit si localizzerebbe nelle aree del giro angolare dell'emisfero sinistro e sarebbe in origine causato dalla disfunzione di un insieme di geni che regolano la migrazione neuronale in questa circoscritta area neuroanatomica (Ramus, 2004). Pugh e altri ricercatori (2000) hanno fornito delle evidenze biologiche grazie a diversi studi di neuroimmagine funzionale. Secondo questo modello neurofunzionale, due circuiti posteriori dell’emisfero sinistro controllerebbero l’identificazione visiva delle parole: l’area temporo-parietale risulterebbe associata all’elaborazione della via sublessicale, e l’aerea occipito- temporale sarebbe alla base del meccanismo di riconoscimento della forma delle parole che è necessaria per l’efficienza della via lessicale. E sono proprio queste due zone posteriori dell’emisfero sinistro a rivelarsi danneggiate dal punto di vista funzionale nei soggetti dislessici.

Tornando alla teoria del deficit fonologico, da una parte vi troviamo i sostenitori del fatto che il deficit cognitivo nella dislessia sia specifico solo della fonologia. Dall'altra parte invece, ci sono studiosi che mettono completamente in dubbio quest’ipotesi, supportando piuttosto l’idea che i deficit non siano causati da un disturbo fonologico persistente, quanto piuttosto da un ritardo nello sviluppo che sarebbe responsabile delle differenze osservate tra i bambini dislessici e i loro compagni. Diversi studi hanno dimostrato che la performance dei bambini dislessici, nei compiti fonologici e di lettura e spelling, sia simile a quella di bambini

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di età inferiore. Comunque questa ipotesi del ritardo nello sviluppo è stata criticata dai risultati di altre ricerche condotte con soggetti adulti che hanno invece confermato il fatto che i deficit persistono nel tempo. Ad esempio Snowling (1997), con una serie di test somministrati a studenti universitari, ha confermato che gli studenti dislessici hanno ottenuto risultati peggiori rispetto al gruppo di controllo selezionato per età e per livello di scolarizzazione. Durante la sperimentazione condotta presso l’Università di Pisa, che ha avuto come partecipanti studenti universitari, sono stati ottenuti risultati molto simili per quanto riguarda compiti di consapevolezza fonologica, fluenza fonemica e semantica e ripetizione di non- parole, che sono presentati nel dettaglio nel terzo capitolo. Dunque, sembra che si possa confutare l’ipotesi del ritardo nello sviluppo e confermare ulteriormente la scarsa sensibilità fonologica come uno degli aspetti più distintivi nella dislessia anche in età adulta.

Un’ulteriore questione è legata alle due ipotesi che sono state fatte per spiegare i deficit fonologici, ossia se le rappresentazioni fonologiche siano incomplete, oppure intatte ma più difficili da recuperare correttamente. Inizialmente Snowling e Hulme (1994) hanno proposto che la scarsa consapevolezza fonologica rifletta proprio un’inadeguatezza a livello di rappresentazioni, le quali corrisponderebbero per esempio ad unità più grandi dei fonemi. Per questo si verificano problemi con la decodifica e la consapevolezza fonologica che deriverebbero dall’incapacità di costruire delle rappresentazioni fonologiche corrette e che provocherebbero quindi una difficoltà più generale nel collegare l’ortografia alla fonologia.

Successivamente, Snowling (2001) ha proposto che anche una scarsa memoria verbale a breve termine e uno slow automatic naming indicherebbero la presenza di un deficit fonologico. Infatti, la seconda e più recente ipotesi proposta da Ramus e Szenkovits (2008) ritiene che il problema, piuttosto che nelle rappresentazioni incomplete, starebbe proprio nell’accedervi, collegato ad una scarsa capacità della memoria a breve termine. I risultati dei loro studi mostrano che il gruppo di dislessici ha manifestato più problemi nel discriminare due sequenze di non-parole che differiscono per un solo fonema rispetto a due sequenze di non-parole completamente diverse. Invece, il gruppo di controllo, non ha mostrato l’effetto di

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similarità fonologica, la quale prevede che recuperare una serie di items è più difficile quando questi sono fonologicamente simili rispetto a quando sono completamente differenti. Per cui, l’ipotesi propone che le difficoltà fonologiche siano dovute a problemi a livello di memoria verbale a breve termine11.

Tornando all’ipotesi del deficit fonologico, nonostante rappresenti la teoria più condivisa e più soddisfacente, tuttavia non è in grado di spiegare la totalità dei sintomi che manifestano le persone dislessiche. Oltretutto, i deficit fonologici sono manifestati anche da individui non dislessici, la cui competenza fonologica è comunque danneggiata. Inoltre, supporre la sola esistenza di deficit a livello fonologico non spiega le difficoltà nella comprensione o con i test di denominazione e vocabolario e nemmeno i problemi con l’attenzione.