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Dislessia evolutiva: osservazioni sul ruolo del deficit fonologico e mnesico nell'apprendimento dell'inglese come lingua straniera

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA

TESI DI LAUREA

Dislessia evolutiva:

osservazioni sul ruolo del deficit fonologico e mnesico

nell'apprendimento dell'inglese come lingua straniera

CANDIDATO

RELATORE

Silvia Di Cioccio

Chiar.ma Prof.ssa

Marcella Bertuccelli Papi

CONTRORELATORE

Chiar.ma Dott.ssa

Gloria Cappelli

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Indice

INTRODUZIONE 4

1. INTRODUZIONE ALLA DISLESSIA EVOLUTIVA 6

1.1.Sviluppo storico nello studio della Dislessia Evolutiva 7

1.2.Definire la Dislessia Evolutiva 11

1.3.Sintomi e tratti caratteristici della Dislessia Evolutiva 13 1.3.1. L’abilità di lettura e le sue fasi evolutive durante l’apprendimento 15

1.3.1.1. Il Dual-Route Model 17 1.3.1.2. Il Balance Model 19 1.3.2. Problemi di lettura 20 1.3.3. Problemi di spelling 21 1.3.4. Problemi linguistici 23 1.3.5. Deficit attentivi 25

1.4.Teorie sull’eziologia della Dislessia Evolutiva 27

1.4.1. Ipotesi in ambito neuropsicologico 27

1.4.2. Teoria genetica 29

1.4.3. Ipotesi di matrice neurofisiologica 30

1.4.3.1. Teoria cerebellare 32

1.4.3.2. Ipotesi del deficit visivo e acustico 33

1.4.3.3. Teoria magnocellulare 34

1.5.Limiti delle teorie proposte 36

1.6.Conclusioni 39

2. FONOLOGIA E MEMORIA 41

2.1.La fonologia 41

2.1.1. Grain size theory e l’ipotesi della profondità ortografica 42

2.2.Ipotesi del deficit fonologico 47

2.3.Ipotesi del doppio deficit 51

2.4.Ipotesi del deficit di automatizzazione 54

2.5.La struttura della memoria 55

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2.5.1.1. L’Esecutivo Centrale 60

2.5.1.2. Il Circuito Fonologico 62

2.5.1.3. Il Taccuino Visuo-spaziale 64

2.5.1.4. Il Buffer Episodico 65

2.5.2. Deficit nella memoria di lavoro 67

2.5.3. Il sistema della memoria dichiarativa e procedurale 70

2.5.3.1. Il modello dichiarativo/procedurale 72

2.5.4. L’ipotesi del deficit di memoria procedurale 74

2.6.Conclusioni 76 3. SPERIMENTAZIONE 79 3.1.Partecipanti 80 3.2.Materiali 80 3.3.Procedura 81 3.4.Risultati 85

3.4.1. Prove di lettura di liste di parole e di non-parole 85 3.4.2. Prove di fluenza per indizio fonologico e semantico 90

3.4.3. Prova di inversione delle lettere iniziali 94

3.4.4. Prova di ripetizione di non-parole 95

3.4.5. Prove di memoria di cifre 98

3.5.Discussione 103

3.6.Conclusioni 108

4. ANALISI FONOLOGICA 110

4.1.Sistema fonologico inglese 111

4.2.Sistema fonologico italiano a confronto 115

4.3.Osservazioni sugli errori nella prova di ripetizione di non-parole 117

4.4.Esistono correlazioni con l’inglese? 121

CONCLUSIONI 127

BIBLIOGRAFIA 131

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi verte sul disturbo della dislessia evolutiva in giovani adulti che studiano l’inglese. L’obiettivo è quello di presentare alcune riflessioni sul rapporto tra deficit fonologico e mnesico e apprendimento della lingua straniera. In particolar modo, le domande di ricerca a cui il presente elaborato cerca di rispondere sono le seguenti:

1. È possibile individuare dei patterns negli errori di ripetizione di non-parole di un gruppo di informanti con dislessia evolutiva?

2. Se sì, è possibile identificare relazioni causali con le difficoltà nella memorizzazione del lessico inglese?

Per dare una risposta a queste domande il lavoro è stato suddiviso in due sezioni: la prima, che comprende i capitoli 1 e 2, intende presentare la letteratura di riferimento; la seconda, con i capitoli 3 e 4, riguarda invece la parte sperimentale.

Il primo capitolo intende fornire al lettore un’introduzione al disturbo della dislessia evolutiva: di cosa si tratta, come si manifesta, quali sono le cause ipotizzate. Viene brevemente presentato lo sviluppo storico degli studi e delle ricerche condotte finora e i problemi relativi all’elaborazione di una definizione univoca che sia esplicativa del disturbo. Vengono poi esposti i sintomi caratterizzanti e i conseguenti problemi che sono normalmente manifestati. Infine, sono esposte le principali teorie finora proposte per spiegare le cause del disturbo, sia in ambito neuropsicologico che neurofisiologico, e i limiti di ciascuna di queste. Il secondo capitolo, dopo aver introdotto brevemente di cosa si occupa la fonologia, presenta quelle teorie che, in ambito cognitivo, hanno ottenuto maggior consenso e tutt’oggi sono ritenute essere valide spiegazioni dei deficit osservati nei soggetti con dislessia. Si tratta, in particolar modo, dell’ipotesi del deficit fonologico. A seguire viene illustrata la struttura della memoria e le conseguenti ipotesi concernenti due possibili deficit di alcune sottocomponenti mnesiche.

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Nel terzo capitolo sono discussi i risultati della sperimentazione osservata durante il tirocinio svolto presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa nell’Anno Accademico 2015/2016 nell’ambito del progetto, condotto dalle dott.sse Gloria Cappelli e Sabrina Noccetti, dal titolo: “Competenza pragmatica e inglese lingua straniera in studenti adulti con dislessia evolutiva” in collaborazione con il Centro Linguistico di Ateneo e la IRCCS Fondazione Stella Maris. Vengono presentate le diverse prove somministrate a studenti universitari con dislessia e al gruppo di controllo. Tali prove sono state inserite nel protocollo al fine di valutare l’effettiva presenza di un deficit a livello fonologico e mnesico durante l’esecuzione di vari tipi di compiti, come ipotizzato dalle teorie proposte nel capitolo 2.

Nell’ultimo capitolo viene discussa la struttura del sistema fonologico dell’inglese e viene messa in confronto con quella dell’italiano. Vengono, poi, analizzati gli errori commessi in una delle prove presentate nel capitolo 3, quella di ripetizione di non-parole, con lo scopo di individuare possibili correlazioni tra il deficit fonologico e mnesico e le difficoltà nella memorizzazione del lessico inglese. La parte finale cerca quindi di rispondere alle due domande di ricerca.

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1. Introduzione alla Dislessia Evolutiva

La lingua scritta rappresenta una modalità fondamentale per la comunicazione, soprattutto al giorno d’oggi, dal momento che la tecnologia ha favorito lo scambio di qualsiasi tipo di informazione tramite, perlopiù, testi digitali. Non sono, perciò, da sottovalutare le difficoltà dovute all’incapacità di leggere correttamente che possono incontrare le persone in un mondo e in una cultura come la nostra che è, appunto, fortemente legata alla scrittura. Mentre la maggior parte dei bambini, grazie ad un’appropriata istruzione, impara a leggere con relativa facilità, una piccola ma sostanziale parte della popolazione scolastica presenta difficoltà significative nell’apprendimento della lettura, che possono provocare disagi permanenti anche in età adulta.

La dislessia è un disturbo della lettura che sembra essere causata da diversi fattori, i quali potrebbero verificarsi indipendentemente l’uno dall’altro o interagire tra loro. Hulme e Snowling (2009) sono convinti che le cause e la causalità della dislessia dovrebbero essere trattate in termini di probabilità piuttosto che di certezza.

Nonostante le difficoltà nel trovare una definizione condivisa di cosa sia la dislessia, vi è comunque un sostanziale accordo nel distinguere tra disturbi generali, che riguardano le funzioni cognitive, e i problemi che riguardano una sola abilità. Quelli distintivi della lettura e della scrittura rientrano nell’ampia categoria dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Secondo il DSM-IV, ovvero il manuale diagnostico di riferimento per le diagnosi in psicologia clinica, si parla di dislessia quando la capacità di lettura, attentamente valutata attraverso la somministrazione di test sull’accuratezza e sulla comprensione, risulta essere notevolmente al di sotto rispetto alla norma, a parità di età, intelligenza e istruzione. Per la diagnosi sono inoltre essenziali l’assenza di deficit fisici, come ad esempio problemi uditivi o visivi, e l’assenza di qualunque tipo di ritardo cognitivo.

Se non compensate, le difficoltà di lettura potrebbero condurre, a lungo termine, ad un disturbo della comprensione. Tuttavia, è bene sottolineare che il disturbo specifico della lettura è distinto da quello della comprensione del testo. Vengono definiti entrambi “specifici” proprio per il fatto di essere indipendenti da altre cause

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e perché di norma si manifestano separatamente. Non è raro, però, che si verifichi una correlazione tra questi due disturbi in quanto un alunno dislessico che, per ovvie ragioni, è portato a leggere poco, può, a lungo termine, sviluppare difficoltà nella comprensione testuale. Non è nemmeno insolito che la dislessia evolutiva si manifesti spesso in concomitanza con altri disturbi della letto-scrittura, come ad esempio difficoltà di comprensione del testo, disgrafia e/o disortografia, con deficit dell’attenzione e problemi emotivi e socio-relazionali. Inoltre, si possono riscontrare problemi anche a livello di calcolo: in questo caso si parla di discalculia, che può manifestarsi in concomitanza con altri disturbi oppure singolarmente.

Data la complessa natura della dislessia, bisogna tenere in considerazione almeno tre livelli: quello biologico, cognitivo e comportamentale. Il primo permette di spiegare il funzionamento del cervello, come ad esempio la disorganizzazione nella corteccia cerebrale nelle aree dedite ai processi linguistici, o le varie anomalie che potrebbero essere presenti. Il secondo fornisce una descrizione cognitiva delle caratteristiche psicologiche che si associano alla dislessia, come la ridotta memoria di lavoro, la scarsa abilità di processing fonologico, l’automatizzazione incompleta oppure lenta (Nijakowska, 2010). Infine, il livello comportamentale si riferisce ai sintomi osservabili, come per esempio le scarse capacità di lettura e spelling, i problemi con le rime, i disturbi nel processing uditivo e le difficoltà nel mantenere l’equilibrio (Nijakowska, 2010).

1.1. Sviluppo storico nello studio della Dislessia Evolutiva

Per lungo tempo il fenomeno della dislessia è stato sottovalutato e confuso con altri deficit linguistici, soprattutto con alcuni tipi di afasia o con casi di ritardo mentale (Lacaita, 2006). Storicamente il termine dislessia fu usato per la prima volta nel 1872 dal medico tedesco Rudolf Berlin per descrivere la perdita della capacità di lettura in seguito ad una lesione cerebrale. Poco dopo, nel 1877, il neurologo tedesco Kussmaul suggerì il termine word blindness per distinguere un tipo di afasia causato da traumi cerebrali nell’emisfero sinistro. Dieci anni più tardi, anche il neurologo francese Déjerine con il termine “cecità per le parole” si riferiva alla perdita delle abilità di comprensione e scrittura dovute a lesioni nella parte

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posteriore dell’emisfero sinistro, che svolge un ruolo critico per la lettura. A confondere maggiormente lo scenario, Charcot introdusse il termine “alessia” per indicare la perdita totale della capacità di lettura, mentre Bateman nel 1890 utilizzava lo stesso termine per riferirsi ad una forma di amnesia verbale che provocava dunque la perdita della memoria del significato convenzionale dei simboli grafici (Piccoli, 2010).

Dunque, una prima fase nella storia della dislessia è stata quella di associare il termine ad un disturbo specifico neurologico dovuto a traumi cerebrali, quella che noi oggigiorno definiamo “dislessia acquisita”.

Soltanto nel 1896 W. Pringle Morgan presentò la descrizione di un caso di dislessia in un paziente quattordicenne. Successivamente, all’inizio del Novecento, Hinshelwood, un chirurgo inglese, notò un disturbo simile, ma stavolta senza apparenti cause di tipo traumatico. Nel suo trattato scientifico intitolato “Congenital Word Blindness” infatti definì la condizione di “cecità per le parole” come un difetto congenito presente in bambini sani senza nessun tipo di danno cerebrale, contraddistinti, però, da una forte difficoltà nell’imparare a leggere.

La dislessia evolutiva inizialmente veniva quindi descritta come un disturbo causato dal malfunzionamento dell’apparato visivo. Infatti, per lungo tempo è stata studiata soltanto da un punto di vista medico ed in particolare in ambito oculistico, in quanto si riteneva che i dislessici non usassero correttamente gli occhi durante la lettura.

Un altro termine introdotto nella prima metà del Novecento da Orton è stato strephosymbolia, che indicava la condizione in cui le immagini venivano invertite, rovesciate, mescolate. Introdusse anche altri tipi di disturbi evolutivi come quelli dovuti all’incapacità di riconoscere parole nel parlato, senza però avere disturbi di tipo uditivo. Per riferirsi all’insolita incapacità di imparare a leggere, senza altre anormalità di tipo fisico, mentale e emotivo, anzi con un buon sviluppo cognitivo, veniva utilizzato il termine “alessia evolutiva”. Ma poiché anche le abilità visive erano nella norma, Orton ipotizzò che il deficit della lettura non era dovuto a

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problemi di vista, ma piuttosto a difficoltà nel riuscire ad associare la forma scritta delle parole con la loro forma parlata.

Naturalmente nel corso degli anni, grazie anche al recente progresso scientifico, si è arrivati a poter affermare che il compito della lettura viene svolto principalmente da alcune aree del cervello, e che gli occhi svolgono una funzione minima, cioè quella di trasmettere l’informazione grafica della parola scritta alla corteccia visiva primaria, che si trova nell’estremità del lobo occipitale. Quest’informazione viene poi trasmessa all’area di Wernike dove viene convertita in informazione fonologica e dove acquisisce il suo significato. Nell’area di Broca vengono invece attivati dei processi neuromotori che permettono all’individuo di pronunciare correttamente le parole.

Successivamente, cominciarono ad interessarsi della questione non più solo medici e neurologi, ma anche psicologi e sociologi, e si cominciarono a postulare probabili cause in relazione a fattori ambientali e psicologici.

Solo negli anni Settanta emerse una nuova ipotesi secondo la quale la causa principale della dislessia avrebbe origine da un’acquisizione deficitaria o incompleta delle abilità fonologiche. Fu notato, infatti, che i problemi consistevano nel riconoscere i fonemi che costituiscono le parole nella lingua parlata, e quindi associarli ai segni grafici corrispondenti nella lingua scritta. Perciò fu ipotizzato che le difficoltà stavano nell’apprendimento delle regole di conversione grafema-fonema, che generalmente avviene durante i primi anni di vita del bambino. Naturalmente, dopo aver determinato la presenza di un deficit nello sviluppo delle normali abilità fonologiche, si è cercato di capire quale fosse la sua origine. La questione è ancora aperta ed è ancora oggetto di numerosi studi. Negli anni Settanta, a seguito di ulteriori scoperte in altre aree oltre quella medica, si passò gradualmente da spiegazioni di tipo visivo a spiegazioni di tipo linguistico (Piccoli, 2010). Recentemente la psicologa inglese Margaret Snowling, ha proposto una relazione tra le abilità fonologiche dei dislessici e la memoria a breve termine (Snowling, 2001). Le ipotesi sono discusse nel paragrafo 2.2.

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Attraverso autopsie compiute su pazienti dislessici morti per cause naturali, diversi studi, tra i quali quelli di Orton (1925), Geschwind e Galaburda (1985), hanno portato alla luce situazioni anomale nel cervello. Sono state trovate, infatti, delle ectopie, cioè delle agglomerazioni di cellule che non funzionano correttamente, che sono ritenute essere il risultato di lesioni focali nel cervello in fase di sviluppo e che si verificano durante la migrazione dei neuroni nella corteccia cerebrale, all’incirca intorno al quinto mese della crescita del feto. Inoltre, per quanto riguarda le aree del cervello, è stato osservato che le zone nella parte posteriore superiore del lobo temporale, in particolare il planum temporale, sono implicate nei processi fonologici. Inoltre, dagli studi post-mortem sui cervelli di pazienti dislessici è stata notata una simmetria tra il lobo temporale sinistro e quello destro, il quale invece dovrebbe essere di dimensioni maggiori rispetto al primo.

I risultati più importanti, però, si sono avuti solo negli ultimi anni, sia in ambito neurologico che genetico, grazie naturalmente anche alle nuove tecnologie a disposizione, come lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, tra le quali la PET (Tomografia ad Emissione di Positroni), la fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale)1 e la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata). Queste tecniche praticamente hanno reso possibile lo studio del cervello in vivo, ovvero permettono di osservare il cervello dei pazienti ancora in vita durante l’esecuzione di compiti specifici, senza andare ad intaccare o danneggiare in alcun modo le strutture cerebrali.

Per quanto riguarda i risultati conseguiti nell’ambito della genetica, sebbene a partire dai primi anni del secolo scorso Hinselwood e Orton avessero già avanzato ipotesi riguardo una possibile trasmissione genetica del disturbo da genitori a figli, di recente si è avuta la conferma che si può stabilire l’esistenza di una certa origine genetica per numerosi casi di dislessia evolutiva. Questa scoperta è stata molto importante, in quanto potenzialmente può permettere di diagnosticare fin dalla nascita se un bambino è dislessico o meno.

1 Nel paragrafo 1.4.3 viene spiegato nel dettaglio in cosa consistono le tecniche di

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Ricapitolando, abbiamo visto come in poco più di un secolo si sia passati dallo studio della dislessia solo ed esclusivamente in ambito medico, alla ricerca interdisciplinare che coinvolge la neurobiologia, la psicologia, la genetica, la linguistica. Data la complessità sia della natura del disturbo della lettura che delle problematiche che causa, è normale che vi sia il coinvolgimento e la collaborazione di ricercatori tra le diverse discipline, in modo da poter avere una visione sempre più chiara e dettagliata.

1.2. Definire la Dislessia Evolutiva

Nella letteratura di riferimento, quando si parla di dislessia ci si riferisce a quella evolutiva, ovvero alla condizione nella quale il deficit di lettura risulta essere congenito. Il termine “evolutiva” implica proprio il fatto che il bambino non impara a leggere e scrivere in maniera semplice, come tutti i bambini nella stessa fascia d’età. E ciò suggerisce anche che la dislessia sia un disturbo linguistico a livello cognitivo durante lo sviluppo. Nel caso in cui invece il disturbo si manifesta in seguito ad un trauma cerebrale, il quale provoca la perdita dell’abilità che precedentemente era presente nel soggetto, si parla di dislessia acquisita, la quale solitamente prevede dei percorsi di riabilitazione per recuperare le funzioni perdute. Naturalmente, anche se etimologicamente il termine dislessia significa “difficoltà con le parole”, è opportuno trattare i due tipi in maniera distinta, in quanto presentano caratteristiche parzialmente diverse.

Come è stato già accennato all’inizio del capitolo, non si è ancora arrivati ad una definizione univoca della dislessia, sia per la complessità del disturbo e per le cause che vi sono alla base, e sia per una questione terminologica tra le varie lingue. Infatti in Italia si utilizza il termine “disturbo” dell’apprendimento per indicare appunto una situazione di patologia, anche se molto spesso viene utilizzato come sinonimo di “difficoltà” di apprendimento, che in realtà indica una situazione differente, più generale. Il DSM-IV utilizza il termine learning “disorders” che ha una controparte anche in spagnolo e tedesco. Ma ad esempio in inglese britannico si preferisce “difficulties” a “disorders”, mentre in inglese americano si parla di “disability”.

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Un ulteriore problema nel definire la dislessia sta nel fatto che alcune definizioni escludono il funzionamento sensoriale come causa delle difficoltà della lettura. Al contrario, altri studiosi sono convinti che i problemi risiedano a livello visivo, mentre altri ancora sostengono invece che la difficoltà principale consisterebbe nella discriminazione sonora o nella percezione uditiva. Altre definizioni escludono lesioni cerebrali o disfunzioni neurologiche dalla nozione di dislessia, mentre altri sostengono la presenza, seppur minima, di segnali neurologici nei dislessici.

La World Federation of Neurology nel 1968 afferma che “la dislessia evolutiva è un disturbo dovuto ad una difficoltà nell’apprendimento della lettura, nonostante un’istruzione convenzionale, intelligenza adeguata e opportunità socio-culturali. È dipendente da disturbi cognitivi, che sono spesso di origine costituzionale.” Questo tipo di definizione è stata criticata in quanto utilizza termini troppo generici, ad esempio non viene spiegato sulla base di quali elementi si distingue un’istruzione convenzionale da una non convenzionale, oppure non è chiaro cosa si intende per intelligenza adeguata.

Nel 1994, il Research Committee of The Orton Dyslexia Society ha proposto la seguente definizione:

Dyslexia is one of several distinct learning disabilities. It is a specific language-based disorder of constitutional origin characterised by difficulties in single-word decoding, usually reflecting insufficient phonological processing abilities. These difficulties in single word decoding are often unexpected in relation to age and other cognitive and academic abilities: they are not the result of generalised developmental disability or sensory impairment. Dyslexia is manifested by variable difficulty with different forms of language, often including, in addition to problems of reading, a conspicuous problem with acquiring proficiency in writing and spelling.

Il problema di queste definizioni è il fatto che non danno un’idea abbastanza specifica per comprendere l’intera gamma di deficit che manifestano i dislessici. Inoltre, sembrano identificare solo il fallimento della lettura e dello spelling come unica caratteristica della dislessia; in più, vengono definite per esclusione, cioè

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eliminando dai casi di dislessia quegli individui che mostrano problemi o condizioni aggiuntive.

La descrizione data nel 2003 dal gruppo di lavoro dell’International Dyslexia Association, invece, sembra essere la più esaustiva, nonché la più condivisa:

Dyslexia is a specific learning disability that is neurobiological in origin. It is characterized by poor spelling and decoding abilities. These difficulties typically result from a deficit in the phonological component of language that is often unexpected in relation to other cognitive abilities and the provision of effective classroom instruction. Secondary consequences may include problems in reading comprehension and reduced reading experience that can impede the growth of vocabulary and background knowledge.

(Lyon, Shaywitz, and Shaywitz, 2003)

Quindi la dislessia evolutiva viene descritta come un disturbo che riguarda le abilità di decodifica delle parole in forma scritta che conduce ad una lettura lenta e/o inaccurata. È di natura neurobiologica, causata da una difficoltà di processing fonologico, anche se non c’è ancora una visione univoca sull’origine del disturbo. Inoltre, sappiamo che la dislessia non è la conseguenza di altri deficit cognitivi o di uno svantaggio socio-culturale dovuto ad un’istruzione inadeguata, tuttavia, se non viene compensata, può, a lungo termine, condurre ad un disturbo della comprensione.

1.3. Sintomi e tratti caratteristici della Dislessia Evolutiva

La dislessia evolutiva, come abbiamo avuto modo di capire, è un disturbo complesso. Nonostante le difficoltà di lettura e di spelling siano i sintomi più evidenti e meglio conosciuti, essi costituiscono solo una parte dell’ampia gamma di problemi che presentano i ragazzi dislessici. È certo, infatti, che in generale, la loro competenza fonologica e linguistica è decisamente scarsa e che mostrano diversi deficit con i test di vocabolario e di denominazione (Vender, 2011). Altre difficoltà includono problemi in termini di memoria a breve termine, come per esempio riuscire a ricordare le istruzioni di azioni da compiere, ricordare una serie

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di numeri come potrebbe essere un numero di telefono, anche solo per pochissimo tempo. Al contrario, però, pare che non presentino problemi con la memoria a lungo termine, infatti, non sono stati finora individuati problemi nel ricordare eventi lontani nel passato. Tuttavia, i soggetti dislessici presentano diverse difficoltà con quei compiti che richiedono l’automatizzazione di un’abilità e spesso mostrano deficit motori e attentivi (Nicolson e Fawcett, 1990).

Per quanto riguarda i sintomi della dislessia, bisogna precisare che non necessariamente per certificare un soggetto come dislessico debbano verificarsi tutti i segnali di cui parleremo, sono semplicemente le caratteristiche che sono state osservate nel tempo nei soggetti dislessici. Negli anni Settanta diversi studiosi hanno elencato una serie di specificità comportamentali che sono ascrivibili come indizi della dislessia. Durante la lettura si riscontrano difficoltà nel distinguere le lettere dell'alfabeto, nel separare e sequenziare suoni, nel discriminare fonema-grafema (suono-lettera); normalmente si verifica il continuo e persistente scambio di lettere (es. b/d; m/n; v/f), di sillabe, dell’ordine delle parole, in più sono evidenti anche aggiunte e/o omissioni di fonemi o sillabe. La lettura di conseguenza si presenta sillabata, lenta e con molti errori, ma spesso si ritrovano le stesse problematiche anche nella scrittura, e a volte anche durante una conversazione orale. Si presentano evidenti difficoltà nel fare lo spelling delle parole, nonché un ritardo nel cominciare a parlare nei primi anni di vita. Si riscontra anche la necessità di più tempo, rispetto alla norma, per imparare termini nuovi o memorizzare le rime. Tipiche sono anche le difficoltà nell’imparare informazioni in sequenza (ad esempio le lettere dell’alfabeto, le tabelline, i mesi dell’anno) ed i rapporti spaziali e temporali (destra/sinistra; ieri/domani), le difficoltà nel calcolo e nell’acquisire abilità motorie che richiedono coordinazione oculo-motoria (per esempio allacciarsi le scarpe). L’insieme di tutte queste problematiche, ovvero quelle che si presentano nei singoli casi, portano ad un uso eccessivo di parole sostituite (“cosa”, “affare”) per la denominazione di oggetti, a impedimenti per raccontare una storia e per comprendere le espressioni dei problemi matematici, quindi difficoltà nella comprensione dei testi.

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Uno dei maggiori problemi correlati alla dislessia evolutiva è che questa può essere diagnosticata solo dopo che il percorso di istruzione è iniziato e perciò solo dopo gli otto anni di età. Ad ogni modo, diversi studi hanno dimostrato che è possibile riconoscere la dislessia durante gli anni prescolastici: ci sono, infatti, alcuni segnali che possono essere considerati dei veri e proprio precursori della dislessia, come confermano alcune ricerche condotte con i cosiddetti “bambini a rischio”, ovvero quei bambini che hanno genitori o fratelli maggiori dislessici. Questi segnali sono dati dalle prime abilità di produzione sintattica e fonologica che possono appunto prevedere disturbi della lettura e dello spelling e diversi studi hanno reso possibile identificare bambini dislessici già all’età di due o tre anni.

Tuttavia, Rutter (2002) sottolinea il fatto che molti di questi segnali potrebbero benissimo dipendere anche dall’età e che, infatti, molto spesso sono più comuni nei bambini piccoli. Oltretutto, è stata riscontrata anche nei lettori normali la presenza degli stessi indizi. Per cui è molto importante saper distinguere una difficoltà specifica da una più generale lentezza della lettura.

Vellutino (1979) attribuisce le caratteristiche menzionate più spesso nella letteratura, al fatto che i ragazzi sembrano essere più soggetti al disturbo della lettura rispetto alle ragazze.

Comunque, questi risultati sono molto importanti almeno per due motivi, sia perché dimostrano che i danni dei dislessici non sono confinati alla sola lettura ma piuttosto è l’intera competenza linguistica ad essere compromessa, e sia perché mostrano che è possibile diagnosticare, o perlomeno identificare la dislessia già in età prescolastica prima ancora che i bambini inizino a saper leggere e scrivere.

1.3.1. L’abilità di lettura e le sue fasi evolutive durante l’apprendimento Come già accennato precedentemente, le difficoltà dei dislessici sono dovute a problemi nell’imparare a decodificare il testo scritto, causando problemi nell’identificazione delle parole (Vellutino et al. 2004). Per comprendere meglio la natura e le manifestazioni della dislessia evolutiva e per poter analizzare cos’è che non funziona correttamente nei pazienti con questo disturbo, è utile prima capire

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come avviene l’apprendimento della lettura e della scrittura nella lingua materna, quindi prendere in considerazione quali sono i meccanismi che vengono attivati e che rendono possibili tali processi.

Riconoscere una parola in forma orale è un processo ben diverso da quello di decodifica di una parola scritta, sebbene le due modalità abbiano in comune l’attivazione di preconoscenze lessicali: ogni volta che ascoltiamo o leggiamo una parola, la nostra memoria rende disponibili queste entrate lessicali, le quali ci consentono di comprendere il significato di quello che stiamo ascoltando o leggendo. Però, mentre la lingua orale si impara in modo naturale e spontaneo, quella scritta richiede un insegnamento specifico. Questo è dovuto al fatto che, quest’ultima, si basa su un complesso sistema di corrispondenze tra suoni e simboli grafici, che richiede la conoscenze delle regole necessarie per interpretarle.

Sono state proposte varie teorie evolutive che individuano diverse fasi progressive nell’apprendimento della lettura e che ci consentono dunque di interpretare le difficoltà che possono incontrare i dislessici mentre leggono. I modelli che hanno riscontrato maggior consenso sono quelli di Marsh (in Mackinnon e Waller, 1981), Frith (in Patterson et al., 1985), Ehri (in Barret al., 1991) e Goswami (1986)2.

Frith, identifica quattro fasi nell’apprendimento della lettura: quella logografica in cui il bambino riesce a leggere una parola se ricorre sempre nello stesso contesto ed è scritta con lo stesso tipo di carattere; la fase alfabetica durante la quale diventa in grado di applicare le regole di conversione grafema-fonema ma non comprende ancora la struttura gerarchica delle parole; la fase ortografica nella quale è capace di associare i fonemi in sillabe ed infine quella lessicale grazie alla quale ha immediato accesso alle entrate lessicali delle parole.

In base al suo modello, Frith ha anche assunto che se durante il processo di apprendimento della lettura il bambino non va oltre la fase alfabetica, allora risulterà difficile passare agli step successivi, di conseguenza aumentano le

2 In M. DALOISO, Lingue straniere e dislessia evolutiva: Teoria e metodologia per una glottodidattica accessibile, UTET Università, Torino, 2012.

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probabilità che il bambino risulti dislessico. Infatti, le difficoltà di lettura mostrate dai dislessici sono causate dal fallimento di padroneggiare le regole di conversione che vengono normalmente acquisite nella fase alfabetica. Perciò, Frith propone che è proprio questa fase ad essere crucialmente danneggiata nei bambini dislessici, provocando problemi nell’applicare le regole di conversione che causano la non riuscita della lettura di non-parole. Di conseguenza, i danni nella fase alfabetica causano problemi anche nell’abilità di spelling, causando difficoltà nel rappresentare bene i suoni e di riprodurli nella sequenza corretta di lettere per formare le parole.

1.3.1.1. Il Dual-Route Model

Figura 1.1: Il Dual-Route Model di Coltheart (1981)

Una volta completato questo processo evolutivo, si suppone, in campo neuropsicologico, che nella mente del bambino si formi un modulo specifico per gestire la decodifica scritta. Il cosiddetto Dual-Route Model3 postulato da Coltheart nel 1981, prevede due procedure distinte ed autonome: la via diretta è quella visiva, o lessicale, e quella indiretta è la via fonologica, o sublessicale. Il modello si basa

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sull’assunzione che le parole possano essere lette o attraverso l’associazione diretta tra ortografia e fonologia, oppure attraverso la corrispondenza indiretta tra fonema e grafema. La prima permette di leggere una parola collegando immediatamente la sua rappresentazione grafica con la corrispondente entrata lessicale attraverso l’utilizzo della memoria visiva. Ciò dipende dalla conoscenza di come l’intero vocabolo viene pronunciato, e permette dunque di richiamare alla memoria la rappresentazione ortografica di un lessema, dopo un veloce riconoscimento delle lettere, recuperando anche il significato e la forma fonetica. È dunque possibile solo per le parole già note, che sono state quindi già memorizzate, ed infatti viene utilizzata in prevalenza durante la lettura di lessemi che ricorrono frequentemente. La seconda invece, implica la conoscenza di come i singoli fonemi, o unità sublessicali, vengono pronunciati e rende possibile leggere i vocaboli utilizzando le regole di conversione grafema-fonema. Permette perciò di riconoscere le lettere attraverso il sistema visivo e recuperare nella memoria le unità fonologiche ad esse associate per ricostruire lettera per lettera la corretta pronuncia. Quindi, i vari fonemi vengono assemblati prima in sillabe e poi nella parola vera e propria, in modo tale che possa essere compresa e che si possa avere accesso alla sua entrata lessicale. In questo caso si possono leggere parole sconosciute, dal momento che questo processo si basa sul meccanismo di conversione grafema-fonema.

Generalmente durante i primi anni di apprendimento della lettura il bambino fa maggior uso della via fonologica, dovendo ricorrere alle regole di conversione grafema-fonema e alle sue abilità fonologiche per memorizzare nuove parole. Man mano che poi il suo vocabolario si arricchisce, comincia ad utilizzare sempre più spesso la via visiva. L’adulto, infatti, nel processo di lettura utilizza prevalentemente la via lessicale e ricorre alla via fonologica per le parole nuove, come ad esempio per i lessici specialistici, ma anche come verifica quando coglie incongruenze nella ricostruzione del significato (Daloiso, 2012).

L’insieme dei problemi di lettura che manifestano i dislessici suggerisce che entrambe le vie, quella lessicale e sublessicale, siano in qualche modo danneggiate. Infatti, la tendenza a leggere meglio le parole familiari e più corte, indica che i dislessici ricorrono essenzialmente alla via lessicale, forse basandosi su qualche

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caratteristica visiva, come ad esempio le lettere iniziali per identificare la parola. Naturalmente, questo procedimento non è del tutto affidabile ed è fonte di errori che si riflettono, infatti, nella tendenza dei dislessici a confondere parole che si assomigliano. Dal momento che i dislessici hanno performance peggiori quando devono leggere non-parole, rispetto a quando devono leggere parole molto familiari, sembra che il danno riguardi la via sublessicale, dato che il modello modulare del doppio accesso postula che le non-parole non possono essere lette tramite la via lessicale visto che non hanno una rappresentazione fonologica immagazzinata nel lessico ortografico. L’inabilità dei dislessici di leggere non-parole sembra suggerire, perciò, che alcuni aspetti della loro via sublessicale sono danneggiati in maniera tale da impedirgli di applicare velocemente e automaticamente le regole di conversione grafema-fonema. Come conseguenza la loro lettura risulta lenta, incorretta e richiede un notevole sforzo.

1.3.1.2. Il Balance Model

La fisiologia del cervello umano insieme al suo funzionamento in relazione ai processi cognitivi, pone le basi per il Balance Model dell’apprendimento della lettura, proposto da Bakker negli anni Novanta. Si parte dal presupposto che l’emisfero sinistro sia specializzato, o comunque dominante per il linguaggio nella maggior parte delle persone, mentre l’emisfero destro riguardi la percezione della forma, del genere e della direzione (informazioni di tipo visuo-spaziali). Questo modello presume che entrambi gli emisferi siano simultaneamente implicati nel processo di lettura, anche se non allo stesso modo. Si nota una maggiore attivazione dell’emisfero destro quando il testo include alcune caratteristiche più impegnative, come ad esempio caratteri inusuali o disegni. Nelle fasi iniziali dell’apprendimento della lettura l’analisi spazio-percettiva della forma delle lettere e delle stringhe di lettere, l’identificazione dei nomi delle lettere e delle parole non familiari richiedono maggior attivazione di questo emisfero. Dall’altro lato, invece, nelle fasi di lettura avanzate vengono utilizzate strategie che sono sotto il controllo dell’emisfero sinistro. Perciò, il processing visuo-spaziale diventa sempre più automatico e quindi le strategie linguistiche, ovvero le analisi sintattiche e

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semantiche, diventano maggiori, e dunque si passa da una dominanza dell’emisfero destro ad una dominanza dell’emisfero sinistro, che normalmente avviene intorno all’ottavo anno di età.

Bakker propone anche una spiegazione delle difficoltà specifiche nell’apprendimento della lettura. Postula l’esistenza di due tipi di dislessia: il tipo P e il tipo L, che rappresentano la predominanza nell’utilizzo di strategie percettive (P) o linguistiche (L) (Nijakowska, 2010). Le difficoltà emergono nel caso in cui, durante il processo di apprendimento della lettura, il passaggio della dominanza dall’emisfero destro a quello sinistro avviene troppo tardi (tipo P) o troppo presto (tipo L). Un bambino con dislessia del tipo P fallisce nell’utilizzo delle strategie dell’emisfero sinistro, necessarie per raggiungere una lettura fluente, e perciò la lettura risulta lenta, frammentaria, ma comunque accurata. Al contrario i dislessici di tipo L, utilizzano le strategie linguistiche fin dall’inizio dell’apprendimento della lettura, ma mostrano meno abilità nel riconoscere la forma e la sequenza delle lettere automaticamente, e perciò leggono abbastanza velocemente ma fanno numerosi errori, che potrebbero comportare problemi di comprensione.

I due tipi di dislessia si possono dunque distinguere dalla velocità di lettura, dall’accuratezza e dal tipo di errori commessi, ovvero se sono errori di omissione, scambio tra la sequenza di suoni o sillabe, oppure frequenti pause, ripetizioni, lettura fonema per fonema. Il primo tipo di errori, chiamati “sostanziali” indica la predominanza dell’emisfero sinistro, mentre gli “errori di tempo” indicano la prevalenza dell’emisfero destro.

1.3.2. Problemi di lettura

Come è stato riportato da un gran numero di studi, i ragazzi dislessici manifestano una lettura molto lenta e inaccurata che richiede un notevole sforzo. Gli errori di lettura normalmente riguardano una scarsa capacità di discriminare grafemi simili ma graficamente opposti, come per esempio la “b” dalla “d”; grafemi simili che differiscono per un piccolo dettaglio, come ad esempio la “m” dalla “n”

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e grafemi che corrispondono a fonemi simili, come per esempio la “b” e la “p”, la “v” e la “f”.

Inoltre, spesso i dislessici tengono a sostituire parole che sembrano simili, anche se non hanno nessuna correlazione semantica, come per esempio nel caso dell’inglese play al posto di pay, what invece di that, oppure republic anziché publicity.

Difficoltà notevoli, inoltre, sorgono nel caso in cui debbano leggere non-parole, al contrario, invece, riescono a leggere più accuratamente le parole ad alta frequenza (Baddeley et al., 1988; Snowling et al., 1992).

Va comunque evidenziato il fatto che gli errori di lettura sono più frequenti in quelle lingue che hanno un sistema ortografico cosiddetto opaco, come ad esempio l’inglese, rispetto a lingue ortograficamente trasparenti, come l’italiano. Questo aspetto è discusso nel paragrafo 2.1.1.

Ad ogni modo, si ritiene che la variabile più sensibile quando si fa una comparazione tra le performance tra lingue diverse non è tanto l’accuratezza, quanto piuttosto la velocità di lettura.

Dunque, il deficit maggiore che manifestano i dislessici tra i vari paesi, sembra essere appunto una scarsa fluenza di lettura, caratterizzata da un processo di decodifica estremamente lento e impegnativo. Inoltre, i dislessici generalmente manifestano grandi difficoltà quando gli viene chiesto di leggere non-parole o parole sconosciute, e i loro problemi aumentano in proporzione alla lunghezza dello stimolo che gli viene sottoposto. Infine, tendono a commettere errori che rivelano la loro difficoltà nell’applicare le regole di conversione ortografico-fonologiche.

1.3.3. Problemi di spelling

Un altro sintomo generalmente associato alla dislessia evolutiva è l’inabilità di acquisire buone competenze di spelling durante la scrittura. Rispetto alla lettura, la scrittura è più complicata in quanto spesso c’è più di una possibilità di scrivere una parola in un modo fonologicamente accettabile, soprattutto nelle lingue

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caratterizzate da una corrispondenza non univoca come in inglese, per esempio air e heir.

Come è stato evidenziato da Caravolas e colleghi (2001), la scrittura è influenzata da varie abilità, come la familiarità con le corrispondenze tra grafema e fonema, l’abilità nel riconoscere le lettere dell’alfabeto e la conoscenza dell’ortografia dovuta alla lettura. Inoltre, è ritenuto che la padronanza dello spelling richiede, oltre alle abilità fonologiche, anche attenzione, abilità motorie (nel caso della scrittura) e memoria visiva.

Dato che i dislessici manifestano una scarsa consapevolezza fonologica e problemi con la decodifica, è normale supporre che anche l’abilità di spelling sia ridotta, come previsto da Ehri (1991, 1997), il quale afferma che lo spelling è inevitabilmente connesso allo sviluppo della lettura.

Bourassa e Treiman (2003) hanno condotto dei test per verificare la performance sia orale che scritta dello spelling, lavorando con un gruppo di bambini dislessici e con bambini normolettori ma più piccoli di età. La performance dei bambini dislessici è risultata allo stesso livello dei bambini più piccoli, producendo lo stesso tipo di errori di spelling. Questi errori includono l’omissione della seconda consonante in cluster complessi (tip invece di trip), l’omissione delle consonanti doppie (diner anziché dinner), la confusione di grafemi corrispondenti a fonemi simili (tomado al posto di tomato), e spelling irregolare (packt invece di packed).

Inoltre, Bourassa e Treiman hanno trovato che entrambi i gruppi di bambini tendevano a rappresentare le parole meglio delle non-parole, suggerendo il fatto di utilizzare le strategie ortografiche per recuperare la forma visiva della parola. Ovviamente, infatti, non è possibile ricorrere agli aspetti visivi per recuperare lo spelling di stimoli inventati. Questo risultato può essere interpretato nello schema del modello modulare del doppio accesso, offrendo interessanti parallelismi con la lettura. Come abbiamo visto precedentemente, i bambini dislessici sembrano usufruire maggiormente della via lessicale per la lettura, e dato che manifestano più problemi con lo spelling delle non-parole, sembra plausibile supporre che adottino una strategia simile, recuperando la forma visiva delle parole dal lessico fonologico,

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che è connesso con un lessico ortografico per la produzione, e immagazzinando la forma scritta delle parole. Postulare l’esistenza di un modello modulare di doppio accesso per lo spelling, simile a quello per la lettura, permette di spiegare perché i dislessici hanno meno problemi con lo spelling di parole conosciute e frequenti, rispetto allo spelling di non-parole.

Perciò, così come previsto per la lettura, sembra che la via sublessicale, che dipende fortemente dalle regole di conversione grafema-fonema, sia particolarmente debole nei soggetti dislessici.

1.3.4. Problemi linguistici

I problemi linguistici che manifestano i soggetti dislessici non riguardano solo il dominio della fonologia, ma anche quello della morfologia, della sintassi e della semantica, e differenze significative riguardano anche lo sviluppo del vocabolario e il recupero lessicale.

Ad ogni modo uno studio condotto da Ramus et al. (2003) ha mostrato che il 100% dei dislessici soffre di difficoltà fonologiche, in particolare di una scarsa consapevolezza fonologica, la quale può essere definita come un’abilità metalinguistica che riguarda la conoscenza consapevole individuale della struttura fonologica delle parole, ovvero della precisa sequenza di suoni che le compongono. Gli studiosi generalmente sono d’accordo nel ritenere questa consapevolezza necessaria per la lettura: la decodifica di parole, infatti, richiede la conoscenza della loro struttura interna, poiché implica il collegamento tra grafemi e fonemi.

Un convincente numero di prove, infatti, conferma che i dislessici hanno una scarsa performance nei test fonologici e anche la loro consapevolezza fonologica è decisamente inferiore, suggerendo che le loro difficoltà nell’analizzare la struttura sonora delle parole siano responsabili per la loro incapacità di acquisire le corrispondenze sistematiche tra l’ortografia e la fonologia. Coerentemente con quanto detto finora, diversi studi hanno dimostrato che i bambini con una scarsa consapevolezza fonologica, generalmente, non hanno una lettura fluente, mentre bambini con una consapevolezza fonologica maggiore sono anche buoni lettori. Al

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contrario, chi ha problemi nella lettura mostra di essere anche significativamente in difficoltà nei compiti di consapevolezza fonologica (Snowling 1995). Per cui, questi risultati hanno portato gli studiosi ad affermare che la competenza fonologica danneggiata mostrata dai bambini dislessici è la causa più influente per i loro deficit di lettura e di spelling. Inoltre, la scarsa consapevolezza fonologica può tener conto anche dei deficit della lettura di non-parole normalmente individuata negli individui dislessici: l’abilità di leggere parole pronunciabili ma prive di significato, infatti, dipende fortemente dai processi fonologici e di conseguenza dalla consapevolezza fonologica. Oltretutto, studi condotti per verificare la codifica fonologica nei soggetti dislessici, hanno mostrato che i dislessici percepiscono i confini fonetici in maniera minore rispetto ai normolettori e che ottengono risultati più bassi nella ripetizione di parole sia ad alta che bassa frequenza e specialmente delle non-parole (Brady et al. 1983, Elbro 1997).

Paulesu et al. (2001) hanno condotto uno studio con il quale hanno mostrato che i soggetti italiani sono meno danneggiati rispetto a quelli francesi o inglesi nei test di lettura, grazie alla maggiore trasparenza del loro sistema ortografico. Comunque, gli italiani hanno avuto performance peggiori rispetto al gruppo di controllo, così come è stato mostrato anche con i dislessici inglesi e francesi sia nella velocità, sia nella lettura di parole e di non-parole, denominazione, memoria a breve termine, spoonerismi. Questi risultati supportano l’idea che la dislessia sia associata ad un deficit fonologico, il quale sembra manifestarsi nelle diverse lingue e nei diversi sistemi ortografici.

Ad ogni modo, anche deficit di vocabolario e problemi nel trovare le parole sono spesso riportati nella letteratura a proposito della dislessia. In modo particolare, il vocabolario dei bambini dislessici risulta essere sottosviluppato in confronto al livello dei bambini della stessa età. In più, sono stati trovati anche un significativo effetto della lunghezza delle parole, ovvero tanto più lunga è una parola e tanto più scarsa risulterà la performance, e un effetto di frequenza, cioè meno una parola è frequente e peggiore sarà la performance (Wolf e Obregon, 1992).

Diversi studi (Bishop, 1991; Muter e Snowling, 1998) hanno dimostrato che i deficit linguistici nella dislessia non sono ristretti solo al dominio della fonologia,

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ma anzi riguardano anche la competenza grammaticale, influenzando la performance dei dislessici in compiti sulla morfologia, sulla sintassi e sulla semantica. La correlazione tra l’abilità sintattica o grammaticale e la padronanza di lettura è stata suggerita inizialmente da Fry, Johnson e Muehl (1970), i quali mostrarono che i “cattivi” lettori producevano significativamente costruzioni meno complesse rispetto ai loro compagni, prova che è stata confermata anche da Muter e Snowling nel 1998, i quali hanno suggerito che dalla competenza grammaticale dei bambini nella prima infanzia si può prevedere il conseguimento o meno di una buona lettura. Anche Bishop (1991) ha portato avanti diverse ricerche con lo scopo di dimostrare l’esistenza di una correlazione tra le abilità semantiche e sintattiche e i problemi di lettura.

1.3.5. Deficit attentivi

L’attenzione può essere definita come un meccanismo volontario attraverso il quale il soggetto orienta le risorse di elaborazione verso un determinato obiettivo, mantenendo l’informazione rilevante e tralasciando gli stimoli non pertinenti. Un comportamento generalmente distratto è stato spesso riportato come un sintomo tipico manifestato dai bambini dislessici. Precisamente, i dislessici sembrano mostrare una perdita di concentrazione, alti livelli di distrazioni e periodi di attenzione molto brevi rispetto ai bambini senza il disturbo della dislessia. Naturalmente questi deficit dell’attenzione sono la causa della tendenza a dimenticare il contenuto delle istruzioni, a perdere il filo del discorso e spesso ad abbandonare un’attività prima di portarla a termine. Inoltre, sono state riportate anche difficoltà nello spostare l’attenzione da un compito ad un altro, nell’organizzazione e nel monitoraggio delle attività e nell’inibizione degli stimoli irrilevanti.

In un interessante studio, Everatt et al. (1997) hanno esaminato la rilevanza del cosiddetto effetto Stroop sia nei bambini dislessici che nel gruppo di controllo. L’effetto Stroop prende il nome dallo psicologo John Ridley Stroop, il quale ha testato le conseguenze prodotte sull'attenzione da alcune interferenze indotte dalla differenza fra il significato della parola e il colore con cui questa è stampata. Per

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esaminare la performance delle persone che hanno partecipato alla sperimentazione sono state create diverse condizioni: nella prima gli è stato chiesto di leggere parole, che denominano colori, stampate con inchiostro nero; mentre nella seconda condizione gli è stato chiesto di nominare il colore dell’inchiostro usato per le parole, stampate, però, con una tinta diversa rispetto a quella denotata dalla parola stessa.

Figura 1.2: Effetto Stroop

Per fare un esempio: se la parola “blu” è stampata con l’inchiostro rosso, il soggetto dovrebbe dire “rosso” invece di leggere “blu”. Stroop ha osservato che i tempi di risposta sono stati notevolmente più lunghi nella condizione sperimentale, piuttosto che in quella di controllo. Come motivazione, Stroop ha proposto che l’incremento nel numero di risposte sia causato dall’interferenza della tendenza a leggere la parola con il riconoscimento del colore. Più nello specifico, Stroop ritiene che questa interferenza sia determinata dall’associazione automatica della parola letta al suo contenuto semantico: in pratica il soggetto legge la parola “blu” e pensa automaticamente al colore blu. Ma in questo caso il soggetto deve inibire il contenuto semantico della parola letta, poiché il compito richiede di dire il colore dell’inchiostro con il quale la parola è stata scritta. Questo processo di inibizione è quindi necessario per raggiungere l’obiettivo del compito, in quanto permette di escludere quelle informazioni che risultano essere irrilevanti per lo scopo dell’esperimento e di mantenere solo quelle rilevanti. Ed è proprio questo meccanismo che è dominato dall’attenzione. Everatt e i suoi colleghi hanno dimostrato che i bambini dislessici sono decisamente più lenti anche in confronto al gruppo di controllo di bambini più piccoli. Perciò i dislessici mostrano un

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maggior effetto di interferenza, portando quindi a suggerire che sono meno capaci di controllare e inibire il processo che riguarda il significato delle parole; ciò implica che il processo di controllo è meno produttivo nella dislessia. Di conseguenza, i processi attentivi sembrano essere più deboli e limitati negli individui dislessici.

1.4. Teorie sull’eziologia della Dislessia Evolutiva

Per quanto riguarda le cause, come abbiamo affermato in apertura del capitolo, la dislessia è un fenomeno di natura complessa che può quindi dipendere da fattori diversi che possono verificarsi indipendentemente l’uno dall’altro ma anche in maniera combinata. È stata osservata, infatti, una relazione tra le condizioni biologiche (genetiche e neurologiche) ed ambientali (familiari e scolastiche) e a livello cognitivo si è riscontrato un deficit nell’elaborazione fonologica delle informazioni. Per cui, il disturbo non si presenta mai uguale nei diversi soggetti, ma anzi, ha manifestazioni molto variabili. Di conseguenza è molto difficile non solo diagnosticarlo, ma anche comprenderne le origini, che è fondamentale per poter elaborare modelli di educazione linguistica adatti alle necessità individuali.

Nel corso degli anni sono state sviluppate numerose ipotesi, spesso anche in contrasto tra loro, che provano a spiegare le possibili cause dal punto di vista neurobiologico, genetico, cognitivo. Di seguito vengono illustrate le principali teorie che finora sono quelle che hanno riscosso maggior consenso nella letteratura, ma bisogna sempre tenere presente che non si è ancora pervenuti ad una visione univoca delle possibili cause della dislessia evolutiva.

1.4.1. Ipotesi in ambito neuropsicologico

Come abbiamo avuto modo di vedere nel paragrafo 1.3.1.1, il “modello modulare del doppio accesso” teorizzato da Coltheart, prevede che le parole possano essere lette tramite due diverse vie: la via fonologica che coinvolge il processing dei singoli fonemi che costituiscono la parola e la via lessicale basata sul riconoscimento diretto dell’intero pattern di lettere, senza apparente bisogno di

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una mediazione fonologica. Questo modello descrive quali sono i processi implicati nella lettura da parte di soggetti adulti che hanno già imparato a leggere, e che tipo di deficit si potrebbe presentare nel caso tali modalità di lettura vengano lesionate e non siano più operative (dislessia acquisita). A seconda del tipo di strategia deficitaria, si può distinguere tra dislessia fonologica, superficiale, e profonda.

La dislessia fonologica o disfonetica inibisce la conversione grafema-fonema. Il soggetto affetto da questa forma di dislessia presenta un basso grado di consapevolezza fonologica, e incontra difficoltà nella decifrazione di parole non familiari e nella lettura di non-parole (parole possibili ma che non hanno significato nella sua lingua) rispetto alla lettura di parole frequenti ed irregolari.

La dislessia superficiale o diseidetica riguarda la via visiva, ovvero la capacità di stabilire una connessione tra forma grafica, significato e forma fonologica degli items lessicali. I sintomi sono l’inefficienza nella lettura di parole irregolari, mentre vengono lette bene le non-parole. In Italia sono pochi i casi di dislessia superficiale poiché l’italiano è una lingua con ortografia trasparente. Tale deficit sarebbe riconducibile all’incapacità del bambino di costruirsi un vocabolario lessicale, indispensabile per automatizzare la lettura, mentre non presenta difficoltà a compiere la conversione grafema-fonema, ma la lettura risulta pertanto lenta.

La dislessia profonda o mista è invece caratterizzata dai sintomi tipici di entrambe le categorie precedenti, cioè causa difficoltà sia nella lettura di parole irregolari che di non-parole, nella velocità di lettura e nella conversione grafema-fonema. Può comportare anche errori strettamente semantici, come ad esempio leggere “malato” al posto di “infermo” o viceversa.

Basandosi dunque sull’idea che i normolettori possono usare due diverse modalità per decodificare il testo, è stata evidenziata l’esistenza di queste due forme di dislessia, fonologica e superficiale, e sembra che i due sottotipi riconoscano contributi causali differenti, essendo quella fonologica più tipicamente ereditaria e quella superficiale maggiormente dovuta a cause di tipo ambientale. Viene sostenuta così la tesi che dislessie ‘diverse’ siano riconducibili a cause differenti. Ma un ulteriore problema consiste nel fatto che la natura e la gravità del deficit

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possono variare nei diversi stadi evolutivi della vita del soggetto con dislessia evolutiva.

1.4.2. Teoria genetica

La teoria genetica è uno dei primi tentativi utilizzati per spiegare le cause della dislessia. Presuppone una relazione tra la presenza del disturbo e l’ereditarietà di alcune caratteristiche anatomiche e funzionali del sistema nervoso centrale, che determinerebbe l’esistenza delle difficoltà nella lettura e nello spelling. Sin dall’inizio una prova evidente per l’ipotesi di ereditarietà ci è stata data da studi familiari e gemellari, che hanno mostrato la tendenza della dislessia evolutiva di ricorrere nelle famiglie. Sembra che circa il 25% dei casi di dislessia siano geneticamente condizionati. Tuttavia, ci sono autori che sono convinti che la percentuale sia molto più alta, almeno il 50-60% dei casi. Al di là dei numeri, l’ipotesi più forte è che un bambino che ha almeno un genitore dislessico è ad elevato rischio di avere problemi di lettura, e secondo Snowling (2003), la gravità del disturbo di lettura nei bambini a rischio di dislessia è direttamente proporzionale alla gravità del deficit dei genitori.

Gayan e Olson (1999) ritengono che sia il riconoscimento delle parole che le abilità di decodifica fonologica siano fortemente influenzate geneticamente, mentre la componente di codifica ortografica sarebbe meno ereditabile. Al contrario Stein (2001) afferma che non solo l’abilità fonologica ma anche quella ortografica sarebbe trasmissibile geneticamente.

Ciò che si evince, però, è che la dislessia non è causata da un singolo gene, ma piuttosto dalla combinazione e dall’interazione di diversi tipi. Studi di genetica molecolare hanno come obiettivo quello di identificare determinati geni nelle sequenze del DNA o marcatori genetici che potrebbero essere responsabili dello sviluppo di tale disturbo. È molto probabile che il rischio di ereditare la dislessia dipenda dalla combinazione dei diversi geni con l’influenza dell’ambiente circostante (Hulme e Snowling, 2009). E infatti non c’è un’indicazione precisa dell’esistenza di geni specifici associati con la dislessia, ma solo delle posizioni

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approssimative del numero di quelli che sarebbero implicati nella trasmissione genetica.

I risultati dei vari studi di genetica eseguiti soprattutto in tempi recenti, convergono, anche se non in maniera completamente univoca, ad indicare i cromosomi 1, 2, 6 e 15 (Pennington et al., 1990), i marcatori genetici 6p21 e 15q21 (Morris et al., 2000) e i geni DYX3, DYXC1 E DCDC2 (Fagerheim et al., 1999) come i responsabili, con molte probabilità, del disturbo della dislessia.

I fattori di rischio che predispongono alla dislessia evolutiva sono dunque principalmente genetici, tuttavia il modello di trasmissione genetica della malattia è complesso, in quanto pare che siano più geni a svolgere un ruolo causale e che ciascuno di essi non sia sufficiente a determinare il disturbo.

1.4.3. Ipotesi di matrice neurofisiologica

I primi studi sistematici tesi a localizzare la dislessia a livello cerebrale risalgono agli anni Settanta. Come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, con lo sviluppo delle nuove tecniche di neuroimmagine è stato possibile andare ad osservare il cervello in vivo, ovvero in azione, in maniera totalmente non invasiva e indolore. Le principali tecniche che sono state sviluppate per studiare il cervello sono la tomografia ad emissione di positroni4 e la risonanza magnetica funzionale5. In breve, la prima consiste nella somministrazione per via endovenosa di radiofarmaci che emettono delle particelle chiamate positroni, i quali una volta distribuiti nel corpo del paziente permettono di ottenere delle immagini diagnostiche. La seconda invece utilizza le proprietà magnetiche dei nuclei degli atomi costituenti la materia e il nostro corpo; i segnali di risonanza delle molecole magnetizzabili vengono misurati mediante l’aiuto di campi magnetici e onde radio. Questa tecnica permette di fare una mappa delle aree cerebrali che si attivano durante l’esecuzione di un determinato compito.

4 L’acronimo con il quale è comunemente conosciuta è PET, dall’inglese positron emission tomography.

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Negli ultimi trent’anni sono state condotte numerose ricerche con lo scopo di identificare il punto danneggiato a livello cerebrale che causa la dislessia. Anche se ancora non si è arrivati ad una conclusione totalmente univoca, a causa delle difficoltà tecniche nell’individuare con precisione un’area specifica del cervello che risulti diversa nei dislessici, gli studi condotti finora hanno rilevato elementi di atipicità nel cervello di soggetti dislessici sia a livello strutturale che a livello di attivazione neuronale.

Le prime ricerche condotte sulla struttura cerebrale, però, sono state condotte post-mortem con lo scopo di verificare l’ipotesi che la dislessia dipendesse da fattori biologici. I risultati più importanti sono quelli che riguardano il planum temporale, un’area cerebrale che si trova nel lobo temporale, il quale negli adulti è generalmente asimmetrico e spesso più grande nell’emisfero sinistro. La parte del planum temporale che si trova in quest’ultimo emisfero è dedicato alla funzione linguistica e sembra quindi essere implicato nei deficit linguistici (Vellutino, 2004). I primi studi risalenti agli anni Settanta ed Ottanta portati avanti da Geschwind e Galaburda hanno mostrato un’atipicità a livello di simmetria cerebrale nei cervelli dei dislessici. Generalmente, nel cervello di soggetti sani, l’emisfero sinistro, che è specializzato nell’elaborazione linguistica, è più grande rispetto all’emisfero destro, dedicato maggiormente alla cognizione dello spazio e alla regolazione dell’emotività. Quello che è emerso dagli studi che hanno indagato il cervello con le nuove tecniche di neuroimmagine è che tale asimmetria non si riscontrerebbe nel cervello del soggetto dislessico. In alcuni casi è riscontrabile una simmetria perfetta tra i due emisferi, in altri casi addirittura un’asimmetria al contrario, in cui sarebbe maggiormente sviluppato l’emisfero destro. Oltre a ciò, sono state notate anche anomalie nell’emisfero sinistro di individui dislessici, che includono il giro frontale inferiore, meglio conosciuto come area di Broca ed identificato come il fulcro del linguaggio.

Inoltre, sono state notate delle differenze nell’attivazione dei due emisferi durante la lettura e i compiti fonologici utilizzando le tecniche di PET e fMRI. Le regioni posteriori dell’emisfero sinistro, ovvero le aree temporo-parietale e occipito-temporale, mostrano un’ipoattivazione rispetto al cervello dei soggetti

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sani. Ed in più sono state rilevate anche delle ectopie microscopiche, quindi delle minime differenze nella posizione delle aree cerebrali che risultano più marcate nelle aree del linguaggio.

1.4.3.1. Teoria cerebellare

Un’altra parte della struttura cerebrale che è stata studiata è il cervelletto, che si trova nella parte posteriore del cervello. Fino agli anni Novanta, era ritenuto coinvolto solo nell’apprendimento e nella coordinazione delle abilità motorie, fino a quando non si è stati in grado di provare il coinvolgimento anche durante il processo di lettura. Attualmente, perciò, il cervelletto è considerato come la sede che consente varie abilità, sia di tipo motorio che linguistico e cognitivo.

Fawcett e Nicolson (2001, 2004) ritengono che i problemi di lettura derivino da un deficit cerebellare. Infatti, sono state dimostrate delle anomalie strutturali presenti nei cervelletti dei pazienti dislessici sia a livello morfologico sia di attivazione neuronale. Queste anormalità consisterebbero nelle maggiori dimensioni delle cellule, nonché di neuroni più grandi e neuroni più piccoli nei pazienti dislessici che fanno pensare che possano verificarsi problemi a livello di input nel cervelletto.

Anche il cervelletto è suddiviso in due emisferi che normalmente non sono simmetrici, infatti in genere la parte destra è più grande rispetto alla sinistra. Ma gli studi condotti sia con persone dislessiche, che con soggetti sani, hanno mostrato che solo in quest’ultimi è presente questa asimmetria, che non è stata riscontrata nei pazienti dislessici. Dal momento che è stata trovata una correlazione tra la lettura di non-parole e una proporzione nella simmetria della materia grigia, gli studiosi hanno ipotizzato che la presenza di una simmetria cerebellare nei dislessici potrebbe essere correlata alla gravità del danno.

Dunque, ciò che è emerso da questi studi, che è ciò che suggerisce la teoria cerebellare, è che vi sia una minore attivazione del cervelletto nei soggetti dislessici rispetto ad individui sani. Questa teoria permette di tenere conto anche della differenza nei movimenti oculari durante la lettura dei soggetti dislessici e anche

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nelle abilità di movimento e di coordinazione, dal momento che il cervelletto è responsabile non solo dell’acquisizione linguistica e delle funzioni cognitive, ma anche dell’automatizzazione delle abilità motorie.

Comunque tutte le scoperte tramite analisi post-mortem e con le tecniche di neuroimmagine mostrano una grande complessità delle basi neuroanatomiche della dislessia che non possono essere ricondotte ad una sola area del cervello. Nonostante alcuni risultati sembrino essere anche contradditori, perlopiù a seconda delle differenze metodologiche, e dunque non è ancora possibile identificare l’esatta area cerebrale alla quale circoscrivere il danno, dimostrano in ogni caso che esistono chiari fattori neurobiologici che differenziano il cervello dei normolettori da quello dei dislessici, e permettono di affermare l’esistenza di basi anatomico-fisiologiche per la dislessia.

1.4.3.2. Ipotesi del deficit visivo e acustico

Le prime ipotesi sulla dislessia, che sono state le più influenti fino agli anni Settanta del Novecento, sono la teoria del deficit visivo e quella del deficit uditivo. Abbiamo già parlato nel paragrafo sullo sviluppo storico dello studio sulla dislessia che ricercatori come Hinselwood e Orton inizialmente attribuivano al disturbo una strana “cecità per le parole”. Altri autori hanno ritenuto che i dislessici soffrissero di deficit di processing visivo implicando difficoltà nelle sequenze visive e nella memoria visiva, così come di strani movimenti oculari, causando problemi nella lettura.

Alla fine degli anni Settanta, Vellutino criticò duramente la teoria del deficit visivo, dimostrando che i disturbi visuo-percettivi non hanno nessun ruolo nella dislessia. In più, è stato dimostrato anche che le abilità visive non sono predittive riguardo l’abilità di lettura, ovvero le difficoltà di lettura non possono essere determinate da fattori visivi, ma piuttosto sono dovute a deficit linguistici.

Negli anni Sessanta, Alfred Tomatis, propose invece che la causa centrale del disturbo della dislessia fosse un deficit uditivo, responsabile della competenza fonologica del bambino. Infatti, secondo lo studioso, una ridotta percezione dei

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