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INDUSTRIES 3.1 L’azienda

4) METODOLOGIA DI LAVORO

4.1 HR Manager: Paolo Dolezzal

Mi racconti di come è maturata la decisione di intraprendere un percorso di team coaching all’interno dell’azienda.

Tutto nasce sempre dalle esigenze: la chiave di volta sta nell’intercettarle o nell’individuare quelle che sono le necessità, quindi le possibilità di miglioramento delle persone, e soprattutto nel far capire e accettare loro che ci sono dei punti da poter sviluppare che potrebbero apportare dei benefici nello svolgimento delle loro attività. Questo è il preambolo che può valere per tutti i percorsi di coaching, non solo questo nello specifico.

Qui è nato proprio così, parlando con Roberta ci si confrontava su come le sue risorse stessero performando, su come interagissero tra di loro e quale fosse la qualità degli output prodotti. Abbiamo avuto l’opportunità e la capacità di individuare delle aree di miglioramento che non potevano essere onestamente gestite internamente da me o da lei ma richiedevano l’intervento di professionisti ben qualificati. Confrontandoci, facendo un’analisi di quelle che erano le necessità e opportunità che si potevano cogliere all’interno del team ho condiviso con Roberta quello che poteva essere un percorso che avrebbe visto mettere in discussione tutto il team, lei compresa. Perché lei non doveva, non deve e non dovrà mai essere avulsa da quello che è il gruppo di persone con il quale interagisce, lavora, con il quale deve anche divertirsi, trovare gli stimoli giusti per motivare se stessa e gli altri. Molte volte le motivazioni non arrivano solamente da noi ma anche dai nostri collaboratori, dalla loro energia che riescono a trasmettere. Nel Team di Controllo di Gestione si era un po’ inceppato questo tipo di meccanismo per tanti motivi e questa è stata la chiave di volta che ha fatto scaturire in me e Roberta l’idea di approcciare il team coaching.

Conosceva già la metodologia del coaching?

Sì, avevo già utilizzato il coaching ma non con Nicoletta. Avevo già avuto modo di sperimentarlo a diversi livelli, per diverse necessità e con diverse finalità. È uno

strumento in cui credo e come per tutti gli strumenti credo nel loro utilizzo ponderato e allineato a quelle che sono le reali esigenze. Non sono uno sponsorizzatore del coaching per qualsiasi situazione, ritenevo e ritengo che il momento fosse maturo per poter proporre questo tipo di intervento a questo team. Molto probabilmente se si fosse verificato lo stesso tipo di situazione in un altro team avrei valutato e proposto altri strumenti e approcciato il problema in modo differente. Secondo me in questo caso c’erano gli ingredienti per la ricetta perfetta per far sì che il percorso condiviso col coach portasse a raggiungere i risultati che ci eravamo prefissati.

Il team aveva fatto richiesta della sua necessità di aiuto, c’era il giusto livello di apertura e interesse e la giusta maturità delle persone per capire che non era un momento ludico, una ricerca per meri motivi finanziari o professionali o un corso di formazione ma veniva data loro la possibilità di chiarirsi. Potevano trovare un modo differente per facilitare le loro interazioni, poter collaborare e lavorare con successo insieme.

Quali erano le criticità all’interno del team?

Le principali criticità riguardavano l’interazione tra le persone del team, la capacità comunicativa, l’accettarsi. È difficile anche nella vita privata accettare le persone così come sono, non solamente in quella professionale. Tutti questi aspetti vengono tendenzialmente amplificati in azienda perché, mentre nella vita privata abbiamo la possibilità di scegliere le persone che ci accompagnano, nella vita professionale no. Nel momento in cui decidi di lavorare all’interno di un gruppo, per quella tale società, a volte la principale barriera da superare è farsi accettare dagli altri e accettare gli altri per quello che sono. Bisogna cercare di trarre dagli altri il massimo che si possa ricevere, con i suoi pro e contro. Ognuno di noi ha la propria positività e può dare, mettere a disposizione degli altri il proprio contributo. È inaccettabile per una società che all’interno dei suoi team si creino situazioni di incompatibilità perché non permettono alla società e alle persone di poter crescere.

Questo era il problema principale che si stava verificando nel team: a causa di questa difficoltà di accettarsi, accettare le piccole differenze tra di loro di età,

interessi, background, provenienza e ruolo, invece di cercare di demolire questi muri aggiungevano dei mattoncini a loro difesa, complicando sempre di più la situazione. Ognuna lavorava a compartimenti stagni, portava avanti esclusivamente il suo compito, e la tensione tra loro si rifaceva anche nei confronti della responsabile. Roberta non solo non sapeva come affrontare questa situazione ma la subiva perché l’output dato dalle collaboratrici non era confacente ai desiderata e non veniva a sua volta aiutata. Da qui la necessità di avere un professionista che, con una veste differente rispetto a quella dell’HR locale interno o del responsabile di funzione, intervenisse, facesse da provocatore e facilitatore al tempo stesso per la risoluzione di queste dinamiche, che permettesse loro di confrontarsi apertamente e liberamente su quelle che erano le necessità, i dubbi, le perplessità di queste tre persone.

Cosa significa per lei responsabilizzazione delle persone? Che importanza ha la responsabilizzazione in azienda?

Lavoro in una società americana e da noi la responsabilità delle persone viene definita come accountability. L’essere accountable è un fattore di successo innanzitutto per se stessi, poi per le persone con le quali si interagisce e quindi per la realtà aziendale. Essere responsabile vuol dire andare a superare i propri meri interessi individuali e guardare l’obiettivo da un’altra prospettiva, rientra nel far qualcosa in più e assumersi la responsabilità di quello che si fa per far sì che tutti gli ingranaggi funzionino al meglio. Non siamo soliti assumere una prospettiva differente, per egoismo o perché costa fatica, e quindi non si diventa responsabili. La responsabilizzazione della persona è di fondamentale importanza per il successo della persona e dell’azienda.

Nel team si stava perdendo questo: la responsabilità delle persone verso il proprio lavoro e quello delle altre. Le persone comportandosi così non cresceranno mai. Se invece mi metto a disposizione della collega o della responsabile cercando di coadiuvarla, aiutarla, supportarla, potrei imparare qualcosa di nuovo, permettendomi di crescere immediatamente, anche in chiave prospettica perché magari un domani potrei diventare io la responsabile. Le persone a volte si autolimitano da sole, non accettano sfide gratuite a loro disposizione ma poi sono

le prime che essendosi oppresse si lamentano perché nessuno gli dà la possibilità di fare qualcosa di diverso, di imparare, crescere. Questo è non essere responsabili, se sono responsabile di me stesso e voglio qualcosa di diverso devo essere io a proattivarmi, le occasioni vanno anche cercate.

Come è stato messo in atto il percorso?

È stata fatta una comunicazione su diversi livelli: abbiamo parlato e condiviso il progetto con il Dott. Mora, Direttore Finanziario sud Europa e responsabile di funzione di Roberta, e con l’Amministratore Delegato. L’abbiamo comunicato alle organizzazioni sindacali per questione di trasparenza, condivisione dei progetti di formazione che si svolgono all’interno dell’organizzazione e chiesto il finanziamento da parte dei fondi interprofessionali per questo percorso formativo. Infine l’abbiamo comunicato al team.

Come è stato percepito il percorso all’interno dell’azienda dal Finance Director e dal team?

Il Dott. Mora era la prima volta che provava lo strumento del coaching e c’era da parte sua un po’ di scetticismo, però ci ha appoggiato dicendo «Se ci credete voi, ci credo anch’io». Questo è essere responsabili.

Da parte delle collaboratrici la comunicazione del percorso di team coaching è stata accettata in maniera differente: per alcuni aspetti l’hanno accolto in modo molto positivo perché arrivava da una loro esigenza, si sentivano finalmente ascoltate, con un’opportunità a loro disposizione per fare qualcosa, lavorare su di loro. Dall’altro lato c’è stata qualche piccola resistenza umana naturale e un po’ di mancanza di fiducia nei confronti dell’azienda dubitando su cosa avrebbero effettivamente fatto durante il percorso, su quali fossero le vere motivazioni dietro a questa proposta. In particolare Stefania ha mostrato un po’ di scetticismo in quanto dice di aver partecipato a questi tipi di progetti e aver visto pochi benefici, quindi c’è stata una resistenza ulteriore da parte sua dettata da questa esperienza pregressa di scarso successo.

Qual era la sua opinione verso la metodologia del coaching all’inizio del percorso? Aveva delle perplessità?

Per me il coaching è un insieme di metodologie e tecniche che servono per far sì che le persone vengano attivate o riattivate per poter stare meglio. Le aziende sono fatte di persone che stanno bene con se stesse e poi con gli altri, se non si sviluppa questo tipo di alchimia le aziende stanno male. Il 90% delle persone che lasciano un’azienda lasciano il proprio capo, non lasciano l’azienda. Le persone sono e devono essere al centro dell’attenzione se le aziende vogliono crescere. La metodologia del coaching permette alle persone di ragionare su se stesse, capire in che direzione vogliono andare, riprendere in mano la propria vita, nel caso aziendale con il fine di performare meglio e contribuire al successo dell’azienda per la quale si lavora.

Non avevo delle perplessità sul coaching in sé. Fa parte del mio ruolo verificare la professionalità di chi mette in atto il momento formativo di coaching, che purtroppo molti millantano ma non sanno fare, per mettere a disposizione dei professionisti che sono veramente capaci e sanno dare valore aggiunto all’azienda. Sullo strumento del coaching non ho mai avuto dubbi.

Quali differenze riscontra tra il coaching e altre metodologie che ha usato in azienda per la formazione?

Con le altre metodologie di formazione non si lavora sulle persone ma si lavora con le persone. Quando faccio un corso di formazione spiego, insegno una tecnica di lavoro, una regola, come si utilizza uno strumento. Non parlo ai miei interlocutori di loro e per loro, parlo di qualcosa che deve essere tendenzialmente utilizzato per migliorare, facilitare la vita lavorativa. È al centro lo strumento, il prodotto, la tecnica, non la persona. Il coaching invece è mettere al centro la persona ed accompagnarla al raggiungimento dei suoi obiettivi, facendoglieli prima conoscere, capire, accettare. Con il coaching non insegno niente, cerco di far ragionare le persone, fargli capire qual è il problema che devono risolvere, farglielo vedere da un’altra prospettiva.

Quali erano le sue attese e quali benefici pensava che questo percorso avrebbe apportato?

Attraverso questo percorso volevo che si ritrovasse un clima aziendale positivo nel microclima dell’ufficio, responsabilizzare le risorse che sono al suo interno e permettere loro di poter contribuire in modo proattivo alla vita aziendale, non solo dell’ufficio. Mi aspettavo che le interazioni tra le persone migliorassero, che ci fosse una maggior presa di coscienza da parte delle persone di quelli che erano i loro limiti e degli impatti che i loro limiti avevano sulle altre persone. Secondo me questo è stato raggiunto, in alcuni momenti anche in modo forte ma ne sono contento perché serviva dare una scossa far capire loro cosa effettivamente stesse succedendo e di cosa avessero bisogno per poter migliorare. Sono molto soddisfatto, adesso ad esempio ci sono momenti di confronto tra di loro in modo onesto e trasparente che prima non c’erano.

Quanto da 1 a 10 sono stati effettivamente soddisfatti? (Se non 10 per quale motivo?)

Sento che siamo arrivati a un 6 e mezzo. Per me il 10 vuol dire avere un’intesa e collaborazione tali per cui non c’è bisogno di dire cosa deve essere fatto, ciò di cui uno ha bisogno, perché l’altra persona si assume già il carico e la responsabilità di doverlo fare e portare avanti. Raggiungere il 10 è una strada lunga che devono continuare a precorrere senza dimenticarsi quello che hanno imparato e quello che devono fare. C’è un percorso che è stato attivato e che devono proseguire. È un percorso nato dalle loro necessità, in risposta alle loro esigenze quindi sono loro autrici e fautrici del loro stesso futuro.

Che cambiamenti ha percepito durante il percorso nella responsabile e nel team?

Roberta è più serena, contenta, soddisfatta di come la comunicazione sia oggi rispetto al passato. Le due collaboratrici hanno cominciato a parlarsi onestamente, senza troppi veli, guardandosi in faccia e non urlandosi da un muro all’altro. Lavorano di più e si aiutano di più. Oggi agiscono come una squadra di soccorso che va a aiutare in caso di emergenza, dobbiamo lavorare per far sì che

intervengano anche per prevenire l’emergenza. È un percorso lungo, che non si può ottenere con pochi interventi in un lasso temporale così corto.

Come ha influito nel clima aziendale il percorso di team coaching?

Certamente questo percorso ha influito sul clima aziendale. Quando le persone entrano nel loro ufficio trovano delle persone serene. La loro serenità fa sì che il raggiungimento degli output lavorativi avvenga con più facilità perché non c’è bisogno di supplicare, di chiedere, ma viene tutto in modo sufficientemente naturale. Tutto il processo viene facilitato e aiutato e anche il risultato finale beneficia positivamente di questo tipo di approccio.

Ci sono state delle problematiche durante il percorso? Se sì, come sono state affrontate e risolte?

Sì, sono emerse delle resistenze a livello individuale da parte di tutte e tre, e ognuna di loro sa come ha fatto a superarle. Le due collaboratrici hanno dovuto affrontare delle resistenze maggiori ma anche Roberta, benché fosse molto aperta e enormemente facilitata perché conosceva già la metodologia e Nicoletta, ha avuto delle piccole barriere. Stefania ad un certo punto voleva abbandonare il progetto, per incomprensioni o per comodità, perché si era arrivati a un punto talmente profondo che l’ostacolo per lei era troppo difficile da superare. Doveva mettersi in gioco totalmente ed era troppo per lei. Quando c’è un problema bisogna affrontarlo e parlarne, cercare di far ragionare le persone, così ho parlato con Stefania per farle capire la situazione in termini di vantaggi e svantaggi. Cosa avrebbe guadagnato nel continuare sulla sua posizione di resistenza? Cosa avrebbe perso? Cosa avrebbe invece guadagnato superando la posizione di resistenza? Credo, con un pizzico di soddisfazione, che sia stata questa un po’ la chiave di volta: farle capire realmente cosa avrebbe ricevuto di più se fosse stata piuttosto che se avesse lasciato.

Quali sono i risultati raggiunti ad oggi?

Abbiamo visto dei miglioramenti incoraggianti: una maggiore interazione nel team, lavorano meglio tra di loro e con gli altri, il clima all’interno dell’ufficio è

più sereno. Le collaboratrici sono più disponibili ad ascoltare ed essere messe in discussione perché hanno visto che l’essere messe in discussione non è un criticare senza proporre ma è un parliamo insieme per trovare la strada per potersi migliorare. Ci stiamo muovendo in questa fase: abbiamo smosso il terreno, lo abbiamo preparato alla semina e abbiamo appena seminato. I miglioramenti raggiunti ad oggi sono incoraggianti, fanno ben sperare ma sarebbe troppo limitante per il tipo di strumento che abbiamo utilizzato dire che abbiamo raggiunto i risultati oggi. Non c’è ancora livello di accountability maturo come piacerebbe a me. C’è il rischio che sia una correzione temporanea e poi magari ritornino fuori i vecchi comportamenti. È un cambiamento che richiede un periodo di incubazione e di crescita lungo. Adesso bisogna monitorare questo percorso, intervenire nel caso in cui ce ne sia bisogno. È un momento di lavoro però con un terreno fertile e pronto per essere coltivato, mentre prima si gettavano semi sull’asfalto perché le persone non erano pronte ad ascoltare.

Alla luce di questa esperienza quanto ritiene che il coaching sia utile in azienda? Per quali tipologie di obiettivi?

Questa esperienza ha avvalorato in modo positivo la mia convinzione che il coaching sia uno strumento utile per poter aiutare le persone all’interno di un’azienda a performare meglio e quindi a rendere performante l’azienda. È uno strumento che serve e che funziona.

Penso che sia utile per qualsiasi situazione in cui il cuore pulsante del progetto è la persona o il team di persone ma l’aspetto cruciale è la volontà. La percentuale di successo di un percorso di coaching sarebbe zero se la persona non si fosse resa disponibile, se la persona non è pronta qualsiasi tipo di strumento non servirebbe a nulla. La persona deve essere innanzitutto consapevole e pronta a seguire un percorso di coaching, che sia individuale, in team o aziendale. Chi si è attiva è sempre la persona stessa, il coaching è un aiuto ma è la persona che in primis deve lavorare su se stessa e questo richiede volontà, tempo e fatica.

Ha intenzione di riutilizzare il coaching in azienda? Se sì/no per quale motivo?

Non ho ancora smesso di usarlo quindi assolutamente sì. Credo in questa metodologia ma come per tutte le altre credo che non si debba abusarne. Bisogna individuare le esigenze e capire se lo strumento del coaching è adatto a risolvere quel tipo di esigenze o meno. A volte vedo un abuso dello strumento del coaching e così, come in tutti i casi di abuso, decade il vero valore dello strumento stesso perché perde di credibilità. Usare il coach per sostituire l’attività di un responsabile in azienda non porta risultati, al contrario porta a maggiore frustrazione, sviluppa dinamiche peggiori di quelle che c’erano prima e lo strumento è rovinato perché chi ha vissuto quel tipo di esperienza penserà che il coaching non serve a niente perché ha peggiorato la situazione che aveva. Il coaching non serve per sostituire la responsabilità di altri, non va usato in modo improprio perché altrimenti si rovina il lavoro professionale e la bontà di uno strumento che invece porta a risultati.