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I fondamenti teorici della critica del totalitarismo

Il totalitarismo come ‘abuso della ragione’

2 I fondamenti teorici della critica del totalitarismo

Per quanto lo si intenda comunemente e riduttivamente come un eco-nomista liberale che si è occupato anche di pensiero politico, per capire la critica di Hayek al totalitarismo bisogna tener presente che si tratta dell’unico filosofo politico del XX secolo la cui teoria dell’azione umana poggia su una teoria – originale – della conoscenza che ha per oggetto il funzionamento della mente umana, i suoi limiti e il modo in cui la mente classifica i ‘dati sensoriali’. Ciò che, sulla scia di Carl Menger,4 gli consente anche di elaborare una teoria dell’origine ed evoluzione delle istituzioni sociali (da cui l’‘individualismo metodologico’) che rappresenta un

cardi-3 Cfr. Kojève, Tyrannie et sagesse, del 1954, ora in traduzione inglese come «Tyranny and Wisdom» in Strauss, On Tyranny.

4 Cfr. Menger, Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften, und der

poli-tischen Ökonomie insbesondere, p. 163; trad. it. p. 150; dove si scrive che «il problema forse

più stupefacente delle scienze sociali [è] come possano mai sorgere istituzioni che servono il

bene comune e che hanno un’importanza fondamentale per il suo sviluppo senza una volontà comune orientata alla loro fondazione».

ne del Liberalismo classico del XX secolo di cui Hayek è indubbiamente il principale esponente. Una teoria particolarmente importante se soltanto si considera che per la loro nascita, funzionamento ed affermazione non occorre presupporre la coercizione.

A prima vista, da una lettura di The Road to Serfdom, potrebbe sembrare che per Hayek il totalitarismo sia soprattutto la degenerazione, in parte

non-intenzionale, del socialismo, e che egli intendesse mettere in guardia

i regimi democratici dal seguire l’esperienza sovietica. In tale prospettiva, si potrebbe spiegare tale esito come dovuto ad un’interpretazione (errata) del potere e dello Stato come risultati di una sopraffazione iniziale che la dittatura del proletariato avrebbe potuto emendare eliminando la proprietà privata e dando così vita ad un ordine senza coercizione.

Ma, se si tengono presenti gli scritti che negli anni immediatamente

precedenti Hayek aveva dedicato allo Scientism e ai temi della conoscenza, della sua distribuzione e del suo uso da parte della politica (vale a dire alla critica della collectivist economic planning), non si tarderà ad accorgersi che quei temi e quegli scritti sono bene presenti nella forma volutamente divulgativa che egli aveva voluto dare al suo libro e che, purtroppo, finirà per far passare per un pamphlet5 quello che è invece uno dei più grandi do-cumenti di quel XX secolo che fu profondamente influenzato dalla credenza che il sapere scientifico applicato alla pianificazione economica avrebbe dato vita ad un sistema politico-economico in cui tutti i bisogni individuali sarebbero stati finalmente appagati e realizzate tutte le umane aspettative. Dunque il totalitarismo che Hayek critica (ma senza pensare che il cam-biamento degli ingredienti potesse cambiare il risultato e dar vita ad un ‘totalitarismo buono’) è il risultato della fusione sia di idee di derivazione

marxistica, sia di derivazione scientistica.

Facendo esperienza dall’esito della sua polemica con l’amico John M. Keynes,6 Hayek si era reso conto che l’incidenza delle idee era in buona parte affidata al modo in cui venivano comunicate e che per far sì che l’avessero dovevano entrare in sintonia con la casuale distribuzione della conoscenza nella società. Da questo punto di vista, a riprova del fatto che per aver successo le idee devono essere capite, la tecnicità dei saggi sulla

5 Ne fu fatta anche una riduzione, cfr. von Hayek, The condensed version of The Road to

Serfdom, che ottenne un grande successo di vendite.

6 Una polemica che evidentemente non aveva inciso sulla reciproca stima personale e scientifica, tant’è che, nella lettera di risposta (del 28 giugno 1944, ora in Wapshott, Keynes

Hayek, pp. 198 sgg.) ad Hayek che gli aveva inviato copia di The Road to Serfdom, Keynes, pur

avanzando delle riserve e delle obiezioni, così scrive: «the voyage has given me the chance to read your book properly. In my opinion it is a grand book. We all have the greatest reason to be grateful to you for saying so well what needs so much to be said. You will not expect me to accept quite all the economic dicta in it. But morally and philosophically I find myself in agreement with virtually the whole of it; and not only in agreement with it, but in a deeply moved agreement».

relazione tra economia e conoscenza raccolti poi nel 1948 in

Individual-ism and Economic Order, e nei quali non è difficile ritrovare riferimenti a

quell’opera ancor più innovativa e tecnica che sarà poi The Sensory Order, del 1952, deve essere vista specularmente al carattere divulgativo di The

Road to Serfdom.

Per Hayek il totalitarismo è dunque l’esito di quella road to serfdom che ha abbacinato gli ultimi secoli della modernità e che la cultura politica pre-dominante non seppe riconoscere tempestivamente perché ne era parte. O che forse evitava di affrontare per non mettere in discussione i miti sui quali si era formata la modernità. Le sue pagine sul totalitarismo sono dun-que tuttora attuali perché, se il totalitarismo è un ‘male congenito alla vita politica’, la possibilità che si presenti in forme inedite e dietro le ideologie più accattivanti è perennemente attuale. Tanto da indurre a chiedersi quale sia la natura del rapporto della politica con la tirannide antica e moderna,

se sia ineluttabile o accidentale, e quale possa esserne l’antidoto.

Soltanto in quest’ultima prospettiva, pertanto, diventa importante chie-dersi quale tipo di regime politico risulti maggiormente esposto alla dege-nerazione. Interrogarsi sul perché dell’endemicità del pericolo totalitario significava così interrogarsi non soltanto sulla natura della modernità, ma anche su quella della stessa filosofia politica. Significa, sostanzialmente, rifiutare la visione salvifica della politica, della storia e della scienza come soluzioni del problema umano.

Da questo punto di vista, essendo estranea e critica nei confronti del-le tendenze che hanno contraddistinto la modernità (in particolare dello

Scientism e dello Historicism) perché tesa a mostrare che non tutta la

modernità sfocia nel totalitarismo, l’opera di Hayek – proprio perché trat-ta di un secolo caratterizzato da un’ineditrat-ta espansione delle competenze degli Stati che finisce per risolversi in una compressione delle libertà individuali – mantiene un’attualità che va ben oltre il momento storico in cui fu scritta. Ed è per questo, a cagione della tesi delle latenti potenzialità totalitarie delle democrazie ‘interventistiche’7 e della sostanziale identità tra il totalitarismo nazional-socialista e quello bolscevico-comunista, che

The Road of Serfdom suscitò un acceso ed aspro dibattito sull’inevitabilità

del socialismo.

La tesi di Hayek era infatti che soltanto il liberalismo o, meglio, il suo particolare modo di intenderlo, che si richiamava alla tradizione indivi-dualistica occidentale e di cui il diritto di proprietà e di contratto sono gli aspetti fondamentali e costituenti, poteva essere considerato l’antidoto al totalitarismo; soltanto il liberalismo fondato sulla triade lockeana che ha come nucleo i Property Rights. Non la democrazia che aveva invece accettato l’idea che la politica detenesse monopolisticamente il potere di

‘produrre diritto’ e che pensava che il diritto di proprietà potesse essere regolato, compresso e indirizzato verso finalità sociali che erano da una parte ispirate da un’etica più o meno utilitaristica e da un’altra (ma com-plementare) parte da una filosofia della storia che identificava il ‘miglior regime politico’ nel ‘socialismo scientifico’.

In tale prospettiva può essere letto anche il dibattito tra Hayek e Hans Kelsen; tanto che si potrebbe dire che anche il ‘positivismo giuridico’ è inteso da Hayek come uno dei responsabili dell’affermarsi della mentalità totalitaria.

Nell’Introduzione e nella Conclusione a Collectivist Economic Planning, del 1935, Hayek aveva infatti posto il problema della compatibilità tra pia-nificazione economica e democrazia escludendo che fosse possibile. La tesi hayekiana è che il regime che ne sarebbe risultato non soltanto non si sa-rebbe potuto considerare democratico nel significato liberale del termine, ma soprattutto che l’interventismo statale nella sfera economica avrebbe finito per trasformare il regime democratico in una democrazia totalitaria.

Reputando quello del rapporto tra democrazia ed economia come uno dei problemi centrali dell’epoca, Kelsen, rispondendo ad Hayek in Foundations

of Democracy, del 1955-1956, sosteneva invece che «né il capitalismo né il

socialismo sono essenzialmente, vale a dire per loro natura, collegati con un determinato sistema politico», dato che se

un sistema politico, come forma di governo, è in primo luogo una pro-cedura o un metodo per la creazione e l’applicazione di un ordinamento sociale, mentre i sistemi economici ne formano il contenuto, non vi è alcuna relazione necessaria tra un sistema politico e un sistema econo-mico determinati8

e obiettando che dall’erroneità della dottrina marxista circa il rapporto tra democrazia e socialismo, non deriva tuttavia che «la democrazia sia possibile solo in una economia capitalista».9

In The Constitution of Liberty, del 1960, Hayek ritorna sulla questione rispondendo, a sua volta, a quanto Kelsen aveva sostenuto circa la fine del-la libertà individuale a favore di una libertà collettiva e l’«emancipazione della democrazia dal liberalismo» e respingendo l’identificazione kelsenia-na tra Stato e ordikelsenia-namento giuridico perché

in questo modo il Rechtsstaat si trasforma in un concetto molto formale e proprio a tutti gli Stati, persino a uno Stato dispotico. Non esistono limiti possibili al potere del legislatore, e non esistono le ‘cosiddette

8 Kelsen, «Foundations of Democracy», p. 68; trad. it. pp. 258-259.

libertà fondamentali’; e qualsiasi tentativo di negare al dispotismo arbi-trario il carattere di ordinamento giuridico rappresenta ‘solo l’ingenuità e la presunzione del cosiddetto diritto naturale’. […] In breve, viene presentata come superstizione metafisica ogni atto di fede nella conce-zione tradizionale del rule of law.

La conseguenza di tutto ciò – non certo involontaria, dato che Hayek lo considera un socialista – è che le teorie di Kelsen aprirebbero «le porte alla vittoria della fascista e bolscevica volontà dello Stato». Ritenere che «lo Stato non deve essere vincolato dalla legge [law]» significa in realtà porre le premesse giuridiche di una concezione dello Stato non solo anti-liberale, ma potenzialmente totalitaria.10

Quel che vale la pena di sottolineare è sia l’importanza che Kelsen attri-buiva (per quanto ne dissentisse radicalmente) alle tesi di Hayek,11 sia che Kelsen respingeva l’«identificazione del collettivismo con il totalitarismo» sostenendo che «lo Stato moderno, ordinamento coercitivo centralizzato con una sfera di validità materiale alquanto vasta, mostra un grado di col-lettivizzazione molto più alto [del socialismo], senza avere necessariamente un carattere totalitario».12 Quel che ne consegue è che Kelsen coltivava una fiducia nella costituzione democratica come strumento per contenere i pur avvertiti rischi totalitari che stona decisamente con la sua sfiducia nella Natural Law, e della quale sembra prendere il posto nella sua filoso-fia politica come strumento tramite il quale contenere il potere. Kelsen, di conseguenza, sostenendo che

non vi sia alcuna ragione, basata su una sufficiente esperienza stori-ca […], per asserire che se il governo controlla direttamente i mezzi economici, e quindi indirettamente i fini culturali non economici che debbono essere attuati con i suddetti mezzi, il suo potere non possa essere limitato dalla proibizione costituzionale di dati atti legislativi, amministrativi e giudiziari caratteristica della democrazia capitalistica, ripone nella costituzione una fiducia irresponsabile perché ne affida la di-fesa o ai politici, o ai costituzionalisti. Finendo così per uccidere la stessa politica. L’esperienza totalitaria dell’Unione Sovietica, in definitiva, segna-va per Kelsen un fenomeno storico indubbio quanto non necessariamente inevitabile per via del fatto che, come l’interventismo in generale, così «la nazionalizzazione dei mezzi di produzione non esclude per sua

natu-10 Hayek, The Constitution of Liberty, pp. 345-350; trad. it. pp. 500-504.

11 In Kelsen, «Foundations of Democracy», le pagine dedicate alla critica di Hayek vanno da p. 75 a p. 84.

ra istituti giuridici che garantiscano la libertà di stampa, e tali garanzie possono essere non meno efficaci di garanzie analoghe in una democrazia capitalista».13

La polemica può così essere letta come un documento della debolezza della tesi asserente che la democrazia – e da quella data in poi per demo-crazia, in Occidente, piaccia o meno, si intenderà, con variazioni che sem-brano più che altro integrazioni, quella kelseniana – sia un rimedio ed un antagonista del totalitarismo proprio perché rimette il diritto di proprietà nelle mani della politica o delle interpretazioni dei costituzionalisti. Ma può essere anche letta come un dibattito concernente l’opportunità di attribuire

al mercato la possibilità di creare valori e regole di comportamento auto-nomi ed indipendenti dalla legislazione. Dal punto di vista di Kelsen tale

possibilità è quanto meno problematica perché significherebbe porre dei limiti alla legislazione, cioè accettare che in un sistema democratico esista-no sfere autoregolantesi, esista-non soggette al controllo della maggioranza e in grado di conseguire finalità specifiche. Dal punto di vista di Hayek, al con-trario, l’esistenza del mercato e delle regole che in esso si formano assume un valore emblematico che deve essere riferito non soltanto alla piena realizzazione delle libertà individuali, ma anche alla difesa dell’esistenza di una sfera i cui fini non siano soggetti alla volontà del potere politico.

Coerentemente ai valori della tradizione liberale che individua nello Stato uno strumento per la garanzia di valori prepolitici (libertà, vita e proprietà), e di un ordine di norme indipendente dal potere politico (dirit-to naturale), l’inten(dirit-to di Hayek è quindi di riaffermare l’esistenza di limiti all’esercizio del potere che siano esogeni rispetto alla politica, e di diritti che non siano soltanto il frutto della loro creazione o sanzione da parte di una maggioranza. Detto diversamente, di fronte al totalitarismo che ‘non ha Legge’, si tratta della riaffermazione della Common Law, del Rule of

Law e dei limiti dello Stato che derivano da quel processo di formazione

spontanea del diritto che non può essere subordinato al potere politico. Co-erentemente alla tradizione democratica (e al suo modo di intenderla) Kel-sen appare invece restio ad accettare che in un ordinamento democratico possano esistere fonti normative diverse ed indipendenti dalla legislazione; di qui la sua tesi che la democrazia possa convivere con la pianificazione economica.

Hayek ritorna in altre occasioni14 sulle tesi di Kelsen osservando che la sua ‘dottrina pura del diritto’ rappresenta «la definitiva eclissi di tutte le tradizioni del governo limitato» e la premessa teorica di quanti vedono nel principio del Rule of Law un’inaccettabile restrizione al potere della mag-gioranza e auspicano la fine della libertà individuale a favore di una libertà

13 Kelsen, «Foundations of Democracy», pp. 83-84; trad. it. pp. 290-291.

collettiva; ovvero l’«emancipazione della democrazia dal liberalismo». In questo modo le teorie di Kelsen spalancano «le porte alla vittoria della fascista e bolscevica volontà dello Stato».15

Quel che preme ad Hayek, in definitiva, non è tanto di mostrare che il po-sitivismo giuridico è ‘un’espressione ingenua della fallacia costruttivista’, e neppure che le sue tesi sull’origine del Diritto da un atto legislativo sono false, quanto mettere in luce come a fondamento dell’ideologia giuridica e politica di Kelsen sia una concezione dell’ordine come organizzazione.16

In questa prospettiva, Kelsen diventa un teorico della moderna

democra-zia totalitaria alla quale fornisce strumenti giuridici che prima mancavano,

e che possono essere indicati nel considerare illimitato il potere del legi-slatore, nel non porre la libertà individuale come un valore irrinunciabile e nel trasformare la libertà politica nella ‘libertà collettiva della comunità’ facendola dipendere dalle finalità politiche della maggioranza. La conse-guenza, venendo meno la possibilità di una valutazione razionale degli inte-ressi umani in conflitto, è che si finisce per attribuire alla decisione di una maggioranza mutevole il potere di risolvere i dibattiti politici e i problemi sociali17 senza però porsi il problema se quella ‘procedurale’ potrà essere una buona soluzione, o una soluzione che vada oltre l’orizzonte conosci-tivo e costituzionale di chi la adotta. Detto diversamente, la ‘democrazia procedurale’ è una forma politica immoderata ed instabile.

Alla luce di tale dibattito, le critiche che in The Road to Serfdom Hayek rivolge alle ‘democrazie interventistiche’ possono essere viste come esem-plificazioni di una critica alla tradizione democratica che tende a sottovalu-tare sia i pericoli connessi all’attribuzione del monopolio della produzione di diritto alla politica, sia il problema dell’esistenza di limiti esogeni al potere dello Stato, facendo così derivare tutto il diritto dalla legislazione ed attribuendo la funzione di controllo ad una corte costituzionale espres-sione degli organi politici.

Come si è accennato, l’interpretazione hayekiana delle origini del totali-tarismo si concentra più sul sistema di idee dello Scientism e dello

Histori-cism che sul marxismo.18 Tuttavia, pur considerando il totalitarismo come la

15 Hayek, The Constitution of Liberty, pp. 347 sgg.; trad. it. pp. 500 sgg. Come per Strauss (cfr. Natural Right and History, p. 4, nota 2; trad. it. p. 8, nota 2) anche per Hayek, il riferi-mento è alla Allgemeine Staatslehre; ma Hayek vede le stesse idee ribadite pure in Kelsen, «Foundations of Democracy».

16 Hayek, The Road to Serfdom, pp. 238-243.

17 Hayek, The Road to Serfdom, pp. 251-252.

18 Da questo punto di vista Hayek in effetti aggiunge poco, quasi a dar per scontata e a portare alle logiche conseguenze la critica di Böhm-Bawerk, «Zum Abschluss des Marxschen Systems», alla teoria marxiana del valore. Dunque il collettivismo bolscevico non come la realizzazione di un progetto inizialmente concepito da Marx, ma come l’esito, si potrebbe dire ‘inintenzionale’, di un errore di fondo della teoria marxistica del valore.

conseguenza inevitabile del fallimento della collectivist economic planning, Hayek vede il socialismo, e la sua propensione a considerarsi come il futuro e il destino della civiltà occidentale, in una dimensione culturale, filosofica ed economica più ampia nella quale esso gioca indubbiamente un ruolo di primo piano, ma non di protagonista assoluto.

Tale prospettiva si può cogliere già a metà degli anni trenta, allorché sembrava ad Hayek giunto il momento di indagare, criticamente, sulla credenza che una «regolazione deliberata di tutti gli affari sociali» sa-rebbe stata preferibile ad «un casuale gioco reciproco di forze individuali indipendenti». Quel che gli interessava era quindi il diffuso e trasversale entusiasmo per la pianificazione che in quegli anni si manifestava in maniera travolgente, e che è visto come la manifestazione economica di una mentalità diffusa che si propone di dare ordine al mondo dei prodotti dell’uomo applicando «la ragione all’organizzazione della società», onde forgiarla «deliberatamente in ogni dettaglio secondo gli umani desideri e i comuni ideali di giustizia». Anzi, sembrava ad Hayek che negli ultimi tempi, spostando la discussione sul socialismo da argomentazioni etiche e psicologiche ad argomentazioni aventi per oggetto ciò che sarebbe stato necessario per farlo funzionare, si fosse compiuto un passo estremamen-te significativo. Ciò che, tuttavia, non consentiva ancora di affrontare il problema vero, che veniva invece dato per scontato: se la pianificazione avrebbe potuto raggiungere ‘il fine desiderato’. Hayek intende quindi spostare la discussione proprio sul problema accantonato (e su ciò che aveva reso possibile pensare di eluderlo): vale a dire sulla convinzione secondo la quale la scienza economica «sia applicabile solo ai problemi di una società capitalistica (cioè a problemi nascenti da particolari si-tuazioni umane che non esisterebbero in un mondo organizzato su linee differenti)».19

Ma a chi più o meno implicitamente sosteneva che i problemi sociali fossero frutto del capitalismo e che un’organizzazione economica diversa non li avrebbe avuti, Hayek non oppone tanto argomentazioni di tipo poli-tico, economico, o epoli-tico, quanto argomentazioni legate a una teoria della